10 dicembre 2012

Tomba di San Pietro in Vaticano: storia della scoperta.

Numerose sono le fonti scritte, dirette e indirette, che ci hanno tramandato la venuta di Pietro a Roma per predicare la parola di Cristo. Ad esempio, uno scritto anonimo in lingua greca chiamato Apocalisse di Pietro, datato alla metà del I secolo d.C., tramanda il martirio dell’Apostolo nel circo di Nerone (1). Poco tempo dopo troviamo una lettera scritta negli ultimi anni del I secolo d.C. da san Clemente Romano alla comunità cristiana di Corinto che ricorda lo stesso tipo di martirio subito da Pietro e Paolo assieme “ad una grande moltitudine di eletti” (2).

LA TOMBA DI PIETRO

Il Circo, di cui ci parlano le suddette fonti, era il monumento principale degli Hortis Neronis ed era posto sui declivi del colle Vaticano. Venne iniziato da Caligola e terminato da Nerone. Era al centro di questo monumento che si trovava l’obelisco fatto portare dall’Egitto e che poi, nel 1586, per ordine di Sisto V, venne trasferito in Piazza San Pietro, dove lo vediamo ancora oggi. Nell’area adiacente al circo vi era poi tutta una serie di tombe, alcune più ricche, altre più modeste, tra le quali dovette esserci anche la tomba di Pietro. Fu il luogo in cui i Cristiani, accusati di essere i responsabili del grande incendio che distrusse Roma nel 64, furono vittime degli spettacoli organizzati dallo stesso imperatore e per superare il tragico momento si raccolsero attorno agli Apostoli Pietro e Paolo. Sono sempre le fonti che ci informano che, dopo aver subito il martirio, l’Apostolo Pietro venne sepolto sul vicino colle Vaticano (3).

Nella Historia Ecclesiastica Eusebio (4) ci racconta che a Roma un eretico di nome Proclo si vantava delle famose tombe apostoliche a Ierapoli, in Asia Minore, e che un romano fedele di nome Gaio lo confutò dicendogli che a Roma esistevano in Vaticano e sulla via Ostiense i “trofei” (intesi nel senso di “tombe”) di Pietro e Paolo. Lo stesso autore nella Teophania, scritto nel 333, descrive il meraviglioso sepolcro di Pietro davanti alla città al quale giungono per pregare numerosi fedeli cristiani. Negli Atti apocrifi degli apostoli il senatore Marcello (5), amico di Pietro, scrive che l’apostolo fu sepolto nel luogo chiamato Vaticano presso la Naumachia, ovvero, presso quel luogo dove avvenivano gli spettacoli di combattimento navale.

Quando Costantino, all’inizio del IV secolo, edificò l’antica basilica di San Pietro, scelse il terreno sul quale sorgeva una necropoli, posta sul colle Vaticano, nella quale si trovavano numerose tombe e mausolei della comunità romana dei primi secoli successivi alla nascita di Cristo. I costruttori del nuovo edificio livellarono le monumentali tombe fino alla quota prevista per l’impostazione della struttura e la piana che ne conseguì venne in seguito chiamata platea Sancti Petri.

Col tempo altri monumenti sempre più imponenti e preziosi sostituirono la basilica costantiniana ma la tradizione vuole che la tomba dell’Apostolo fosse sempre presente esattamente sotto tutti gli altari che si susseguirono nei secoli. Rimase solo tradizione fino alla metà circa del secolo scorso quando l’allora papa Pio XII decise di instaurare un team di studiosi alla ricerca delle reliquie di Pietro nei termini di cui si parlerà poco più avanti.

MARGHERITA GUARDUCCI, LA SCOPRITRICE

Una delle principali protagoniste di questa importantissima scoperta dell’archeologia cristiana fu la professoressa Margherita Guarducci (Firenze, 20 dicembre 1902 – Roma, 2 settembre 1999), una delle più illustri epigrafiste a livello internazionale. Fu docente di Epigrafia e di Antichità Greche presso “La Sapienza” Università di Roma e alla Scuola Nazionale di Archeologia di Roma. Dal 1956 divenne socia corrispondente dell’Accademia Nazionale dei Lincei e nel 1969 membro della Pontificia Accademia Romana di Archeologia.

Nel corso della sua carriera ottenne due lauree Honoris Causa, una dall’Università di Rennes e una dalla Cattolica di Milano. Furono senza dubbio i suoi studi, pubblicati a più riprese, a far conoscere al mondo le importanti ricerche condotte al di sotto dell’attuale Basilica Vaticana volte al riconoscimento delle reliquie del Principe degli Apostoli. Il suo coinvolgimento della vicenda, però, non ci fu fin dal principio ma venne introdotta nel team di ricerca solo in una seconda parte, come descriveremo più avanti.

L’antica necropoli sotto l’odierna basilica, ad una profondità variabile tra i 5 e i 12 metri, cominciò ad essere indagata dal punto di vista archeologico già negli anni compresi tra il 1939 e il 1949 in circostanze puramente casuale. Erano gli anni del pontificato di Pio XI che aveva chiesto di essere sepolto in un luogo più vicino possibile alla tomba di Pietro. Il cardinale Pacelli, camerlengo di Santa Romana Chiesa alla morte del pontefice e futuro papa Pio XII, ordinò quindi di effettuare dei lavori per adattare una parte di terreno sotto le Grotte Vaticane ed esaudire le ultime volontà del defunto pontefice. Fu in quell’occasione che venne alla luce un frammento del cornicione di uno dei mausolei della necropoli. Il proseguimento delle ricerche favorì il rinvenimento di un’intera area con ambienti funerari costruiti in laterizio, disposti uno accanto all’altro e con asse orientato est-ovest e appartenenti ai ricchi liberti della Roma imperiale. Il periodo di utilizzo dell’area venne datato tra il I e l’inizio del IV secolo.

Tra tutte questi mausolei, nel cosiddetto “Campo P”, nella zona ovest della necropoli, vi era anche la tomba di san Pietro, sopra la quale già nel II secolo i primi cristiani cominciarono a edificare piccole edicole votive.

Gli scavi condotti nella Basilica iniziarono nel 1940 e terminarono nel 1949 sotto la direzione di monsignor Ludwig Kaas richiesto direttamente dal Pontefice Pio XII. Le ricerche si concentrarono in un’area piuttosto vasta sotto la Basilica ma ebbero come punto focale quel luogo della chiesa dove, secondo la tradizione, si doveva trovare la tomba di Pietro, ovvero sotto l’Altare della Confessione.

Venne scoperta, come già si è accennato, una vasta area sulla quale si era impiantata una necropoli orientata est-ovest e formata da mausolei ornati di pitture, mosaici e contenenti sarcofagi in marmo. Fra il 321 e il 326 d.C., però, la funzione funeraria di questa zona finì quando Costantino decise di impiantare in questo luogo la sua Basilica dedicata a San Pietro. Sotto l’attuale altare, impostato nel 1594 durante il pontificato di Clemente VIII, vennero rinvenuti altri monumenti, uno in successione all’altro, eretti tutti nel medesimo punto.

Così tornarono alla luce il monumento di Callisto II (1123), l’altare di Gregorio Magno (590-604) e per ultimo il monumento costantiniano impostato all’inizio del IV secolo. Quest’ultimo era costituito da una piccola edicola di forma cubica ricoperto di marmo pavonazzetto, proveniente dalla Frigia, e di porfido. Ma questo monumento voluto da Costantino, che probabilmente era quello che Eusebio descrive nella sua Teophania, non era la prima testimonianza architettonica nata in quel luogo. Essa racchiudeva un’altra piccola edicola formata da due nicchie sovrapposte e separate da una lastra di travertino sorretta sulla parte anteriore da due colonnine di marmo bianco.

IL MURO ROSSO

Dietro ad essa vi era un muro rivestito di intonaco rosso e per questo venne chiamato dagli studiosi “muro rosso”. Esso divideva l’edicola da una stradina in salita dentro al quale vi era anche una canaletta per lo scarico delle acque piovane che permise di datare lo scarico perché una delle tegole che lo ricopriva recava un bollo con il nome di Aurelio Cesare e Faustina Augusta, quindi tra il 146 e il 161 d.C. Dal punto di vista stratigrafico la canaletta di scolo risultava contemporanea al muro rosso e all’edicola antistante, ed ecco che così gli studiosi sono riusciti a inserire il piccolo monumento in un range cronologico abbastanza ristretto. Accanto ad esso si trovavano altri mausolei della tipologia precedentemente descritta e l’insieme di questi edifici venne denominata “Campo P”. A questo punto rimaneva da indagare cosa segnalasse questa preziosa edicola e, quindi, cosa ci fosse sotto di essa.

Le indagini proseguirono a un livello successivo e i risultati furono che l’edicola si era impostata sopra una tomba precedente, ritrovata purtroppo vuota, che era stata appositamente evitata dalle fondazioni del soprastante muro rosso sotto al quale vi era poi una nicchietta, chiamata “nicchia N1”, costruita forse per fungere da protezione al “qualcosa” che si trovava sotto queste strutture. Il fatto eclatante fu che al di sotto di questi muri ed edicole non fu trovato assolutamente nulla. L’attenzione degli archeologici si spostò allora sull’area immediatamente prossima all’edicola e venne rinvenuto, accanto ad essa, un muro, chiamato poi “Muro G” dipinto di intonaco rosso e blu. Si trattava quindi di un residuo di un piccolo edificio adibito al culto che venne poi obliterato e parzialmente distrutto dal monumento costantiniano.

IL MURO G

Sul Muro G, del quale era visibile solo la faccia settentrionale, erano incise numerose lettere ed intere parole tra le quali si leggeva chiaramente la sigla di Cristo. Al di sotto del muro vi era poi un piccolo scasso ricavato in epoca costantiniana e foderato di lastre marmoree, una delle quali permetteva anche la sua chiusura (a nord). Studi successivi compiuti della professoressa Guarducci permisero di datare il muro alla seconda metà del III secolo, forse durante il pontificato di Dionisio (259-268). I graffiti, invece, comprendevano un range cronologico leggermente più vasto compreso tra la fine del III e l’inizio del IV secolo. Gli archeologi che esplorarono il piccolo loculo ritrovarono al suo interno frammenti ossei, resti di fili d’oro o d’argento, una piccola moneta medievale, rinvenuta nei primi scavi, e altre monete intere e frammentarie venute alla luce nelle ricerche successive.

Le ricerche proseguirono a un livello sottostante il Muro G e gli scavatori praticarono uno scasso sotto il loculo poco prima scoperto. Sotto una tomba cristiana datata al IV secolo, era chiaramente visibile la colonnina marmorea dell’edicola di II secolo e, al suo fianco, una piccola lamina d’oro con una Croce decorata a sbalzo tra due grandi occhi. Venne datata tra VI e VII secolo.

I primi scavi sotto il presbiterio della basilica di San Pietro si ultimarono in questo punto ma pochi anni dopo, nel 1952, vennero ripresi da parte della professoressa Margherita Guarducci. La prima cosa che la studiosa notò dalla relazione degli scavi precedenti era che sul Muro Rosso, all’interno del loculo, vi era un PETR ENI che, a seguito di studi epigrafici, poteva essere tradotto come un “Pietro è qui dentro”. Ma il nome di Pietro venne notato dalla studiosa anche in un’altra zona della necropoli, attraverso una fotografia scattata in occasione dei precedenti scavi. Più precisamente, in uno dei mausolei più ricchi dell’area, ovvero quello dei Valerii dove, accanto a una nicchia nella parete settentrionale e vicino a uno stucco a rilievo rappresentante Apollo, si poteva leggere una preghiera rivolta all’Apostolo: “Pietro, prega per i santi uomini cristiani sepolti presso il tuo corpo”. Accanto alla scritta vi erano anche i disegni di due teste alquanto stilizzate. Accanto a uno di questi vi era una sigla CHR (Christus) accompagnata da un disegno interpretabile come un volatile (forse la Fenice, animale spesso associato alla figura di Cristo) sotto al quale era leggibile la scritta VIBVS (vivus).

Ma i graffiti più numerosi e forse più importanti erano quelli del Muro G. La Guarducci, studiando a fondo il piccolo monumento, scorse più volte la sigla Aw, principio e fine dell’Universo, utilizzata spessissimo dai cristiani anche nei secoli successivi. Compariva però con le due lettere invertite così da significare che il cristiano defunto (w) rinasceva a nuova vita, la vita eterna (A). Assieme ad esse altre lettere vennero incise sul muro cariche di significato simbolico proprio del Cristianesimo: Y e S (salus), F (filius), R (resurrectio), N (victoria), V (vita). In altre epigrafi veniva invece espresso il concetto della Trinità ripetendo per tre volte le lettere che indicavano la vita e la vittoria (AAA, VVV, NNN). Ma oltre a tutte queste lettere di significato simbolico compariva anche il nome di Pietro con le abbreviazioni PE e PET, con semplice iniziale P, con l’unione della P e della E a formare un piccolo monogramma oppure col simbolo delle chiavi. Accanto al nome di Pietro compariva anche il nome di Maria, in forme abbreviate oppure, in un caso, anche per intero.

PETR ENI

Tutte questi graffiti, fatti di parole, preghiere, sigle o semplici lettere, contribuirono a rendere sempre più possibile il ritrovamento delle sacre reliquie dell’Apostolo Pietro sotto la Basilica Vaticana. Queste ultime però mancavano ancora all’appello. Durante gli scavi, nel punto immediatamente sotto l’altare di Gregorio Magno, gli scavatori rinvenirono un cofanetto in marmo lunense ancora sigillato. Al suo interno erano custodite due scatolette d’argento rivestite con del lino bianco sulle quale erano dipinte, con inchiostro rosso, in una Salvatoris et Sanctae Mariae e sull’altra Sancti Petri et Sancti Pauli. Le stesse parole erano anche incise con lettere capitali sul metallo. Dall’analisi paleografica della scrittura il ritrovamento venne datato tra il VII e l’VIII secolo. All’interno le scatoline racchiudevano in tutto cinque pezzetti di stoffa.

Il luogo in cui ci si aspettava di trovare le reliquie di Pietro era comunque quel piccolo loculo ricavato sotto il Muro G, sotto al monumento costantiniano. Ma quel punto era già stato ispezionato dagli scavatori dopo che ebbero sbrecciato una porzione di muro grazie al quale avevano poi trovato il piccolo loculo e in quell’occasione non trovarono, a loro avviso, nulla di eclatante. