9 aprile 2014

Resurrezione di Gesù: Don Antonio Persili, "Le tracce della Risurrezione in Giovanni"

"L'errore più grande è quello di affermare che i racconti evangelici della risurrezione non sono storici, mentre lo sono fin nei minimi particolari.



Cosa vide Giovanni entrando nel sepolcro di Gesù la mattina del giorno di Pasqua? 
Cosa vide e cosa lo spinse a credere?

Don Antonio Persili ha compreso l'esatta traduzione delle parole che Giovanni usa per indicare la posizione del sudario, un dettaglio così importante da descrivere, tanto che l'evangelista dedica ad esso un intero versetto.

tratto da: Antonio Persili, Sulle tracce del Cristo Risorto. Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, Edizioni Centro Poligrafico Romano, Tivoli 1988.

Finalmente siamo giunti ad esaminare il brano in cui sono descritte le tracce della risurrezione.
Ci siamo preparati seriamente ad affrontare tutte le difficoltà di interpretazione e di traduzione con le ricerche sulle tradizioni funerarie ebraiche, quali risultano dalla Bibbia, dalla Mishna e dall'archeologia, e con l'analisi accurata dei racconti evangelici della sepoltura e della risurrezione.

Non abbiamo pregiudizi di nessun genere, idee preconcette, soluzioni già preparate; siamo pronti a cercare solo la verità, che consiste nel capire cosa esattamente ha visto Giovanni nel sepolcro.

Benchè il brano sia composto di soli nove versetti, assomiglia ad un breve ma intenso poema sinfonico.
I primi tre versetti, che descrivono la corsa della Maddalena dal sepolcro a Gerusalemme e dei due apostoli da Gerusalemme al sepolcro, costituiscono il preludio, veloce e concitato, carico di ansie e di timori, generati dalla paura, dall'ignoranza e dall'incredulità.

I tre versetti centrali, che descrivono la posizione delle "othónia" e del sudario, sviluppano il tema della conoscenza della verità, che placa le ansie e dissolve le paure, illuminando la mente e rassicurando il cuore sulla sorte dell'amato Maestro.

Gli ultimi tre versetti costituiscono l'epilogo, nel quale si afferma che la fede nella risurrezione nasce nel sepolcro, e cantano la gioia di chi si sente liberato per sempre dal male dell'ignoranza e del dubbio ed entra nella felicità perfetta del credente, che, sotto l'azione dello Spirito Santo, comprende il significato della Scrittura, che Gesù cioè doveva risuscitare dai morti.

Dopo l'analisi dei nove versetti sulla testimonianza della risurrezione, per approfondire ulteriormente l'argomento, prenderemo in esame prima i tre verbi, usati da Giovanni in questa pericope, per indicare l'azione del vedere e poi, alla luce di quanto abbiamo detto, criticheremo il modo con cui viene trattato l'evento della risurrezione in libri, scritti da esegeti di tendenze diverse.

5.A. IL PRELUDIO

Giovanni 20, 2-4:
(Maria di Magdala) corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!". Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.

La Maddalena, vista la pietra rimossa dall'apertura del sepolcro, affrettatamente aveva concluso che il corpo di Gesù era stato rubato e, senza frapporre indugi, corse verso Gerusalemme per portare la notizia ai due apostoli, che avevano una posizione preminente nel collegio apostolico: a Simon Pietro, che da tutti i seguaci di Gesù era riconosciuto come il capo, ed a Giovanni, che era il prediletto da Gesù, forse per la sua giovane età e per la sua intelligenza.

La notizia sconvolse i due apostoli. Pietro, che si trovava ancora in uno stato di prostrazione per aver rinnegato Gesù, sentì rinascere in sè una forza nuova che lo spingeva a muoversi e ad agire.
I due apostoli non camminarono, ma corsero con tutte le loro forze; Giovanni, che era più giovane, corse più veloce e giunse per primo al sepolcro.

5.B. IL CUORE DELLA TESTIMONIANZA

Giovanni 20, 5-7:
Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte.

Se questa è la testimonianza di Giovanni, si potrebbe anche ammirare la fede dell'apostolo, ma si dovrebbe dubitare molto della sua capacità di giudizio, perché in questa relazione non c'è niente che faccia pensare all'evento della risurrezione.
Che significato possono avere le bende per terra ed il sudario piegato in un luogo a parte? Possono significare solo l'opera di uno che non sa quello che fa, perché una cosa la lascia cadere a terra ed un'altra invece la piega e la ripone in un luogo a parte.
Forse si comporta in questo modo, perché il sudario, essendo piccolo, era facile da piegare, mentre le bende, essendo molto più grandi, era più difficile da arrotolare?

Se dovessi credere solo per questa testimonianza, io sarei incredulo e credo che molti condividerebbero questa mia incredulità.
Come per esempio Antoine Lion, che scrive: "Giovanni... vide e credette: diversamente dagli altri, egli, solo, giunge a credere senza l'appoggio di una apparizione, fondandosi unicamente sul segno della tomba vuota ed ordinata. Al di là di questo fatto che si poteva interpretare diversamente, egli vide, solo, a quanto pare, il compimento delle parole di Gesù" (77).
Dunque Lion, onestamente, ammette di non capire per quale motivo Giovanni abbia creduto, vedendo l'interno del sepolcro, e chiaramente fa capire di non condividere il giudizio del giovane apostolo, che sembra essere l'opposto dell'apostolo Tommaso.
Finchè la testimonianza del grande apostolo, che Gesù amava, sarà così malamente interpretata, Giovanni rimarrà veramente solo (come sottolinea Lion) a credere, senza l'appoggio delle apparizioni.
E non è giusto, perché tutti hanno il diritto di poter credere, senza avere apparizioni, specialmente noi del ventesimo secolo.
Esigere questo diritto non è in contrasto con quanto Gesù ha detto all'apostolo Tommaso, quando lo rimproverò per la sua incredulità: "Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!" (Gv 20,27).
Infatti non si pretende di vedere Cristo risorto e di sottoporlo ad un esame, per accertarne l'identità, ma si vuole solo comprendere dove sta, nella testimonianza di Giovanni, la forza persuasiva, che lo ha portato alla fede.

Salvatore Garofalo traduce così questi versetti: "Giunge anche Simon Pietro, che lo seguiva, e vede i pannilini per terra, e il sudario, che era sul capo di Gesù, non per terra con i pannilini, ma avvolto a parte, in un altro posto" (Gv 20, 5-7). Poi spiega in nota: "Il fatto che i pannilini e il sudario si trovavano ripiegati a parte escludeva una violenza fatta alla salma: se qualcuno avesse voluto rubarla o asportarla non avrebbe perduto tempo a disfare le fasciature ed a riporle in ordine" (78).
Questa spiegazione non è soddisfacente per due motivi: prima di tutto, perché si basa sul falso presupposto che tutto sia in ordine nell'interno del sepolcro, mentre i pannilini per terra indicano certamente disordine e forse anche violenza; in secondo luogo, perché la spiegazione potrebbe dimostrare solo che il corpo di Gesù non è stato rubato e non che il corpo di Gesù sia risorto, mentre Giovanni aveva concluso che Gesù era risorto.
Dunque Giovanni non ha visto quello che dice Salvatore Garofalo, ma qualche altra cosa di completamente diverso.

Inoltre ci possiamo domandare: se il sudario non l'hanno ripiegato i ladri, chi l'ha ripiegato? E perché costui non ha piegato anche i pannilini? Perché il sudario è stato messo in un luogo a parte? Quale può essere quest'altro luogo in un ambiente ristretto qual'è quello di un sepolcro monoposto?
Potremmo continuare a porci domande, che rimarrebbero senza risposta e non ci sarebbe altro da fare che credere senza capire.
Sembra quasi che per essere cristiani si debba avere una logica diversa da quella comune a tutti gli uomini. E ciò non è vero!
E' evidente che, nella relazione di Giovanni, le tracce della risurrezione sono rilevabili nella diversa posizione che hanno assunto, dopo la risurrezione, le "othónia" e il sudario, la cui trattazione costituisce il centro di questa quinta parte, che sarà preceduta da una chiarificazione sulla forma del sepolcro e seguita da una riflessione intorno ad una conferma indiretta della storicità della testimonianza petrina.


77) Antoine LION, «Leggere Giovanni, il quarto vangelo», Marietti, Torino 1976, p. 124.

78) Salvatore GAROFALO, «Il Nuovo Testamento» (tradotto dai testi originali e commentato), Marietti, Torino 1964, p. 277.


5.B.1. LA FORMA DEL SEPOLCRO 

Il sepolcro di Giuseppe d'Arimatea è il sepolcro di un ricco, scavato nella roccia viva, per contenere una sola salma.

L'archeologo Parrot scrive a questo proposito: "La tomba di Gesù era certamente del tipo a bancale con arcosolio: in una tomba a kokim, infatti, non sarebbe stato possibile mettersi a sedere (Mc 16,5; Gv 20,12). E' senza dubbio sulla tavola che furono deposti il sudario e i pannilini, che erano serviti per avviluppare il corpo (Lc 24,12; Gv 20,7)... Infatti, ci è riferito espressamente che uno dei primi testimoni della risurrezione, Giovanni, non vi entrò immediatamente, e che dovette chinarsi per vedere nell'interno del sepolcro (Gv 20,5). Questa osservazione è importante, perché le porte di un ipogeo sono così basse che per lo più bisogna chinarsi per attraversarle e gli occhi di un uomo, che rimane in piedi, vengono a trovarsi al di sopra dell'architrave della porta" (79).

Da respingere, invece, è la ricostruzione del sepolcro fatta da Werner Bulst, che, in base alle ricerche archeologiche di G. Dalman, ha ipotizzato che il sepolcro di Gesù non fosse «a banco», ma a forma di truogolo, scavato nella rupe (80).

Il Bulst propone questa ipotesi per vari motivi, che non risultano probanti, ma soprattutto perché, volendo difendere l'autenticità della Sindone, ritiene che il sepolcro a truogolo avrebbe favorito il formarsi delle impronte ortogonali sulla Sindone.

Ma l'ipotesi contrasta con l'affermazione di Giovanni, che, chinatosi, vede le fasce. Se il sepolcro fosse stato in forma di truogolo, non avrebbe potuto vederle.

Possiamo aggiungere che Giovanni vide la parte della pietra sepolcrale dove giacevano i piedi, altrimenti avrebbe visto anche il sudario; e che la salma non giaceva per terra, perché nei sepolcri dei ricchi, come dimostra l'archeologia, non è stata mai trovata una salma sul pavimento del sepolcro, e perché, se così fosse, Giovanni avrebbe visto tutte le tele, compreso il sudario.

Cosa rimane oggi del sepolcro di Gesù? Rimane un'edicola, che sorge al centro della Rotonda della Basilica del Santo Sepolcro, detta anche «Anàstasi», che, rinnovata più volte lungo i secoli, risale, nelle strutture fondamentali, all'epoca di Costantino.

Ma leggiamo quanto dice un'accurata «Guida di Terrasanta»: "L'interno dell'edicola è diviso in due parti. La prima parte corrisponde al vestibolo della tomba, è detto anche cappella dell'Angelo, essa si trova immediatamente davanti all'apertura del sepolcro. Infatti, la piccola porta, che immette nel secondo locale, tutta rivestita di marmo, è il passaggio originale della tomba, che era chiuso con una pietra rotonda. Al centro dell'atrio vi è una bassa colonna, che custodisce, sotto un vetro, un pezzo originario della pietra rotonda che chiudeva il sepolcro. Un'angusta porta (alta mt 1,33) immette nella stanza sepolcrale vera e propria. Sulla destra, un banco di marmo ricopre la roccia originale sulla quale riposò il corpo di Gesù dalla sera del venerdì santo al mattino di Pasqua" (81).

La stanza sepolcrale è piuttosto uno stretto corridoio, largo poco più di un metro e lungo poco più di tre metri. Sulla parete destra, rispetto all'ingresso, è scavato un loculo, sovrastato da un arco.
Non deve destare meraviglia che il Santo Sepolcro si trovi all'interno di una chiesa, perché l'imperatore Costantino, dopo la conversione, costruì basiliche su tutti i luoghi santi del cristianesimo: a Betlem costruì una chiesa sulla Grotta della natività; a Gerusalemme costruì la Rotonda dell'«Anàstasi» sul Santo Sepolcro, dopo averlo isolato dalle tombe circostanti e aver tagliato la roccia per ampio tratto; di fronte al Golgota costruì la Basilica, chiamata «Martyrium»; a Roma costruì una Basilica sulla tomba di San Paolo, deviando il corso del Tevere; e ancora a Roma costruì un'altra Basilica sulla tomba di San Pietro, spianando il colle Vaticano.

