19 gennaio 2013

Joel Osteen, il predicatore sorridente della right nation

Osteen userebbe la Bibbia come se fosse una raccolta di quei bigliettini che si trovano nei Biscotti della Fortuna cinesi: “Basta invocare il verso giusto, e avrai salute, benessere e felicità”,




Il predicatore sorridente si chiama Joel Osteen, ha 43 anni, è texano e ha un fantastico viso da fotoromanzo. E’ la nuova star dell’evangelismo cristiano d’America, anche se gli sarà difficile emulare le gesta dell’ottantenne Billy Graham, ovvero del capo informale, ma riconosciuto, della miriade di chiese e sette cristiane che popolano gli Stati Uniti. A differenza di Graham, che al suo attivo ha anche la rinascita cristiana di George W. Bush, Osteen non ha rapporti con la politica e con il potere. Non frequenta presidenti, non è una figura ecumenica. Eppure ogni santa domenica che Dio manda in terra, 25 MILA PERSONE PAGANO IL BIGLIETTO PER ASCOLTARE LE SUE PREDICHE DAL PULPITO DELLA LAKEWOOD CHURCH DI HOUSTON. Lakewood è la più grande chiesa, o come la chiamano in America “mega-chiesa”, del paese.
Ce ne sono un migliaio negli Stati Uniti, con una media di oltre 3500 adepti ciascuna. Nel 1970 le mega-chiese erano soltanto dieci, quindici anni fa erano 250. Il fenomeno è crescente: ha avuto un boom dopo l’11 settembre ed è stato favorito dal fatto che le organizzazioni faith-based, cioè di culto, non pagano le tasse sui guadagni grazie al Primo emendamento della Costituzione americana sulla libertà religiosa. I guadagni sono enormi, grazie a tutte le attività correlate, ovvero ai corsi, alle pubblicazioni, ai libri, ai cd, ai siti web, alle stazioni radiofoniche e a tutto il resto. Ci sono anche società, come la Kingdom Ventures, specializzate nell’investire il denaro guadagnato e far diventare le chiese sempre più grandi e, infine, a trasformare le mega-chiese in mega-business. Il giro di affari potrebbe diventare ancora più significativo se alla Corte Suprema passasse l’interpretazione estensiva del Primo emendamento della Costituzione, vale a dire l’idea che le associazioni religiose non debbano essere vessate in alcun modo da Washington e quindi essere addirittura esentate dal rispettare i minimi sindacali per i dipendenti e dal pagare le imposte anche sulle attività non direttamente di scopo religioso.

No inferno, no dannazione
Cinque anni fa, Lakewood contava su cinque o seimila adepti, oggi ne ha trentamila e i sermoni di Osteen vengono trasmessi in diretta tv su tutto il territorio nazionale. Per contenere i fedeli, Osteen ha acquistato e rinnovato (per 95 milioni di dollari) il palazzo dello sport che ospitava i campioni del basket Nba, gli Houston Rockets. Nella nuova chiesa non ci sono croci, non ci sono iconografie religiose. Nessuno parla di inferno e dannazione. Nessuno punta il dito contro i peccatori. Nei sermoni Gesù non viene quasi mai evocato, se non alla fine e quasi per non dimenticarsi della ragione sociale.
Il messaggio del più popolare predicatore d’America è semplice – un po’ cristiano, un po’ psicologico – quasi un manuale orale di self-help: se vivi con integrità avrai sempre la possibilità di risalire la china. Lo scopo di Lakewood è quello di tirare su la gente, non di abbatterla. L’idea della sofferenza come virtù cristiana non fa parte del credo di Osteen, uno che non ha frequentato seminari e non è un teologo. I suoi sermoni sono ottimistici e parlano di questioni pratiche, della vita di tutti i giorni, della gestione del proprio tempo. La fede cristiana è un’introduzione al pensiero positivo. Secondo i critici, la sua è una “non-chiesa”, il suo predicare è troppo semplicistico. Osteen userebbe la Bibbia come se fosse una raccolta di quei bigliettini che si trovano nei Biscotti della Fortuna cinesi: “Basta invocare il verso giusto, e avrai salute, benessere e felicità”, ha detto un teologo americano alla tv Msnbc. Insomma è come se Osteen avesse annacquato il cristianesimo. Lui non demorde e spiega di avere un messaggio di speranza e di vittoria per la sua gente sicché non smetterà di predicare “di lasciar perdere il passato, di perdonare il prossimo e di non essere egoisti”.

PIÙ CHE UNA CHIESA, IL RINNOVATO PALAZZO DELLO SPORT SEMBRA UN FESTIVAL ROCK: dietro l’altare c’è un coro di cinquecento persone e un’orchestra di dodici elementi la cui musica (moderna, non da chiesa) viene diffusa con un impianto ad alta fedeltà. Le immagini di ciò che avviene sul palco sono proiettate su tre enormi megaschermi. Alla fine del sermone, sono pochi e timidi quelli che dicono Amen, mentre la maggioranza si alza in piedi e applaude come si fa all’assolo del chitarrista o al do di petto del tenore.
Il caso Lakewood non è unico, ma può illudere. Può far scattare il riflesso condizionato di chi, specie in Europa, legge questi fenomeni, queste americanate, come se fossero un declino consumista e fondamentalista dell’America. Non è necessario citare Alexis Tocqueville, cioè il primo ad aver spiegato lo spirito religioso degli americani, per accorgersi che è sempre stato così. Va detto, però, che se in questi anni il divario religioso tra europei e americani si è ampliato, è dovuto più alla crescita di “un’Europa di senza Dio” che a una maggiore religiosità dell’America.
L’Economist ha notato che secondo le più elaborate ricerche scientifiche la religione oggi è “molto importante” per il 60 per cento degli americani e “importante” per un altro 26 per cento. Ma anche che, nel 1952, le cifre erano superiori: 75 per cento e 20 per cento.
Ciò che è cambiato è il quadro delle chiese protestanti e un maggiore coinvolgimento nella politica dell’America religiosa. Le congregazioni più liberal hanno perso smalto a vantaggio delle chiese dove si interpreta la Bibbia come verità letterale che non ha bisogno di interpretazione. Sbaglia, però, chi crede che questo evangelismo radicale abbia radici esclusivamente nelle campagne e faccia presa prevalentemente su gente poco istruita. Al contrario, gli evangelici e affini sono più ricchi e meglio istruiti della media americana e basta frequentare una delle mega-chiese come Lakewood per accorgersi che tra i fedeli che cantano e pregano ci siano ingegneri, programmatori, medici e insegnanti. Non tutti gli evangelici, poi, sono bianchi e di destra, come ha detto il presidente dei democratici Howard Dean, accusando i repubblicani di essere “un partito di cristiani bianchi”. Almeno 25 milioni di evangelici sono neri e di centrosinistra, anche se lentamente si spostano a destra a causa delle politiche liberal del partito di Dean.

I liberal provano a recuperare
Ora i Democratici provano a metterci una pezza. Hillary Clinton predica moderazione, parla di valori, denuncia l’aumento delle interruzioni di gravidanza e torna all’idea che l’aborto debba essere “legale, sicuro e, soprattutto, raro”. L’ala centrista del partito, Democratic Leadership Council e Center for American Progress, ha deciso di investire su questa fascia di elettorato completamente abbondanata dalla sinistra americana, un errore che Bill Clinton non aveva commesso (anzi era stato lui a promuovere tutta una serie di misure a favore delle organizzazioni caritatevoli religiose). Eppure è difficile che i democratici di Hillary possano riuscire a colmare il vantaggio dei repubblicani sull’America religiosa, nonostante i bushiani non abbiano sempre governato secondo le indicazioni degli evangelici, dalla nomina del moderato John Roberts alla Corte Suprema, all’appoggio solo di facciata all’emendamento costituzionale contro il matrimonio gay, all’ultimissima decisione del leader al Senato, Bill Frist, di votare per il finanziamento della ricerca scientifica sugli embrioni.
Eppure, comunque vada, l’America religiosa sembra aver vinto: influenza i repubblicani e spinge i democratici a rincorrerla. L’origine della vittoria dell’America religiosa è, paradossalmente, quella che segnò la sua più scottante sconfitta: il 1973, quando cinque giudici della Corte Suprema resero l’aborto non soltanto legale o depenalizzato come nel resto del mondo, ma addirittura un diritto costituzionale, al pari del diritto di culto e di parola. L’America religiosa, e non solo quella, ha giudicato quella sentenza un affronto alla democrazia, un’usurpazione della sovranità popolare da parte di cinque giudici togati. L’aborto in America è stato imposto e ha sottratto al paese un dibattito nazionale, un voto parlamentare o un referendum ovvero un’occasione per decidere democraticamente, in modo condiviso e accettabile da tutti. Da allora la discussione, sempre accesissima, s’è spostata sulla composizione della Corte Suprema, sulla militanza dei giudici e sulle strategie per ribaltare quella sentenza, non sul tema dell’interruzione di gravidanza. I liberal, come ha scritto David Brooks sul New York Times, hanno perso la battaglia dei “valori” perché a causa di quella sentenza, e grazie a cinque o sei giudici supremi che la confermano, non hanno avuto più interesse e quindi occasione di parlare con la working class americana.

30 luglio 2005 Il Foglio