Oggi, la Basilica del Santo Sepolcro, che copre insieme il Golgota ed il Sepolcro, si presenta, all'interno della Città Santa, come una vecchia costruzione, incastrata tra altre vecchie costruzioni.
Chi entra, prova una grande delusione, perché tra altari, colonne e cappelle, non è facile rintracciare la collina del Golgota ed il sepolcro di Giuseppe d'Arimatea nel giardino vicino.


79) A. PARROT, «Golgotha e Santo Sepolcro», Ed.Paoline, Roma 1972, pp. 33-34.

80) W. BULST, «Nota archeologica sul sepolcro di Gesù», in «La Sindone, scienza e fede», Ed. CLUEB, Bologna 1983, p. 157.

81) E. GALBIATI, «Guida Biblica e turistica della Terrasanta», I.P.L., Milano 1980, pp. 167-198.


5.B.2. LA POSIZIONE DELLE FASCE 

La posizione delle "othónia" è indicata da Giovanni soltanto con due parole, ripetute però, sotto forma leggermente diversa, in ciascuno dei tre versetti che stiamo esaminando, per sottilinearne l'importanza: "tà othónia keímena".
Gli esegeti sono divisi sul significato da attribuire a queste due parole, che la Volgata Sisto-Clementina traduce: "linteamina posita", e la traduzione italiana, rende con la frase: "le bende per terra".
Per comprendere cosa Giovanni voglia dire è necessario procedere ad un'attenta analisi dei due vocaboli.

     a. Il sostantivo: "Tà othónia"

La traduzione di questo sostantivo è oggetto di vivace discussione tra gli esegeti ed è strettamente legata al significato della medesima parola, usata in Giovanni 19,40 ed in Luca 24,12.
Il sostantivo "othónia" (diminutivo di othóne) può avere molti significati: prima di tutto "pezza", "pannilino", "fascia"; poi "tessuto", "panno di lino"; inoltre "vela", "tela per vele", infine "veste di lino", "tunica leggera" (Vocab. Rocci).

Prendiamo in esame l'opinione di alcuni esegeti:

     a1. Per Alberto Vaccari il sostantivo "othónia" avrebbe il significato generico di "tele" e designerebbe ogni specie di manufatto: lenzuolo, bende, sudario.
Fonda questa convinzione sulla testimonianza di un papiro della John Rylands Library di Manchester, appartenente all'archivio di Teofane, un egiziano al servizio di Roma, del 320 dopo Cristo.
In questo papiro, in verità, "othónia" ha veramente un valore generico ed indica una grande varietà di manufatti (82).
Ma anche se nel papiro citato "othónia" ha il significato di "tele", nei vangeli può avere un significato diverso.

     a2. Per J. Blinzer le "othónia" sono delle "bende", ottenute da Giuseppe tagliando la sindone, perché Giovanni dice che Gesù fu legato e non avvolto.
Non è possibile legare un corpo con un lenzuolo, ma solo con le bende. Perciò "othónia" è da intendere come "bende" (83).
L'osservazione è pertinente, ma non è semplice avvolgere un corpo nudo con le bende, ed evitare, nello stesso tempo, di spargere il sangue di vita.

     a3. Per C. Lavergne il sostantivo plurale "othónia" è la stessa cosa che "sindón" e sarebbe stato usato da Giovanni al plurale, per indicare estensione e perciò significherebbe "lenzuolo grande".
Il Lavergne aggiunge che delle bende possono essere state usate per legare le mani ed i piedi, così come un sudario sarà stato usato per chiudere la bocca (84).
Ma rimane sempre una difficoltà: perché Giovanni, pur sapendo che Gesù, secondo i sinottici, è stato avvolto in una sindone, dice di aver visto delle "othónia"?
Giovanni non poteva valutare la grandezza del lenzuolo, perché era avvolto attorno al corpo di Gesù e perciò non aveva nessun motivo per usare una parola diversa o al plurale.

     a4. Per M. Balague la parola "othónia" ha il significato generico di "tele", come per il Vaccari, e perciò in Giovanni indicherebbe insieme sia il lenzuolo che le bende.
Adduce come prova il fatto che i sinottici usano la parola "sindone", ma che poi Luca, uno dei sinottici, usa il termine "othónia", quando Pietro visita il sepolcro (Lc 24,12). Perciò i due termini sarebbero equivalenti (85).
Questa soluzione suppone che la sepoltura sia stata fatta avvolgendo il corpo di Gesù in un lenzuolo, come dicono i sinottici. Ma, se Luca racconta che Pietro, dopo la risurrezione, vide nel sepolcro le "othónia" significa che sul corpo di Gesù fu operato qualche altro intervento.

     a5. Infine anche per A. Feuillet le "othónia" hanno il significato generico di "tele".
Giovanni avrebbe preparato il momento della scoperta nel sepolcro con il versetto 19,40 che contiene un modo di esprimersi che sembra illogico, ma è illuminante: "lo legarono con tele", invece di "lo avvolsero con tele".
Infatti, Giovanni lo scrive, - nota il Feuillet - avendo in mente lo spettacolo che poi avrebbe visto nel sepolcro dopo la risurrezione (86).
Ma forse è meglio tradurre ogni parola secondo il suo significato, piuttosto che fare delle congetture, anche se brillanti, e tradurre: "lo legarono con fasce". E, dopo la risurrezione, Giovanni vide le fasce.

    a6. Dopo aver dato conto delle opinioni di alcuni esegeti, ora illustro la mia traduzione ed interpretazione.

A mio parere, il significato più probabile del sostantivo "othónia", sia in questo brano che negli altri due sopra citati, è "fasce".
Nell'episodio di Lazzaro, Giovanni dice che il morto uscì dal sepolcro con le mani e i piedi legati con bende (cfr. Parte seconda 2.C.2.c.), ed usa il vocabolo "keiríai", cioè "bende", le quali erano appunto adatte a questo scopo (cfr. Parte seconda 2.D.).
Nel caso di Gesù, invece, trattandosi di avvolgere e legare il corpo intero, le bende non sarebbero state adatte, perché troppo piccole di altezza. Perciò Giuseppe usò le fasce che, avendo un'altezza maggiore, resero il lavoro più spedito e più efficiente per il versamento dei profumi.
A conferma di questa traduzione, si può consultare il Bonazzi (87), che traduce il sostantivo "othónion" con i seguenti vocaboli: "piccola pezza", "striscia di lino", "fascia" (da avvolgere i cadaveri); o anche il vocabolario dello Schenkl, che traduce: "picciol pezzo di lino fino; le bende, con le quali gli Ebrei solevano avvolgere i cadaveri NT" (88).
La parola "tà othónia" può avere più di un significato, ma in questo testo evangelico la logica del discorso esige che sia tradotta con la parola "le fasce".
Infatti, Giovanni non poteva avere l'intenzione di darle il valore di "tele", perché avrebbe opposto una parola dal significato generico ad una parola dal significato particolare: il sudario.
Non avrebbe avuto senso l'affermazione che "le tele erano distese ed il sudario non era disteso", come se il sudario non fosse anch'esso una tela.
La logica del discorso esige che la parola "tà othónia" indichi una tela in particolare, come il sudario.
La parola "tà othónia" non può neanche significare "le bende" nel senso di legature, per sostenere la sindone intorno al corpo di Gesù.
Infatti, se Giovanni avesse voluto darle questo significato, avrebbe dovuto aggiungere la parola "sindone" ed avrebbe dovuto esprimersi così: "Le bende e la sindone erano distese e il sudario non era disteso".
Le bende non potevano essere distese, senza che lo fosse anche la sindone, e, poichè le bende non avrebbero potuto coprire del tutto la sindone, essa sarebbe stata visibile.
Infine la parola "tà othónia" non può essere equivalente alla parola "sindone", perché non avrebbe avuto senso usare una parola al plurale, per indicare una tela in particolare, e perché la sindone avrebbe dovuto essere tenuta ferma da legature, che qui non verrebbero nominate.
Tutte queste difficoltà si risolvono, se si traduce la parola "tà othónia" con la parola "le fasce".
Infatti, è normale che questo tipo di tela sia indicata con il sostantivo plurale, come del resto anche in italiano.
La parola "tà othónia" indica le fasce e non le bende, intese come legature, perché Pietro e Giovanni non vedono la sindone, completamente nascosta dalla fasciatura.
La parola "tà othónia" indica una sola tela in particolare e perciò può essere usata logicamente in opposizione alla parola sudario.
E' vero che gli Ebrei non usavano avvolgere i cadaveri con le fasce, ma le particolari circostanze della morte di Gesù indussero Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo ad usare questo procedimento, forse normalmente usato per gli uccisi con spargimento di sangue, che ha avuto il pregio di rendere più evidenti le tracce della risurrezione.
Ma, per dimostrare la giustezza di questa interpretazione e traduzione, non è sufficiente far ricorso ai vocabolari, all'analisi letteraria, all'esegesi del testo, ma è necessario procedere anche alla ricostruzione della scena della preparazione del corpo di Gesù alla sepoltura, come gli investigatori, per scoprire l'autore di un delitto, ricostruiscono la scena in cui è stato commesso.

     b. Ricostruzione della scena della sepoltura.

L'opera da eseguire è la sepoltura del corpo di Gesù, che è privo delle vesti ed è deturpato da innumerevoli ferite, alcune delle quali con copiose colature di sangue.
I mezzi a disposizione sono: un rotolo di sindone (o tela) portata da Giuseppe d'Arimatea (Mc 16,46) e trentadue chili di una mistura di mirra e di àloe, portata da Nicodemo (Gv 19,40).
Abbiamo la testimonianza dei sinottici, che riferiscono il racconto di testimoni oculari, e dicono che il corpo di Gesù fu avvolto nella sindone e poi deposto nel sepolcro (Mc 16,46).
Abbiamo anche la testimonianza di un testimone oculare, secondo il quale il corpo di Gesù fu legato con fasce insieme ai profumi e poi deposto nel sepolcro (Gv 19,40). Lo stesso testimone dice che, entrato nel sepolcro, dopo la risurrezione, vide le fasce e il sudario.
Sappiamo inoltre che i morti per violenza e con spargimento di sangue dovevano essere seppelliti con il proprio sangue e perciò non dovevano essere nè lavati, nè unti, ma avvolti in un lenzuolo.
Con questi elementi a nostra disposizione, possiamo tentare di ricostruire come Giuseppe e Nicodemo prepararono il corpo di Gesù per la sepoltura.

     b1. La maggior parte degli esegeti che abbiamo citato afferma che la sepoltura di Gesù avvenne secondo il racconto dei sinottici.

Giuseppe avrebbe acquistato un lenzuolo, con esso avrebbe avvolto il corpo di Gesù e poi lo avrebbe deposto nel sepolcro.
Questa soluzione presenta gravi difficoltà.
Sappiamo che il corpo di Gesù fu preparato alla sepoltura su una pietra, che si trovava nei pressi del sepolcro, e che di lì fu trasportato nell'interno della tomba.
Ma come avrà fatto Giuseppe a sistemare il solo lenzuolo? Lo avrà lasciato disteso o lo avrà ripiegato? E, se lo ha ripiegato, come ha fatto a trasportare il corpo di Gesù senza far muovere il lenzuolo?
Lo ha legato con alcune bende, come dice il Vaccari: "Parecchie bende ne legavano i piedi, uno contro l'altro, le mani una sull'altra o, possibilmente, distese lungo i fianchi, altre ancora, probabilmente, per tenere la sindone aderente al corpo" (89).
Questa soluzione presenta molte lacune: perché non erano sufficienti alcune legature per tenere la sindone aderente al corpo; perché è del tutto ignorato l'uso degli aromi, che hanno invece una parte importante nella preparazione del corpo alla sepoltura; perché, quando Giovanni entra nel sepolcro dopo la risurrezione, non vede il lenzuolo tenuto fermo dalle bende, ma vede solamente le fasce.

     b2. La sepoltura è avvenuta secondo il racconto di Giovanni.

Giuseppe e Nicodemo, aiutati dai loro servi, avvolgono e legano con le bende o con le fasce il corpo di Gesù, che giace nudo sulla pietra dell'unzione e versano fra esse i profumi.
Ma, per quanto stiano attenti, non possono evitare che la mistura vada a diretto contatto del corpo di Gesù. E questo doveva essere assolutamente evitato, per non toccare il "sangue di vita".
Inoltre, loro malgrado, Giuseppe e Nicodemo, per procedere in questo tipo di sepoltura, sarebbero stati costretti a palpeggiare il corpo di Gesù, per spostarlo ora a destra ora a manca, sicchè il sangue si sarebbe inevitabilmente attaccato alle loro mani. Sarebbe stata una scena difficile da sostenere per un ebreo, anzi impossibile.
Infine, come poteva essere assorbita quella gran quantità di profumi, se il corpo di Gesù era ricoperto solo dalle bende o dalle fasce?
Anche questa ricostruzione è impossibile.

     b3. La sepoltura di Gesù è avvenuta secondo i racconti dei sinottici ed insieme secondo il racconto di Giovanni.

Giuseppe d'Arimatea, aiutato dai suoi servi, avvolge il corpo di Gesù in una tela subito dopo aver deposto Gesù dalla croce e, così avvolto, lo trasporta sulla pietra dell'unzione, avendo cura di non toccare assolutamente il corpo di Gesù con le mani.
Sembra che i sinottici si siano preoccupati di sottolineare il fatto che Giuseppe, avvolgendo il corpo di Gesù nella tela, eseguì alla lettera la prescrizione di seppellire il sangue vivo con la salma.
Infatti questa prescrizione, messa poi in iscritto da un testo rabbinico, che abbiamo già citato (cfr. Parte seconda 2.F.), tra l'altro diceva: "Si metta solo sui suoi vestiti una copertura e si seppellisca anche la terra su cui eventualmente era caduto il sangue".
La tela costituisce appunto la copertura, che isola il corpo di Gesù da qualsiasi contatto esterno, ma non è la preparazione alla sepoltura, che invece viene descritta da Giovanni (Gv 19,40).
Le parti sovrabbondanti della tela vengono ripiegate accuratamente al di sopra del corpo. Poi, mentre alcuni tengono ferme le ripiegature, Giuseppe provvede ad avvolgere e legare il corpo di Gesù con le fasce, mentre Nicodemo versa la mistura profumata, che viene assorbita internamente dal lenzuolo ed esternamente dalle fasce.
Al termine, il corpo di Gesù, eccetto il capo, è tutto avvolto nelle fasce, che ricoprono e tengono fermo il lenzuolo.
Quando Giovanni entrò nel sepolcro, dopo la risurrezione, vede, appunto, le fasce.
Tutte le tele occorrenti (la grande tela, le fasce ed il sudario) furono preparate, secondo le esigenze, dallo stesso Giuseppe d'Arimatea, tagliandole dal rotolo di sindone.
Ma comunque sia stato fatto l'avvolgimento del corpo di Gesù, il segno della risurrezione consiste nella posizione che le "othónia" e il sudario presero dopo la risurrezione.
Perciò è importante il verbo, che ora ci accingiamo a trattare.

     c. Il verbo "keímena".

Il verbo "keímena" è il participio di "keímai", che corrisponde al latino "jaceo" e significa: "giacere, essere disteso, seduto, steso, orizzontale; si dice di una cosa bassa in opposizione ad una elevata, eretta, come per esempio il mare calmo rispetto al mare agitato" (vocab. greco Bonazzi).
Perciò il significato che Giovanni vuol dare a questo verbo è quello di far risaltare che prima le fasce erano rialzate (come un mare agitato), perché all'interno c'era il corpo; dopo la risurrezione, invece, le fasce erano abbassate, distese (come un mare calmo), giacendo nel medesimo posto in cui si trovavano quando contenevano il corpo di Gesù.
E' arbitrario farle giacere per terra, perché, se così fosse, Giovanni avrebbe dovuto dirlo espressamente, aggiungendo una determinazione di luogo, se esso fosse stato diverso da quello, in cui le fasce si trovavano.
La Volgata nell'edizione Sisto-Clementina traduce con il participio "posita", che rende bene l'idea delle fasce distese e vuote, perché il verbo "ponere" significa appunto "mettere giù".
Perciò le due parole "ta othónia keímena" si possono tradurre: "le fasce distese", ma intatte, non manomesse, non disciolte.

I tre versetti, che costituiscono il cuore della testimonianza, contengono in realtà due testimonianze, quella di Giovanni e quella di Pietro.
Nel versetto quinto, Giovanni testimonia di aver scorto "le fasce distese" sulla pietra sepolcrale, senza entrare nella camera mortuaria, chinandosi e gettando lo sguardo all'interno del sepolcro, attraverso la bassa apertura, di cui abbiamo parlato nel paragrafo sulla "forma del sepolcro".
Il giovane apostolo non ci comunica la sua reazione a questa scoperta. E' certo che non credette subito alla risurrezione, iniziò però il cammino della fede.
Nel versetto seguente, il sesto, Giovanni narra l'arrivo di Simon Pietro, che entrò immediatamente nel sepolcro e rimase in contemplazione di ciò che Giovanni aveva già scorto: "le fasce distese".
Le "fasce distese" costituiscono la prima traccia della risurrezione: era infatti assolutamente impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce, semplicemente rianimato, o che fosse stato asportato, sia da amici che da nemici, senza slegare le fasce o, comunque, senza manometterle in qualche maniera.
Questa traccia sarebbe stata sufficiente per credere nella risurrezione, ma nel sepolcro v'era una traccia più sorprendente, che Pietro ebbe la ventura di vedere per primo: la posizione del sudario.


82) A. VACCARI, «Archeologia e Scienze affini di fronte al sacro testo dei Vangeli», in AA.VV. «La Sacra Sindone nelle ricerche moderne», Torino, (Lice-R. Berruti) 1950 (Atti del Convegno Nazionale 1939), pp. 141-152; «Sindone, bende e sudario nella sepoltura di Cristo» in AA.VV., «Secoli sul mondo», Marietti, Torino 1955, pp. 438-442.

83) J. BLINZER, «Othónia und andere Stoffbezeichnungen im "Waschekatalog" des Agypters Theophanes und im Neuen Testament» in «Philologus» 99 (1955) pp. 158-166; "Sindon" in evangeliis (Rectificatio), in VD 34 (1956) pp. 112-113.

84) C. LAVERGNE, «La preuve de la résurrection de Jésus d'apres Jean 20,7; Le sudarium et la position des linges apres la résurrection; Le corps glorieux et la preuve que Jésus est ressuscité», Estratto dai Quaderni «Sindon» nn. 4 e 5, Anno III, Torino 1961.

85) M. BALAGUÉ, «La prueba de la resurreccion (Jn 20, 6-7)», in «EstBib», 25, 1966, pp. 169-192.

86) A. FEUILLET, «La découverte du tombeau vide en Jean 20,3-10 et la foi au Christ ressuscité», in «Esprit et vie» 87 (1977) pp. 257-266, e pp. 273-284; «L'identification et la disposition des linges funeraires de la sépolture de Jésus d'après les données du Quatrième Evangile», in P. COERO-BORGA, «La Sindone», n. 3, pp. 239-251.

87) B. BONAZZI, «Dizionario greco-italiano», Napoli 1907.

88) C. SCHENKL, «Vocabolario greco-italiano», Vienna, tradotto da Francesco Ambrosoli.

89) A. VACCARI, «Sindone, bende e sudario nella sepoltura di Cristo» in AA.VV., «Secoli sul mondo», Marietti, Torino 1955, pp. 442.


5.B.3. LA POSIZIONE DEL SUDARIO

Nell'interno del sepolcro non erano visibili solo le "fasce distese", ma vi era, visibile, anche "un sudario".
Giovanni riferisce la testimonianza di Pietro circa la posizione di questo sudario nel versetto settimo.
Se è importante, per la fede di Giovanni, la posizione delle fasce, lo è molto di più la posizione del sudario.
E' una posizione così sorprendente che è necessario un intero versetto di venti parole per descriverla.
Cercheremo di analizzare accuratamente queste parole, per comprenderne il messaggio.

     a. "Kaì tò soudárion". "E il sudario".

Il sudario, come abbiamo visto nell'episodio di Lazzaro, non era altro che un fazzoletto, usato, come dice l'origine della parola, per asciugare il sudore.
E' certo che il sudario, al tempo di Gesù, non aveva uno specifico uso funerario e solo accidentalmente poteva essere usato in occasione della sepoltura di un morto.
Solo più tardi, sotto l'influsso di una errata interpretazione di questa pericope, si è fatta una terribile confusione, per cui il sudario è diventato un panno mortuario.
Si è creduto perfino che il sudario di Giovanni e la sindone dei sinottici fossero due parole equivalenti; e, quel che è peggio, si è creduto che sia l'uno che l'altra fossero delle tele funerarie, delle coltri mortuarie, come per esempio dice il Vignon (90).
Un fazzoletto è diventato un lenzuolo funerario!
Questa incredibile confusione di termini ha talmente complicato la testimonianza di Giovanni da renderla incomprensibile.
La traduzione di queste tre parole non presenta difficoltà alcuna, ma è necessario sapere che il sudario è un fazzoletto di tela, di forma quadrata o rettangolare, che poteva avere dai sessanta agli ottanta centimetri di lato, usato normalmente per asciugare il sudore, per pulire il naso, insomma per usi igienici, che solo in casi particolari poteva essere anche utile per usi funerari.
Naturalmente, la traduzione esatta è: "E il sudario".

     b. "Hò ên epì tês kephalês autoû". "Che gli era stato posto sul capo".

Giovanni introduce questo inciso nella testimonianza di Pietro, per mettere in guardia il lettore dal credere che Pietro stia parlando dell'altro sudario, che si trovava all'interno della grande tela, come mentoniera, e che perciò non era visibile.
Giovanni insomma precisa che Pietro ha visto il sudario, che stava all'esterno, sul capo di Gesù, e non quello che stava all'interno, intorno al capo di Gesù.
Esaminiamo l'opinione degli esegeti intorno a questo sudario: alcuni pensano che Pietro intenda parlare proprio del sudario-mentoniera; altri invece affermano che Pietro non può parlare del sudario-mentoniera, perché non lo vede, ma di un sudario, che sta sul capo e perciò visibile; questi stessi poi hanno pareri diversi nello stabilire la posizione di questo sudario sul capo di Gesù.
Queste sono le opinioni intorno al sudario:

     b1. Alcuni, come abbiamo già detto, (cfr. Parte quinta 5.B.2.a3.), hanno identificato il sudario con la sindone, rendendo impossibile la comprensione della testimonianza di Pietro.

     b2. Altri, come A. Vaccari, C. Lavergne, M. Balague, A. Feuillet, i cui lavori abbiamo citato a proposito del significato della parola "tà othónia", identificano questo sudario con il sudario-mentoniera.
La prova della risurrezione consisterebbe nel fatto che le tele erano distese ed intatte sulla pietra sepolcrale, fuorchè dalla parte del capo, dove le tele sarebbero rimaste sollevate, a causa del sudario-mentoniera, che, rimasto avvolto ed arrotolato, le sosteneva dall'interno.
Ma giustamente il professor Delebecque denunciò l'inconsistenza di questa interpretazione, che presenta molti punti deboli, primo fra tutti il fatto che il sudario-mentoniera non risultava visibile all'esterno, mentre Pietro e Giovanni vedono con i propri occhi questo sudario (91).

     b3. Infine altri fanno derivare la parola "soudárion" dalla parola aramaica "soudarâ", usata per indicare un grandissimo telo, come abbiamo già detto (cfr. Parte seconda 2.D.).

     b4. Scartata dunque l'ipotesi del sudario-mentoniera e scartate le altre due che identificano il sudario o con la sindone o con un telo grandissimo, e accettato che Giovanni intendeva parlare di un sudario che stava sul capo di Gesù, all'esterno perciò della grande tela, gli esegeti si trovano di nuovo discordi nello stabilire il suo esatto impiego.

- G. Ghiberti riconosce che dall'esame dei testi, in cui si trova la parola "sudario" emerge che il senso prevalente è quello di sudario posto sul volto del cadavere all'interno della sindone. Ma, in questo caso, non sarebbe stato visibile. E Pietro non poteva parlare di un sudario che non vedeva.
Poi, ipotizzando che il sudario sia sopra la sindone, si domanda perplesso quale funzione svolga: "Nel caso invece che il velo ricopra il lenzuolo, non si comprende bene che cosa starebbe a fare" (92).
Se Giuseppe d'Arimatea lo ha posto all'esterno aveva le sue buone ragioni, che illustreremo tra breve.

- R. Schnackenburg, nel suo commento al vangelo di Giovanni, dice che il sudario era un velo posto sul volto e non una mentoniera (93).
Non specifica se fu posto sopra o sotto la grande tela.

- Si può pensare che il sudario fosse posto sul capo a modo di cuffia, all'esterno della sindone e che non velasse il volto.
Hanno questa opinione quelli che accostano le fasce funerarie di Gesù a quelle della natività; e nel sudario vedono la cuffia.

- A me sembra che il sudario sia stato posto su tutto il capo di Gesù.
Infatti Giovanni usa la parola "kephalê", che corrisponde al latino "caput" e perciò vuol significare "capo" in opposizione al "tronco".
Questo sudario, come precisa la testimonianza di Pietro al termine del versetto, è avvolto attorno al capo di Gesù e svolge la funzione che le fasce svolgono per il resto del corpo.
Giuseppe non ha reputato opportuno fasciare anche il capo con le "othónia", ma si è fermato al collo. A questo punto, per non lasciare le piegature della sindone in disordine e per non lasciare gli unguenti esposti all'aria senza protezione, avvolse il capo di Gesù con un sudario.

Dunque i sinottici dicono che il corpo di Gesù, tutto intero (capo e tronco) fu avvolto in una sindone; Giovanni aggiunge che al di sopra di questa sindone c'erano le fasce che avvolgevano e legavano il tronco del corpo di Gesù, mentre un sudario avvolgeva e legava il capo.
Per esprimere il concetto di avvolgere, Giovanni, per il sudario, usa lo stesso verbo "entylísso", usato da Matteo e Luca, per indicare l'avvolgimento della sindone.
Questa interpretazione è in perfetto accordo con quanto Pietro e Giovanni videro, entrando nel sepolcro: la fasce ed il sudario.
Forse è meglio tradurre la frase conservando l'andamento della proposizione giovannea: "che era sul capo di lui".

     c. "Ou metà tôn othoníon keímenon". "Non per terra con le bende".

Pietro comincia col determinare quale non era la posizione del sudario.
Secondo la traduzione italiana "non era per terra con le bende".
In realtà, Pietro vuole dire che il sudario non è disteso sulla pietra sepolcrale.
I matematici greci dell'antichità usavano l'espressione "keímenon schéma", nel senso di "figura in piano, orizzontale" (vocab. greco Rocci).
Pietro vuol dire la stessa cosa: le fasce erano distese in piano, si trovavano in posizione orizzontale, mentre il sudario non era in posizione orizzontale, ma in posizione verticale, cioè rialzata.
Perciò la traduzione della frase è: "Non con le fasce disteso".

     d. "Allà khorìs entetyligménon". "Ma piegato a parte".

Pietro, come era presumibile, continua a spiegare qual era l'esatta posizione del sudario.
L'infelice traduzione italiana distrugge la mirabile traccia, che Pietro ha rilevato con grande cura ed ha descritto con laconicità e chiarezza.
Infatti la traduzione contiene tre errori che stravolgono la testimonianza di Pietro.

     d1. Prima di tutto, il participio "entetyligménon" è stato tradotto, arbitrariamente, con il participio italiano "piegato" invece che con "avvolto". Il verbo "entylísso" corrisponde ai verbi italiani: "avvolgo, involgo, ravvolgo" (vocab. greco-italiano Rocci).
Conferma questo significato il fatto che il verbo "entylísso" deriva dal sostantivo "entyle", che corrisponde all'italiano "accappatoio, coperta" e perciò non può assolutamente avere il significato di "piego", perché l'accappatoio e la coperta servono per avvolgere qualcuno o qualcosa e non per piegare.

     d2. Inoltre, è vero che l'avverbio "khorìs" significa, in italiano, "separatamente, a parte, in disparte" e, per questo motivo, la Volgata rende la frase in latino "sed separatim involutum", cioè "ma separatamente avvolto". Ma è anche vero che lo stesso avverbio, in senso traslato, può significare "differentemente, al contrario" (vocab. greco-italiano Rocci).
Cioè l'avverbio "khorìs" può assumere due significati: quello locale, che è quello originario, e quello modale, che è quello traslato.
Pietro vuol dare all'avverbio "khorìs" il significato modale, perché la logica della sua testimonianza consiste nell'opporre la posizione assunta dalle fasce (distese), a quella, diversa, assunta dal sudario (avvolto).
Non ha senso perciò tradurre l'avverbio "khorìs" con l'avverbio italiano "separatamente", perché non corrisponde alla dinamica del pensiero di Pietro, invece è logico e naturale tradurlo con l'avverbio "al contrario", perché con tale avverbio si chiarisce e si completa l'opposizione trai due modi di essere delle fasce e del sudario.

     d3. Infine la traduzione italiana separa l'avversativo "allà" dall'avverbio "khorìs" e malamente traduce "ma piegato (in un luogo) a parte", come se il sudario, magicamente piegato da qualcuno, fosse emigrato, per altro inspiegabile mistero, in un luogo diverso da quello in cui si trovavano le fasce.
Pietro, intenzionalmente, ha posto "khorìs" tra l'avversativo ed il verbo, perché l'avverbio ha la duplice funzione di precisare sia l'avversativo che il verbo.
L'avverbio "khorìs" non deve essere tolto dal posto che occupa, anche perché, insieme con l'avversativo "allà", oppone "keímenon", cioè disteso, a "entetyligménon", cioè avvolto: "Non disteso, ma al contrario avvolto".

Concludendo, la frase si deve tradurre in modo da rendere l'idea che il sudario si trova in una posizione diversa da quella delle fasce e non in un luogo diverso.
Pietro contempla le fasce distese sulla pietra sepolcrale e, sulla stessa pietra sepolcrale, contempla anche il sudario, che, al contrario delle fasce, che sono distese, è in posizione di avvolgimento, anche se non avvolge più nulla.
La traduzione esatta della frase è: "Ma al contrario avvolto".

     e. "Eis héna tópon". "In un luogo".

Queste tre brevi parole, benchè semplicissime, presentano gravi difficoltà di traduzione e perciò anche di interpretazione.
I grecisti si sono divisi in due schiere: da una parte, quelli che vorrebbero tradurle con l'espressione italiana: "nello stesso luogo", o "esattamente al suo posto" o "nella medesima posizione" o con altre espressioni simili; dall'altra, quelli che invece negano recisamente la possibilità di una tale traduzione e interpretano al contrario: "in un luogo" o "in un luogo a parte", o "in un altro posto", o con altre espressioni simili.

     e1. Difendono la prima interpretazione: A. Feuillet e M. Balagué.

Il Feuillet dà all'aggettivo numerale "heîs" il valore ordinale "prôtos", per cui Pietro avrebbe visto il sudario "nel primo luogo", cioè "nello stesso luogo", dove si trovava prima della risurrezione.
Il Feuillet crede opportuno aggiungere anche un avverbio, per rendere meglio il pensiero dell'apostolo, e traduce: "Esattamente al suo posto".
Il biblista francese, come abbiamo già accennato, ritiene che il sudario, di cui si parla, sia la mentoniera, rimasta rigida (egli dice: arrotolata ed avvolta) nell'interno della Sindone.
Per conseguenza, la Sindone sarebbe stata tutta distesa sulla pietra sepolcrale, eccetto dalla parte del capo, dove sarebbe stata tenuta sollevata dalla mentoniera, rimasta rigida nell'interno (94).
Questa soluzione contrasta con la testimonianza di Pietro, che dichiara di aver visto il sudario, mentre la mentoniera non era visibile; inoltre il Feuillet pensa che il corpo di Gesù sia stato avvolto solo nella Sindone, tenuta ferma con legature, ma, come abbiamo già detto, ciò è impossibile, soprattutto dal punto di vista della pratica realizzazione.
Il Balagué considera l'espressione "eis héna tópon" un semitismo con il quale Pietro vuole esprimere il concetto: "nello stesso luogo".
Infatti, aggiunge il Balagué, se Pietro avesse voluto dire che il sudario era in un altro luogo, avrebbe detto: "eis héteron tópon", come vien detto negli Atti: "Pietro... uscì e si incamminò verso un altro (héteron) luogo" (At 12,17) (95).
La Volgata traduce questa frase: "In alium locum".
Bisogna convenire con Balagué che l'espressione "eis héna tópon" non può significare "in un altro luogo" e bisognerà tenerne conto quando si cercherà di comprenderne il vero significato.
In verità, sembrerebbe che "eis héna tópon" si debba interpretare "nello stesso luogo", anzi addirittura "nella medesima posizione".
Infatti l'aggettivo numerale "heîs", sorretto dalla preposizione "eis" prende il significato di "stesso, medesimo", come per esempio: "eis én" (in uno, insieme); oppure "eis mían boulén bouleúein" (essere di uno stesso parere, cioè, all'unanimità) in Iliade ed in Tucidite (cfr. Vocab. Rocci e vocab. Schenkl).
Perciò, bene avrebbe tradotto la Volgata Sisto-Clementina "in unum locum", che significa "nello stesso luogo" o, ancor più chiaramente, "nella stessa posizione".
Infatti l'aggettivo numerale "unus" può avere due significati particolari: da solo o unito con "solus", come rafforzativo, significa "uno solo" (Credo in unum Deum = Credo in un solo Dio); da solo o unito con "idem", come rafforzativo, significa "lo stesso, il medesimo" (uno tempore = nel medesimo tempo), come si legge in Cicerone e Cesare, (cfr. Vocab. latino Calonghi).
L'"unum" di Pietro assumerebbe, qui, questo secondo significato particolare.
Il sudario sarebbe rimasto "nella medesima posizione" o "nello stesso luogo", mentre le fasce avevano cambiato posizione perché erano distese.
Non presenta difficoltà il fatto che la preposizione "eis" con l'accusativo denota direzione o movimento verso un luogo.
Infatti, non sempre la preposizione "eis" con l'accusativo è usata per indicare un moto a luogo in atto, bensì può essere anche usata per indicare uno stato in luogo, conseguente di un moto a luogo, già avvenuto in precedenza, come si legge in taluni vocabolari greci: "Ma talvolta si trova la preposizione "eis" con l'accusativo con verbi di quiete (invece che "en" col dativo), quando lo scrittore ha avuto in mira il movimento fatto prima di giungere allo stato di quiete" (Vocab. greco Sanesi) (96).
"Eis" con l'accusativo si trova anche con i verbi di stato in luogo, perché la mente in certa guisa premette l'idea di arrivarci (Vocab. greco Bonazzi).

     e2. Difendono la seconda interpretazione valenti grecisti, come Edouard Delebecque.

Essi sostengono che in nessun caso "eis héna topón" della testimonianza di Pietro, riferita nel vangelo di Giovanni, può significare "nello stesso luogo".
Il Delebecque così scrive a Bruno Bonnet-Eymard a questo proposito: "No, non può avere questo significato. Potrete citare Gn 1,5 e 8,13, in cui "mía" sembra un ordinale, mentre si tratta del "giorno uno" ("mía" femminile) e del giorno uno del primo (prôtos) mese", in contrapposizione a "deúteros". E questo senso apparente si trova solo nella traduzione dei Settanta, mai nel Nuovo Testamento, in cui il primo si dice sempre "prôtos" e mai "heîs". Non appellatevi al greco classico ed alle iscrizioni in cui, qualche volta, "heîs" può significare "primo", ma soltanto se è accoppiato ad un aggettivo ordinale. In San Giovanni "heîs" non può significare che "uno", o avere anche il senso dell'indefinito "tìs". Il senso di "primo" è impossibile!" (97).
La risposta del Delebecque è sulla stessa linea di quanto afferma M. Zerwick nel suo manuale di greco biblico: "Alla generale evoluzione della lingua greca (come anche delle altre lingue) appartiene che già nel Nuovo Testamento il numerale "heîs" prenda il posto di "tìs" e divenga quasi un articolo indeterminativo (coll'aiuto insieme dell'influsso semitico: dell'ebraico "'ehad" e dell'aramaico "had"): "heîs grammateús" (Mt 8,19; cfr. Mc 9,17; 10,17); "eperotêso hymâs héna lógon" (Mc 11,29)... ma i due si possono trovare anche insieme: "heîs tis" (Lc 22,50)" (98).
Perciò l'espressione "eis héna tópon" si dovrebbe tradurre o "in un luogo" oppure "in qualche luogo".

Sono debitore di queste delucidazioni al professor Mario Cantilena, dell'Università di Venezia, a cui va il mio ringraziamento.
Esaminando attentamente le due opposte traduzioni, si deve convenire che la seconda, propugnata da quei grecisti che non hanno soluzioni precostituite da difendere, è più logica e più conforme alla situazione, in cui si trova Pietro, di quanto lo sia l'altra, che pure è così allettante.
Infatti Pietro contempla le fasce e il sudario nell'interno del sepolcro, senza fare alcun riferimento alla loro posizione prima della risurrezione.
Perciò le espressioni "esattamente al suo posto" o "nella medesima posizione" non hanno alcun senso nella testimonianza di Pietro, perché egli vuole stabilire il confronto tra la posizione delle fasce e quella del sudario.
Le fasce ed il sudario, che sono sotto gli occhi di Pietro e che egli contempla sulla pietra sepolcrale rendono errata anche ogni traduzione che interpreti l'"eis héna tópon" come se il sudario fosse in un altro luogo, in disparte, perché il sudario è sotto gli occhi di Pietro che, senza muoversi, anzi, senza spostare lo sguardo, lo contempla insieme con le fasce.
Ora ci troviamo in una situazione veramente imbarazzante.
La traduzione estremamente significativa "nella medesima posizione", che darebbe senso a tutto il versetto, è grammaticalmente errata ed insostenibile, non solo nell'ambito del greco biblico ma anche della logica del pensiero di Pietro.
La traduzione grammaticalmente esatta "in un luogo" è del tutto inespressiva e rende il versetto oscuro.
Gli esegeti, fermi sulle loro posizioni, non tentano neanche nuove vie, per cercare di capire la testimonianza dell'apostolo, fondamentale per stabilire la storicità della risurrezione di Gesù.

     e3. In verità, esiste una terza traduzione, grammaticalmente esatta, dell'espressione "eis héna tópon", che restituisce alla testimonianza di Pietro tutto il suo valore di descrizione precisa e vivace.

Leggiamo, per intero, il versetto settimo, secondo la nuova interpretazione, inserendo, nel finale, la versione "in un luogo" sostenuta dai grecisti : "E il sudario, che era sul capo di lui, non con le fasce disteso, ma al contrario avvolto in un luogo". La traduzione "in un luogo" toglie al versetto ogni vigore perché lo conclude con una espressione indeterminata; non chiarisce, ma piuttosto confonde il significato della testimonianza.
Il versetto, che è stato inserito, per descrivere la posizione del sudario, termina affermando che non si sa dove esso sia.
La testimonianza di Pietro diventa assurda, perché egli avrebbe detto: "E il sudario (inizio del versetto) è in un luogo (fine del versetto)".
A parte l'assurdità della testimonianza, dalla lettura del versetto risulta evidente che Pietro vuole contrapporre la posizione delle fasce a quella del sudario e che non vuole contrapporre il luogo in cui si trovano le fasce al luogo in cui si trova il sudario, perché, in questo caso, avrebbe dovuto dire espressamente in quale luogo si trovavano le fasce.
Cioè, Pietro avrebbe dovuto precisare che la fasce erano distese sulla pietra sepolcrale e che il sudario era invece avvolto in un altro luogo, diverso dalla pietra sepolcrale, e avrebbe dovuto nominarlo.
Poichè Pietro non nomina nessun luogo in particolare, è evidente che sia le fasce che il sudario si trovano nello stesso luogo e che questo luogo non può essere altro che la superficie della pietra sepolcrale.
Inoltre, cosa significherebbe che il sudario al contrario è avvolto "in un luogo"?
Certo il sudario non può essere avvolto in più luoghi; è ancora più illogico dire che era in un luogo indeterminato, perché la precisazione non avrebbe precisato nulla e sarebbe risultata del tutto pleonastica; infine non può significare che è in un altro luogo, perché allora Pietro avrebbe usato un aggettivo più adatto allo scopo.
Allora, si deve concludere che il sostantivo "tópos" non si deve tradurre con il sostantivo italiano "luogo", ma piuttosto con il sostantivo "posizione".
Pietro, infatti, contempla la posizione del sudario e non il luogo, in cui il sudario si trova, che è certamente la pietra sepolcrale; e non oppone i luoghi in cui le fasce ed il sudario si trovano, ma oppone le rispettive posizioni: le fasce distese, il sudario avvolto.
Tradurre "tópos" con il sostantivo "posizione" non è un arbitrio, perché "tópos" ha anche questo significato (vocab. greco-italiano Rocci).

Ma qual è la posizione del sudario, così importante da dovergli dedicare un intero versetto per descriverla?
Pietro la precisa, con un tocco d'artista, per mezzo di una preposizione "eis" e di un aggettivo numerale "héna".
Abbiamo visto che questo aggettivo numerale "héna" non può avere il significato di "prôtos" e che perciò non si può tradurre che il sudario stava "nella medesima posizione"; che non si può neanche sostenere che il sudario si trovi in un altro luogo, diverso dalla pietra sepolcrale; infine, che non si può neanche affermare che il sudario stia in una luogo indeterminato, perché tale affermazione sarebbe inutile, pleonastica e addirittura assurda; dobbiamo perciò concludere che l'espressione "heis héna" deve avere un altro significato, che renda viva e precisa la testimonianza di Pietro.
Il numerale "heîs, mía, hén", come si legge nel vocabolario greco-italiano del Bonazzi, può essere usato con il significato di "UNICO": "Talora deve tradursi "UNICO" (in senso di eccellenza, specialmente quando rinforza il superlativo che gli vien dopo).
Questo è il significato che Pietro ha voluto dare all'aggettivo numerale "héna".
Il sudario, al contrario delle bende, era avvolto in una posizione UNICA, nel senso di singolare, eccezionale, irripetibile. Infatti, mentre avrebbe dovuto essere disteso sulla pietra sepolcrale con le fasce, era invece rialzato ed avvolto.
La posizione del sudario appare unica per eccellenza agli occhi di Pietro o poi di Giovanni, perché è una sfida alla forza di gravità.
Ora, il versetto ha assunto il suo vero significato e corrisponde al logico svolgimento del pensiero di Pietro: "E il sudario (inizio del versetto) è in una posizione unica (fine del versetto)".
Qualcuno potrebbe respingere questa terza traduzione, sostenendo che, secondo quanto si afferma nel manuale di greco biblico dello Zerwick, già nel Nuovo Testamento il numerale "heîs" prende il posto di "tìs" e diviene quasi un articolo indeterminativo.
Questa regola non è così rigida come potrebbe sembrare. Infatti nel Nuovo Testamento vi sono numerosi esempi in cui "heîs" conserva il suo valore originario e spesso assume il valore di "unico" nel senso di "uno solo".

Esempi :
- Dalla prima Lettera ai Corinzi di S. Paolo: "Hóti heîs ártos, hén sôma hoi polloí esmen". "Poichè c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo" (1 Cor 10,17).
- Dalla Lettera agli Ebrei: "Miâ gár prosforâ". "Con un'unica oblazione" (Ebr 10,14).
- Dalla Lettera di Giacomo: "Hóstis gár ólon tòn nómon terése, ptaíse dè en hení...". "Poichè chiunque osservi tutta la legge, ma la trasgredisca anche in un punto solo...." (Gc 2,10).
- Dal Libro dell'Apocalisse: "Hoûtoi mían gnómen échousin". "Questi hanno un unico intento" (Ap 17,13).

E' vero che il numerale "heîs", nel greco biblico, non può tradursi con il significato di "prôtos", come dice il Delebecque, ma non è vero che esso assuma sempre il valore di un articolo indeterminativo.
Infatti, dagli esempi citati, risulta che spesso, nel Nuovo Testamento, viene usato per significare "unico" nel senso di "uno solo".
Nel brano che ci interessa, "heîs" è usato nel senso di "unico per eccellenza". Dunque la frase deve tradursi: "in una posizione unica".

Pertanto, i tre versetti (Gv 20, 5-7), che abbiamo analizzato e che costituiscono il cuore della testimonianza, si possono tradurre così:
5. (Giovanni) chinatosi, scorge le fasce distese, ma non entrò.
6. Giunge intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entra nel sepolcro e contempla le fasce distese (afflosciate, vuote, ma non manomesse)
7. e il sudario, che era sul capo di lui, non con le fasce disteso, ma al contrario avvolto (rimasto nella posizione di avvolgimento, rialzato, ma non sostenuto nell'interno, perché vuoto) in una posizione unica (straordinaria, eccezionale, perché contro la legge della gravità)".


90) P. VIGNON, «Le linceul du Christ», Paris 1902, pp. 125 e segg; «Le Saint Suaire de Turin», Paris 1938 e Torino 1978, pp. 66 e segg; L'opinione del Vignon fu ripresa da alcuni studiosi, soprattutto francesi.

91) E. DELEBECQUE, «Le Tombeau vide: Jean 20, 6-7» in «Revue des Etudes grecques», luglio-dicembre 1977, p. 243.

92) G. GHIBERTI, «La sepoltura di Gesù», Pietro Marietti, Roma 1982, pag. 45.

93) R. SCHNACKENBURG, «Il quarto Vangelo», Paideia, Brescia.

94) A. FEUILLET, Articolo in «La Sindone e la Scienza. Bilanci e Programmi. 2^ Congresso Internazionale di Sindonologia» Ed. Paoline, Torino 1979, p. 247.

95) M. BALAGUÉ, «La prueba de la resurreccion (Jn 20, 6-7)», in «EstBib», 25, 1966, p. 188.

96) T. SANESI, «Vocabolario greco-italiano», Pistoia, 1938.

97) E. DELEBECQUE, «Lettera a B. Bonnet-Eymard», in «La Sindone - Scienza e Fede» a cura di L. Coppini e F.Cavazzutti, nota 26, p. 97.

98) M. ZERWICK, «Graecitas Biblica», Romae 1966, p. 53.


5.B.4. UNA RIFLESSIONE SULLA TESTIMONIANZA DI PIETRO. 

Agli occhi di Pietro le prime tracce della risurrezione di Gesù si presentarono così:
- Le fasce erano distese sulla pietra sepolcrale, perché ormai vuote, ma intatte, senza effrazioni o manomissioni.
- Il sudario, al contrario, come se ancora avvolgesse il capo di Gesù, era rimasto rialzato e avvolto, irrigidito anche per l'improvviso asciugarsi degli aromi.

Il cuore di questa testimonianza è costituito dalla relazione di Pietro, che, rimasto in contemplazione dello spettacolo straordinario, offerto dalla posizione delle fasce e del sudario, non riesce a trarre nessuna conclusione logica.

L'incapacità di Pietro di comprendere ciò che è accaduto nel sepolcro viene confermata dall'evangelista Luca, che narra così questo episodio: "Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi scorge solo le fasce (in alcuni pregevoli codici è aggiunta anche la parola "keímena", cioè "distese"): e se ne tornò meravigliandosi tra sè per l'accaduto" (Lc 24,12).

Bisogna ammirare l'onestà di Pietro, perché non si vergogna, a distanza di tempo, di ammettere che la sua fede nella risurrezione non fu così pronta, come quella di Giovanni, che vide e credette.

E bisogna anche ammirare la fedeltà storica di Giovanni e Luca, che per amore della verità, non esitano a mettere in evidenza una certa lentezza di riflessi da parte di colui che sarà il capo della Chiesa di Cristo.
Questa lentezza di riflessi di Pietro influenzerà negativamente il cammino di fede degli apostoli, che crederanno solo quando avranno visto Gesù risorto.

Pietro, con la sua indiscussa autorità di capo, impedisce a Giovanni, che è ancora troppo giovane, di influenzare positivamente i suoi amici, raccontando la sua meravigliosa esperienza nel sepolcro.

Infatti, i discepoli, in un racconto di Luca, dicono: "Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti, recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l'hanno visto" (Lc 24,22-24).

Ciò significa che Pietro confermò sostanzialmente il racconto delle donne: il sepolcro era aperto ed il corpo di Gesù non era nell'interno; ma non confermò invece l'annuncio della risurrezione.

La testimonianza di Giovanni fu del tutto ignorata o perché Giovanni non potè parlare, a causa di Pietro, o perché il racconto della sua esperienza non fu creduto, sempre a causa di Pietro, che non confermò la deduzione del suo giovane amico.

La lentezza di riflessi di Pietro viene messa in evidenza da Giovanni anche in occasione di una apparizione di Gesù in Galilea. I discepoli erano andati a pescare e, all'alba, tornavano a riva, senza aver pescato nulla, quando un uomo, dalla riva, li invitò a gettare le reti a destra della barca. Essi gettarono le reti che subito si riempirono di pesci. Immediatamente Giovanni riconobbe Gesù: "Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: E' il Signore!" (Gv 21,7). Allora Pietro si gettò in mare per raggiungere subito Gesù.

E' veramente interessare il fatto che Giovanni ci abbia trasmesso la descrizione della posizione del sudario fatta da Pietro ed abbia rinunciato a descriverla con le sue parole.
Forse, Giovanni intendeva raggiungere due scopi.

Prima di tutto, voleva lasciare a Pietro il privilegio di fare la descrizione delle tracce, come gli aveva lasciato l'onore di essere il primo ad entrare nel sepolcro; in tal modo la descrizione delle tracce è risultata ancora più credibile ed imparziale, perché Pietro non comprese l'importanza di ciò che descriveva e non fu influenzato dal pensiero che la sua descrizione sarebbe servita a dimostrare la risurrezione del corpo di Gesù.

Inoltre, Giovanni ebbe modo di mettere in risalto, anche stilisticamente, la prontezza con cui giunse alla fede: "entrò e vide e credette", che assomiglia tanto alla frase lapidaria di Giulio Cesare: "Venni, vidi, vinsi".


5.C. L'EPILOGO: LA FEDE NASCE DAL SEPOLCRO.

Giovanni 20, 8-10:
Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non avevano infatti compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa.

Giovanni, che era giunto per primo al sepolcro, anche se entrò nella camera sepolcrale dopo Pietro, giunse per primo alla fede.
Egli fu il primo uomo che credette alla risurrezione.
Davanti a quello spettacolo saranno venute alla mente dell'apostolo Giovanni le parole profetiche del salmista: "La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d'angolo; ecco l'opera del Signore: una meraviglia ai nostri occhi" (Sl 117 (118), 23-24).
Dio aveva glorificato quel Gesù che i Giudei avevano respinto e, come prova, erano rimasti nel sepolcro i segni dell'avvenuta glorificazione.
Giovanni "credette", ma in che cosa?
Il verbo "epísteusen - credette" è il verbo, usato nel Nuovo Testamento, per esprimere la fede piena nella risurrezione di Gesù. L'espressione "kaì eîden kaì epísteusen" cioè "e vide e credette" è perfettamente uguale all'espressione, usata da Gesù, per esprimere la beatitudine di coloro che credono senza vedere: "Beati quelli che pur non avendo visto crederanno!" (Gv 20,29).
In questa espressione i due verbi "eîdon - vedo" e "pisteúo - credo" sono uniti come nella testimonianza di Giovanni, anche se qui il primo verbo è al negativo.
Il rimprovero di Gesù non è certamente diretto a Giovanni, che ha veduto fenomeni naturali ed ha creduto, ma è diretto all'apostolo Tommaso, che vuole vedere fenomeni soprannaturali per credere. Tommaso vuole vedere personalmente Gesù risorto e toccare le ferite dei chiodi e della lancia con le sue mani.
La fede di Giovanni, invece, ha seguito la via giusta, ha visto i segni della glorificazione di Gesù, li ha compresi ed ha creduto.
La nostra fede deve seguire il cammino di Giovanni e non quello di Tommaso. Non dobbiamo pretendere miracoli per credere, ma dobbiamo usare i mezzi che Dio ha messo a nostra disposizione.

Nel versetto seguente Giovanni introduce una riflessione importante.
I discepoli, benchè conoscessero le Scritture, e benchè avessero sentito ripetere da Gesù che egli sarebbe morto e risorto, non riuscivano a capire il senso della parola risurrezione.
Questa incapacità di comprendere derivava dal fatto che non c'erano esempi a cui potessero rifarsi. Essi sapevano che i morti andavano nello sheol e che, caso mai, sarebbero risorti alla fine del mondo.
La risurrezione di Lazzaro non era stata una vera risurrezione, ma piuttosto una rianimazione e non poteva servire da modello, per capire in che cosa sarebbe consistita la risurrezione di Gesù.
Ora, finalmente, per Giovanni è chiaro il significato delle Scritture e delle affermazioni di Gesù. Giovanni ha anche questo primato di aver compreso per primo il senso delle Scritture, che riguardavano Gesù.
I due discepoli di Emmaus avranno bisogno di essere catechizzati da Gesù stesso, per comprendere il significato della risurrezione: "(Gesù) cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui..." (Lc 24,27).
La pericope si chiude con il ritorno dei due apostoli a Gerusalemme.
Se ne tornarono adagio, immersi nei loro pensieri: Pietro invano si sforzava di capire il significato delle cose che aveva contemplato; Giovanni, invece, gioiva, perché era stato testimone del più grande prodigio mai avvenuto su questa terra: la risurrezione del suo amato maestro, che, vinta la morte, era entrato nella vita eterna.
L'esperienza di Giovanni richiama alla mente una simile esperienza di Mosè, che vide le spalle della Gloria di Dio: "(Mosè) disse al Signore: ‘Mostrami la tua Gloria!'. (Il Signore) rispose : ‘Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia'. Soggiunse: ‘Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo'. Aggiunse il Signore: ‘Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finchè sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere" (Es 33,18-23).
Giovanni, nella cavità della rupe sepolcrale, vide le orme, le tracce, le spalle della Gloria del Cristo risorto e glorificato.
Noi, come Giovanni, anzi più di lui, come vedremo in seguito, abbiamo la possibilità di vedere, attraverso le tracce della risurrezione, le spalle della Gloria del Cristo risorto.

Mi sembra opportuno riportare per intero la pericope della testimonianza di Pietro e Giovanni sulla risurrezione (Gv 20, 2-10):
"2. (Maria di Magdala) corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!
3. Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo, e si recarono al sepolcro.
4. Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.
5. Chinatosi, scorge le fasce distese, ma non entrò.
6. Giunge intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entra nel sepolcro e contempla le fasce distese (afflosciate, vuote, non manomesse),
7. e il sudario, che era sul capo di lui, non con le fasce disteso, ma al contrario avvolto (rimasto nella posizione di avvolgimento, perciò rialzato ma non sostenuto nell'interno, perché vuoto) in una posizione unica (straordinaria, eccezionale, perché contro la legge della gravità).
8. Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.
9. Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti.
10. I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa".

Questa accurata descrizione delle tracce, lasciate nel sepolcro dalla risurrezione del corpo di Gesù, demolisce con un sol colpo tutte le teorie, che negano la possibilità di dimostrare storicamente e scientificamente il fatto della risurrezione.
Pietro e Giovanni, con la loro descrizione, hanno rilevato ben quattro tracce presenti nel sepolcro. Infatti, essi descrivono ciò che vedono sulla pietra sepolcrale e tacciono quello che doveva esserci, ma non c'è più.
Le quattro tracce sono costituite: le prime due dalla posizione delle fasce e del sudario, di cui abbiamo parlato; le altre due dalla scomparsa del corpo di Gesù e dei trentadue chilogrammi e mezzo di aromi.
Queste quattro tracce attestano, senza possibilità di dubbio, che il corpo di Gesù è risorto e non ammettono altre spiegazioni. Perciò Giovanni entrò, e vide e credette.

Se il sepolcro fosse stato vuoto, come affermano molti teologi, o se la posizione delle tele fosse stata diversa, come traduce la versione italiana della C.E.I., non si sarebbe potuto concludere che Gesù era risorto, perché la scomparsa del corpo di Gesù avrebbe potuto avere altre spiegazioni e Giovanni non avrebbe creduto.
Non è più possibile affermare che la risurrezione di Gesù è solo un mistero di fede, ma si deve proclamare che è un fatto storico.
Da ciò ne deriva che non si può negare l'irruzione del soprannaturale nel mondo naturale, perché Dio stesso è venuto a stare con noi: la risurrezione ne è la prova.
La risurrezione, dunque, non è un mito, come affermano Bultmann ed i suoi seguaci; non è neanche soltanto un mistero di fede, come affermano tanti teologi cattolici; ma un vero e proprio fatto storico e scientifico, che può essere studiato e perfino ricostruito, come tutti i fenomeni che accadono in questo mondo.
Per questo, tra la religione cristiana e tutte le altre religioni vi è una differenza abissale. Infatti, mentre tutte le altre religioni sono fondate sullo sforzo umano di penetrane nei misteri del divino, quella cristiana, invece, è fondata sulla rivelazione, che Dio ha fatto di se stesso attraverso Gesù, come attesta l'apostolo ed evangelista Giovanni all'inizio del suo vangelo: "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha svelato" (Gv 1,18).
Inoltre, nessuna religione pretende di assicurare la risurrezione del corpo ai suoi seguaci, anzi nessun fondatore di movimenti religiosi è risorto da morto, come, invece, ha detto e fatto Gesù.

Un certo David Leeming, docente di Letteratura inglese presso l'Università del Connicticut, in un suo volume, afferma che non solo Gesù è risorto, ma anche altri: "Gesù tuttavia non è certo la sola figura eroica assunta in cielo. La lista è lunga ed include il persiano Mitra, Dionysos, il profeta Elia e san Francesco d'Assisi e come addizione più tarda all'ascensione di Cristo, la Vergine, di cui si dice che fu assunta in cielo fisicamente per regnare insieme al figlio martorizzato" (99).
E' stupefacente la leggerezza, con cui il Leeming parla di Gesù e della sua risurrezione. Per lui, Gesù sta sullo stesso piano di eroi leggendari, come Mitra e Dionysos e di semplici essere umani, come Elia e san Francesco.
A proposito di quest'ultimo, Leeming ignora che il corpo di san Francesco è custodito ad Assisi, nella Basilica inferiore e che è protetto da solide sbarre di ferro, per impedire che venga sottratto, profanato o distrutto.
E' vero che oggi c'è libertà di opinione e di espressione intorno a tutti i problemi, ma questo diritto è strettamente unito al dovere di provare ciò che si dice. E' assurdo affermare che san Francesco è risuscitato.
Questa non è più libertà di opinione, ma è licenza di affermare e diffondere il falso. Mi meraviglia che un editore, come Arnoldo Mondadori, abbia sentito il bisogno di tradurre e stampare quest'opera, infarcita di menzogne, che presenta Gesù come "un eroe mitico".
Il Leeming, che non vede alcuna differenza tra il cristianesimo e tutte le altre religioni, antiche e moderne, si sente autorizzato a trarre le estreme conseguenze. Se la risurrezione di Gesù è un mito oppure se è soltanto un mistero di fede, tutto ciò che si fà in nome di essa è mitico.
Leeming scrive: "Quando una persona religiosa entra in una chiesa o in un tempio, lascia, almeno in teoria, il mondo razionale del consumismo quotidiano e si comporta in un modo che il non iniziato considererebbe ridicolo. I riti religiosi sono compiuti infatti non in nome della ragione, ma di ciò che è detto fede. E la fede è un ‘dato mitico'. Essa diviene realtà solo attraverso una sospensione di incredulità che può essere definita primitiva o ‘infantile'. ‘Chi non si converte e non diventa come un piccolo bambino, non entrerà nel regno dei cieli'. Non è privo di significato che in chiesa, anche persone ritenute per così dire con i piedi in terra, si impegnano in giochi rituali, nei quali certe cose diventano ciò che non sono e si parla alle statue come alle bambole. Inoltre i fedeli spesso confessano di essere stati cattivi e sono perdonati e istruiti su come comportarsi bene da uomini che qualche volta definiscono ‘padri'. In effetti l'uomo di fede riconosce, con la sua presenza ed il suo comportamento nel luogo di culto, di aver bisogno dell'esperienza mitica, un bisogno che nel mondo reale non è tollerato e spesso non accettato, almeno al di là dell'infanzia" (100).
I cristiani praticanti, secondo Leeming, sono dei bambini, che sfuggono il mondo razionale e si rifugiano nelle chiese per compiere giochi rituali: mangiano un'ostia e credono di ricevere il Cristo; confessano i peccati a certi uomini, che chiamano padri, e credono di essere perdonati. Questi giochi, però, non sono tollerati nel mondo reale; tutt'al più si tollerano per i bambini.
Le affermazioni di Leeming sono sconcertanti, ma rispecchiano bene il comportamento della maggioranza dei cristiani, che non si sentono a loro agio in chiesa, perché non comprendono nè il significato nè il valore dei riti religiosi, soprattutto dei sacramenti.
Come si può spiegare questo comportamento?
La risposta è nelle parole di Leeming: "I riti religiosi sono compiuti infatti non in nome della ragione, ma di ciò che è detto fede. E la fede è un dato mitico".

Questo è ciò che i giovani e gli adulti pensano della religione cristiana.
Lo confermano le risultanze di un convegno delle diocesi di Anagni-Alatri sulla catechesi. L'articolo, pubblicato sul quotidiano l'«Avvenire» col titolo «L'effetto fionda», riferisce così le conclusioni del convegno: "Quanto più li stiri prima, tanto più li lanci dopo! E' questo il cosiddetto «effetto fionda». Per chiarirci: quanto più stiriamo i ragazzi prima della cresima con incontri, attività e impegni vari, tanto più, appena cresimati, vengono catapultati lontano dall'orbita parrocchiale. Per accorgersene, basta guardarsi intorno di questi tempi: nelle nostre chiese, dopo il «gran giorno» si fa il vuoto. E così questo che dovrebbe essere il sacramento dell'impegno diventa quello «dell'addio!»" (101).
L'articolista continua: "Ma oggi è chiaro che la società è cambiata e perciò non si può supporre sempre la fede in chi ascolta, nemmeno dei ragazzetti delle medie. Quando non succede (visto che poi sono pure furbi) che ti lasciano pure parlare ma si vede da lontano mille miglia che tanto a loro non gliene importa nulla. E se vengono è solo perché ‘devono' sennò niente cresima (!)" (101).
L'articolista aggiunge: "Ma non basta pensare ai ragazzi: da noi le vere ‘categorie a rischio' (nel senso che rischiano di non fare mai catechesi) sono ben altre e cioè gli adulti e i giovani... Siamo tutti d'accordo che non serve a nulla continuare a fare i ‘baby-sitters' se poi gli adulti ci sfuggono puntualmente. E siccome ‘devono venire' non funziona con gli adulti, l'unica alternativa è muoversi... con le gambe, la testa e il cuore" (101).
Le amare conclusioni, a cui sono giunti i convegnisti delle diocesi di Anagni-Alatri sono equivalenti alle constatazioni fatte dal Leeming; divergono però nella ricerca delle cause.
I convegnisti credono che manchi un'adeguata catechesi e che, con un'azione pastorale più incisiva, si potrebbero ottenere frutti duraturi e riportare in chiesa i giovani e gli adulti; il Leeming, invece, più realisticamente afferma che, se la fede non ha un fondamento storico, è un mito e, come tale, non può essere accettato dal mondo degli adulti. Ed oggi si diventa adulti molto presto, fin dalle scuole medie.

Quando la teologia cattolica, sotto la pressione dei cosiddetti razionalisti, filosofi, storici e scienziati, ha accettato di definire la risurrezione di Gesù, non più come un fatto storico, ma come un «mistero di fede», ha tolto alla fede il suo fondamento ed ha seminato l'incertezza ed il dubbio tra i cristiani.
In questi ultimi anni la C.E.I. (Conferenza Episcopale Italiana), preoccupata per la crisi religiosa, che investe la Chiesa italiana, ha edito numerosi catechismi, per il rinnovamento dell'insegnamento religiosi, ma in tutti i volumi presenta la risurrezione unicamente come «un mistero di fede».
Nel Catechismo dei giovani, in particolare, si riconosce valida la critica di coloro che negano la storicità dei racconti evangelici della risurezione e si legge: "Le apparizioni angeliche alle donne, per esempio, differiscono in molti particolari a prima vista non secondari (uno o due angeli?); la reazione stessa delle donne appare diversa in Marco (16,8) dove si legge: ‘Fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura'; e in Matteo (28,8), secondo il quale: ‘Corsero a dare l'annunzio ai suoi discepoli'. Gesù dà appuntamento ai suoi in Galilea (Marco 16,2) oppure il Risorto si manifesta ai dodici a Gerusalemme la sera stessa di Pasqua (Luca 24,33-36; Giovanni 22,19)? L'elenco potrebbe continuare con riferimenti più complessi" (102).
Il citato Catechismo continua a trattare questo argomento qualche pagina dopo, affermando: "Il mattino del terzo giorno, e cioè dopo il giorno del riposo sabbatico, alcune donne andarono al sepolcro, tra esse Maria di Magdala. Esse videro la pietra del sepolcro spostata, e se ne fuggirono a casa, non senza avvertire dell'accaduto i discepoli che poterono vedere. Alcuni discepoli - Pietro e Giovanni, secondo il vangelo di quest'ultimo, - si recarono anch'essi al sepolcro e vi entrarono, stupiti di trovarlo aperto e vuoto" (103).

Le contraddizioni, di cui parla il Catechismo dei giovani, sono solo apparenti e nascono da una lettura superficiale del testo, come abbiamo visto nella Parte quarta di questo volume.
Elenchiamo le inesattezze contenute nei due brani citati dal Catechismo dei giovani.
- Le donne non hanno fatto una sola visita al sepolcro, ma ben tre visite diverse; nella prima (narrata da Matteo e Marco) apparve un solo angelo, nella seconda (narrata da Giovanni) apparvero due angeli a Maria Maddalena, nella terza (narrata da Luca) ne apparvero due a tutte le donne insieme.
- Le due donne della prima visita (Maria di Giacomo e Salome) decisero di non avvertire nessuno (Mc 16, 8); la Maddalena avvertì Pietro e Giovanni (Gv 20,1); le donne della terza visita, di cui facevano parte anche le precedenti, portarono l'annuncio ai discepoli (Lc 24, 8-10; Mt 28, 8). La Maddalena portò ai discepoli due annunci diversi.
- Gesù dà appuntamento ai suoi in Galilea, ma ciò non gli proibisce di compiere le prime apparizioni in Gerusalemme, dove i discepoli sono rimasti in attesa degli eventi.
- Gesù risorto apparve agli Undici e non ai Dodici, perché Giuda era morto.
- Le donne non sono partite tutte insieme da Gerusalemme verso il sepolcro, ma le prime tre partirono, quando era ancora notte, le altre, invece, quando era già da tempo sorto il sole.
- Pietro e Giovanni non trovarono il sepolcro vuoto, ma nell'interno di esso trovarono delle tracce inequivocabili della risurrezione e le descrissero.
- Pietro rimase stupito, ma Giovanni vide e credette.
- L'errore più grande è quello di affermare che i racconti evangelici della risurrezione non sono storici, mentre lo sono fin nei minimi particolari.

Per un vero rinnovamento della catechesi si deve partire dalla dimostrazione della storicità della risurrezione, che restituisce ai cristiani la certezza della fede.
Non dobbiamo dimenticare che la Chiesa è iniziata con l'annuncio della risurrezione: "Questo Gesù Dio l'ha resuscitato e noi tutti ne siamo testimoni" (At 2,32) e che questa testimonianza costituisce la missione della Chiesa, anche oggi, e fino alla fine del mondo.
Il fatto storico della risurrezione è il segno, che Gesù ha offerto ai suoi avversari, per dimostrare la propria divinità, come si legge in Matteo: "I farisei e i sadducei si avvicinarono per metterlo a prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. Ma egli rispose: Quando si fà sera, voi dite: Bel tempo, perché il cielo rosseggia; e al mattino: Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo. Sapete dunque interpretare l'aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi? Una generazione perversa ed adultera cerca un segno. Ma nessun segno le sarà dato se non il segno di Giona. E lasciatili, se ne andò" (Mt 16,1-4).
Il segno di Giona allude al racconto-parabola del libro di Giona, che, ingoiato da un pesce, ne uscì vivo al terzo giorno. I farisei e i sadducei, che conoscevano bene questo racconto, compresero che Gesù intendeva dire che, dopo la sua morte, sarebbe risorto. Per questo motivo i sinedriti porranno dei soldati a guardia del sepolcro.
Secondo la parola di Gesù, la risurrezione, in quanto tale, non è un mistero di fede, ma è un segno, cioè è un fatto sensibile, visibile e constatabile, anzi è l'unico segno, che Gesù offre ai suoi avversari, per dimostrare di essere veramente Figlio di Dio e Salvatore dell'umanità.
Le apparizioni non fanno parte del segno, perché Gesù non ha promesso di apparire risorto ai suoi nemici e, di fatto, non appare a nessuno di essi, e anche perché le apparizioni sono avvenute, quando Gesù era già fuori della storia, e perciò non potevano essere più il segno di cui ha parlato Gesù.
Se non vogliamo smentire le affermazioni di Gesù, dobbiamo servirci del segno della risurrezione, per dimostrare la sua divinità.
Infatti Gesù si serve delle apparizioni per confermare nella fede i suoi discepoli, per istituire i sacramenti, per ratificare l'autorità di Pietro, per affidare ai suoi discepoli la missione di predicare il Vangelo a tutte le creature.


note

99) D. LEEMING, «Mitologia», Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1976, p. 106.

100) D. LEEMING, «Mitologia», Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1976, pp. 142-143.

101) Giornale quotidiano «Avvenire», domenica 7 giugno 1987, articolo «L'Effetto fionda», p. 1 dell'inserto riservato alle diocesi del basso Lazio.

102) Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede, la Catechesi e la Cultura, «Non di solo pane. Il Catechismo dei giovani», Edizioni C.E.I., Roma 1979, pp. 159-160.

103) Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede, la Catechesi e la Cultura, «Non di solo pane. Il Catechismo dei giovani», Edizioni C.E.I., Roma 1979, p. 163.


5.D. IL SIGNIFICATO DEI TRE VERBI: blépei, theoreî, eîden. 

Benchè ci si ostini a ripetere che il sepolcro fu trovato vuoto, in realtà esso era pieno della gloria di Dio e del Cristo risorto.
Gli evangelisti, infatti, non dicono mai che il sepolcro era vuoto.
I sinottici narrano che l'angelo, in Matteo e Marco, o i due angeli, in Luca, dissero che il corpo del Signore non era più nel sepolcro, ma vollero che le donne visitassero il sepolcro stesso e constatassero l'avvenuta risurrezione, perché tutto, nell'interno del sepolcro, parlava dell'arcano mistero che vi si era svolto: "Non è qui. E' risorto, come aveva detto, venite a vedere il luogo dove era stato deposto" (Mt 28,6).
Non sappiamo cosa abbiano visto le donne, perché non c'è stato riferito, ma sappiamo cosa effettivamente c'era, perché un visitatore attento ce lo ha tramandato.
Giovanni esclude esplicitamente che il sepolcro fosse vuoto e per ben tre volte descrive l'atto del vedere, prima da parte sua, poi di Pietro, infine di nuovo da parte sua, usando tre verbi diversi: blépei, theoreî, eîden.
La traduzione della Volgata appiattisce il vigore del racconto traducendo i tre verbi con l'unico verbo latino «vidit»; e la traduzione italiana ne segue le orme, traducendo in tutti e tre i casi con «vide».
Ma, è evidente che se Giovanni ha usato tre verbi diversi, voleva esprimere tre concetti diversi.

     5.D.1. Con il verbo «blépei» Giovanni vuol dire che non vede tutto, ma scorge qualcosa, che gli fa iniziare il cammino della fede.
Infatti Giovanni, avendo corso più velocemente di Pietro, giunse per primo al sepolcro, ma, per rispetto, non osò entrare ed aspettò che giungesse Pietro, per dargli la precedenza.
Spinto però da una legittima curiosità e dall'ansia di sapere, si chinò e, stando fuori, spinse lo sguardo verso l'alto, nell'interno della camera sepolcrale, e scorse, dalla parte dei piedi, che le fasce giacevano vuote sulla pietra sepolcrale.
"Gesù non c'è più" avrà pensato. "Cosa sarà accaduto?" Così Giovanni inizia il cammino della fede.

     5.D.2. Quando Pietro giunge al sepolcro, entra e rimane in contemplazione (theoreî) dello spettacolo che le fasce e il sudario offrono, ma non ne comprende il messaggio. Rimane stupefatto di fronte ad una meraviglia che sembra non avere spiegazioni.
Anche se non comprende il significato di ciò che vedeva, era sulla buona strada per comprenderlo. Ma, nonostante ciò, Pietro non crederà finchè non avrà visto con i propri occhi Gesù risorto.
I vangeli non narrano l'apparizione di Gesù a Pietro, ma la Buona Novella inizialmente fu annunciata proprio in nome di Pietro, come scrive Luca: "(I discepoli di Emmaus) partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone" (Lc 24,33-34).

     5.D.3. Infine Giovanni entrò nel sepolcro e non appena osservò le fasce distese e soprattutto il sudario rialzato, comprese immediatamente che esse costituivano le tracce lasciate dalla risurrezione del corpo di Gesù, e credette.
Per esprimere questo vedere con intelligenza, Giovanni usa il verbo "kaì eîden", accompagnato dal verbo della fede "kaì epísteusen"; Giovanni "vide, comprese e credette".
E' la fede piena nel mistero pasquale, che per la prima volta nasce nel cuore di un uomo. Giovanni crede senza vedere Gesù risorto, ma osservando solo le tracce della risurrezione.

Con i tre verbi Giovanni ha voluto esprimere i tre stadi del cammino spirituale:
- blépei, lo stadio degli incipienti;
- theoreî, lo stadio dei proficienti;
- eîden, lo stadio dei perfetti.

Nella posizione delle fasce e del sudario Giovanni vede la realizzazione della Scrittura, che Gesù cioè doveva risuscitare dai morti.
Come è possibile chiamare «vuoto» un sepolcro che realizza la Parola di Dio!
Se il sepolcro fosse stato vuoto, Giovanni non avrebbe potuto credere, non avrebbe neanche iniziato il cammino della fede.
Se Cristo è veramente risorto, le fasce ed il sudario dovevano essere necessariamente nel sepolcro e non potevano essere in un modo qualsiasi, ma solo nella posizione in cui Pietro e Giovanni le hanno viste.


5.E. CRITICA A TRE VOLUMI CHE TRATTANO DELLA RISURREZIONE 

A me pare che nessun esegeta si preoccupi di ricostruire l'esatta posizione delle tele nel sepolcro, dopo la risurrezione.
Molti trascurano perfino di parlarne, come cosa di poca importanza; altri insistono nel dimostrare che il sepolcro era vuoto, come se l'esser vuoto costituisca una prova della risurrezione.
I vangeli, di proposito, evitano di affermare che il sepolcro era vuoto, ma, con realistica precisione, affermano solo che il corpo di Gesù non era più nel sepolcro, come si legge in Luca: "Ma alcune donne delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo" (Lc 24, 22-23).
Per chiarire meglio questo argomento, mi sembra opportuno mostrare come viene trattato il tema della risurrezione in alcuni libri, scritti da esegeti di tendenze diverse.

     5.E.1. Il primo è un volumetto che raduna un ciclo di sei conferenze, tenute da E. Ruckstull e J. Pfammatter in terra elvetica e pubblicate su richiesta degli ascoltatori "per i preti in cura di anime, i catechisti ed altri cristiani attivi" (104) come si dice nella prefazione.
Gli autori citano, in appena 140 pagine, circa 900 passi biblici, cioè, in media, più di sei citazioni in ogni pagina.
Ebbene, in questo mare di citazioni, non ha trovato posto la pericope di cui stiamo parlando, che è citata una sola volta esplicitamente e liquidata con le seguenti parole: "Ammirabile la gara di corsa di cui dà notizia Gv 20, 2-10, pericope che sembra una voluta rettifica e precisazione di Lc 24,12" (105).
Ruckstull, di tutta la testimonianza di Giovanni, ha colto solo una gara di corsa, vinta da Giovanni (è stupefacente, ma è così) e un desiderio, da parte di Giovanni, di rettificare l'affermazione di Luca, che attribuisce la visita al sepolcro al solo Pietro.
Giovanni, punto sul vivo, avrebbe scritto questa pericope semplicemente per dire: "C'ero anch'io e sono arrivato primo!".
In un altro fugace cenno a questa pericope Ruckstull dice che "durante il sopralluogo di Pietro e di Giovanni gli angeli non erano visibili" (106).
Ma non si preoccupa affatto di dire ciò che era visibile.

     5.E.2. Il secondo libro è stato scritto da Gianfranco Ravasi che, a proposito della risurrezione, afferma: "Se si vagliano attentamente i vangeli ci si accorge con stupore che in realtà essi non descrivono l'atto della risurrezione di Gesù" (107).
Ravasi ha ragione, quando afferma che gli evangeli non descrivono l'atto della risurrezione, ma ha torto quando si dimentica di notare che il vangelo di Giovanni dà tutti gli elementi necessari per ricostruire fedelmente proprio questo evento della risurrezione.
Anche G. Ravasi sembra subire il fascino delle teorie di Bultmann e Marxen, e scrive: "I critici radicali del Novecento hanno in pratica identificato questi eventi (cioè le apparizioni di Gesù risorto) con la stessa Pasqua di Gesù. Così il celebre Bultmann, uno dei massimi (e dei più discussi) studiosi del Nuovo Testamento, sosteneva che il Cristo risorge semplicemente ogni volta che nella fede un uomo accetta il valore salvante della morte in croce di Gesù. W. Marxen, un suo discepolo, pensava che la risurrezione altro non fosse che ‘la venuta alla fede di Pietro'. ‘Quando io credo in lui, Cristo risorge': ecco in sintesi la tesi di questi studiosi. In realtà ora si è molto più cauti e si sottolinea che i Vangeli esigono due componenti indispensabili, l'azione dell'Io di Cristo e la reazione dell'io dell'uomo. Le apparizioni sono appunto questi incontri misteriosi ma reali tra queste due libertà" (108).
Queste affermazioni possono indurre nell'errore che la risurrezione del Cristo dipenda in qualche modo dalla reazione dell'io dell'uomo.
Il fatto storico della risurrezione, secondo il racconto di Giovanni, è storico a prescindere da qualsiasi incontro tra l'azione dell'Io di Cristo e la reazione dell'io dell'uomo.
Cristo è risorto, anche se nessun uomo lo avesse incontrato. Non è la nostra fede in Lui, che fa risorgere Cristo, ma è esattamente il contrario: la risurrezione di Cristo fa nascere la nostra fede, come è accaduto a Giovanni.
Ben scrive, a tal proposito, H. Kung: "Non fu la fede dei discepoli a risuscitare Gesù per loro, ma fu il Risuscitato da Dio a condurli alla fede ed alla sua professione. Il Maestro non vive grazie ai suoi discepoli, sono questi che vivono di lui... Il messaggio della risurrezione è sì testimonianza di fede, ma non un prodotto della fede" (109).
Dobbiamo purtroppo constatare che si continua a tradurre questa pericope di Giovanni con leggerezza ed infedeltà.
In un recentissima traduzione, si legge così: "Si chinò a guardare le bende che erano in terra, ma non entrò. Pietro lo seguiva. Arrivò anche lui e entrò nella tomba: guardò le bende in terra e il lenzuolo che prima copriva la testa. Questo non era in terra con le bende ma stava da una parte piegato" (Gv 20, 5-7) (110).

     5.E.3. Il terzo volume è un "Dizionario biblico", pubblicato da Francesco Spadafora, in collaborazione con altri biblisti, circa trent'anni fa.
Spadafora è uno dei pochi esegeti che ha preso in considerazione la pericope di Giovanni ed ha cercato di analizzarla, per comprenderne l'importante testimonianza.
Egli scrive a questo proposito: "Il punto centrale di questo racconto evangelico, così vivo, accurato e minuzioso, sta nel nesso fra quanto i due apostoli trovarono, videro, osservarono nel sepolcro e la fede nella risurrezione del Cristo, formulata esplicitamente qui per la prima volta, prima di qualsiasi apparizione... Pietro e Giovanni osservano attentamente: il sudario stava avvolto, così come era stato avvolto (entetyligménon, participio perfetto = era stato e rimaneva avvolto; il verbo entylísso ha soltanto questo significato: cfr. Mt 27,59; Lc 23,53), la sera del venerdì, intorno alla testa del Redentore; allo stesso modo, le fasce (tà othónia = fasce e lenzuolo) che erano state legate (Gv 19,40, così come era costume presso gli Ebrei; cfr. risurrezione di Lazzaro, Gv 11,44; in modo da far aderire il lenzuolo stretto intorno al corpo, dai piedi alle spalle), rimanevano lì, così come le aveva viste avvolgere al corpo, al momento della sepoltura. Solo che non stringevano più nulla; giacevano (keímena) le fasce ed il sudario, come se il corpo di Cristo si fosse volatilizzato. Quando non si tirava parte del lenzuolo per coprire la faccia del defunto, il sudario, adoperato per avvolgere il capo, veniva con una fascia fermato intorno al collo. E s. Giovanni ben mette in chiaro che il sudario stava ‘a parte' (khorìs), non con i pannolini e il lenzuolo, cioè si aveva in tutto la disposizione del momento della sepoltura: il sudario al suo posto (nel medesimo posto di prima, eis éna tópon), e il lenzuolo, stretto al corpo dalle fasce... Abbiamo pertanto in questo brano, una testimonianza diretta del fatto stesso della risurrezione. E l'esattezza dello storico arriva al punto di precisare ed esprimere soltanto il proprio sentimento; tacendo affatto di quello che sorse nell'animo di Pietro... San Pietro constatava questo fatto mirabile, che allora si verificava per la prima volta: il corpo del Signore che non è più in quell'insieme di lini, col quale era stato avvolto e legato; che ne è uscito senza nulla smuovere, lasciando tutto intatto; così come era uscito all'esterno lasciando intatta, con i sigilli appostivi dal Sinedrio (Mt 27,66), la grossa pietra che chiudeva l'ingresso del sepolcro" (111).
Lo Spadafora ha il merito di aver tradotto ed interpretato correttamente i due participi: "keímena" e "entetyligménon". Infatti, egli traduce il primo con il participio italiano "giacenti" ed il secondo con il participio "avvolto", con il significato modale "era rimasto avvolto", anche se poi non ha capito che il sudario era rialzato e che perciò non era giacente allo stesso modo delle fasce.
L'errore principale consiste nel fatto che lo Spadafora non ha ricostruito con esattezza le modalità della sepoltura, seguite da Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo, e crede che Gesù sia stato sepolto come Lazzaro, il quale invece fu sepolto in modo completamente diverso, come abbiamo già spiegato (cfr. Parte seconda 2.C.2.c.).
Lo Spadafora immagina che il corpo di Gesù sia stato avvolto con un lenzuolo dai piedi fino alle spalle e che questo lenzuolo sia stato tenuto fermo intorno al corpo di Gesù con delle legature, che egli chiama fasce; inoltre pensa che il capo di Gesù sia stato avvolto soltanto con un sudario, tenuto fermo intorno al collo con una fascia.
Invece, come abbiamo detto (cfr. Parte terza 3.H.) tutto il corpo di Gesù fu avvolto in una tela o lenzuolo (la sindone dei sinottici), per impedire che il sangue di vita si disperdesse, come abbiamo spiegato (cfr. Parte seconda 2.F.).
L'interpretazione dello Spadafora non corrisponde alla descrizione che hanno fatto Pietro e Giovanni, che vedono le fasce ed il sudario, ma non vedono il lenzuolo.
Lo Spadafora sostiene la sua errata ricostruzione della sepoltura con un altro errore, interpretando l'avverbio "khorís" con la locuzione "a parte", nel senso che il sudario giaceva "separatamente" dalla altre tele (fascie e lenzuolo), in quanto esso stava dalla parte del capo, mentre le altre tele stavano dalla parte del corpo.
Lo Spadafora conferma questa supposizione con un altra errata traduzione, interpretando l'espressione "eis héna tópon" con la frase italiana "nel medesimo posto di prima", che, come abbiamo detto, è errata (cfr. Parte quinta 5.B.3.c.), in quanto Pietro, nella descrizione, non fa paragoni tra la situazione delle tele prima della sepoltura e dopo di essa, ma fa paragone tra la posizione delle fasce e quella del sudario.
Perciò, secondo la ricostruzione dello Spadafora, ogni tela era giacente: le fasce, intese come legature; il lenzuolo, che avvolgeva il corpo; il sudario, che avvolgeva il capo.
Praticamente, lo Spadafora non ha capito il senso del versetto settimo, che descrive la posizione del sudario, e non ha tradotto correttamente la parola "tà othónia".
Inoltre, lo Spadafora insiste nell'affermare che il sepolcro fu trovato vuoto e adduce, come prova, due passi del Nuovo Testamento (1Cor 15,3 e segg. e At 13,28 e segg).
I passi addotti non dicono nulla riguardo al fatto che il sepolcro fosse vuoto o meno, ma affermano solo che il corpo di Gesù non era più nel sepolcro, perché era risorto.
D'altra parte, se lo stesso Spadafora dice che "i due apostoli trovarono, videro, osservarono nel sepolcro..." vuol dire che il sepolcro non era vuoto, ma solo che il corpo di Gesù non vi era più.

Affermare che il sepolcro era vuoto, costituisce un grave errore, perché si trascura di prendere in considerazione le tracce della risurrezione, come se esse non esistessero o non avessero valore.
Se è vero che queste tracce non sono state mai importanti per la predicazione del vangelo e per la fede, è anche vero che lo possono diventare.
Infatti esse non sono il risultato di una ricerca condotta su testi estranei alla Parola di Dio, ma sono il frutto di uno studio più approfondito dei racconti evangelici; sono come una pietra preziosa di inestimabile valore, nascosta per tanti secoli in quella miniera inesauribile che è la Sacra Scrittura. Ogni parola di Dio viene dall'alto ed è vera, preziosa e vivificante.
Se la tradizione e l'uso hanno reso familiari, amabili e venerabili alcune particolari espressioni della Parola Divina, la mancanza di tradizione ed il non uso di altre espressioni della medesima Parola non ne diminuiscono l'efficacia ed il valore.

La predicazione della risurrezione, partendo dalle tracce rimaste nel sepolcro, non era certamente consona allo spirito con cui veniva annunciata la Buona Novella agli inizi della Chiesa, quando erano ancora in vita i testimoni, che avevano visto e parlato con Gesù risorto; non era neanche adatta alla formazione dei cristiani delle età successive, perché più che di fede si doveva parlare di storia, di archeologia, di scienza; anzi non era neanche facile spiegarla, perché sarebbe stata necessaria una profonda conoscenza delle lingue, che invece erano state dimenticate, e delle scienze, che non erano ancora abbastanza sviluppate; ma è consona allo spirito moderno, che è sostenuto dai progressi sia nelle scienze che nella conoscenza delle lingue antiche, ed ha a disposizione tutti i mezzi necessari, per condurre fino in fondo qualsiasi ricerca.
Non è ardito affermare che la predicazione della risurrezione, partendo dalle tracce, rimaste nel sepolcro, è il modo più moderno per presentarla agli uomini di oggi.
Infine risulta veramente strana l'affermazione dello Spadafora, secondo la quale Gesù uscì all'esterno del sepolcro.
In realtà, Gesù non solo non uscì dal sepolcro, ma non uscì neanche dalle tele, perché, dall'interno di esse, entrò direttamente nella dimensione dell'eternità. Tuttavia la pietra, che chiudeva l'ingresso, fu ribaltata ed i sigilli del sinedrio infranti, come segno della vittoria di Gesù sulla morte.


104) E. RUCKSTUHL - J. PFAMMATTER, «La resurrezione di Gesù Cristo», A.V.E., Roma 1971, p. 9.

105) E. RUCKSTUHL - J. PFAMMATTER, «La resurrezione di Gesù Cristo», A.V.E., Roma 1971, p. 34.

106) E. RUCKSTUHL - J. PFAMMATTER, «La resurrezione di Gesù Cristo», A.V.E., Roma 1971, p. 37.

107) G. RAVASI, «Gesù una buona notizia», S.E.I., Torino 1982, p. 145.

108) G. RAVASI, «Gesù una buona notizia», S.E.I., Torino 1982, p. 151.

109) H. KUNG, «Essere cristiani», Milano 1976, p. 421.

110) LA BIBBIA, Traduzione interconfessionale.

111) F. SPADAFORA (in collaborazione con AA.VV.), «Dizionario biblico», Ed. Studium, Roma 1955 (alla voce: «Risurrezione di Gesù»).

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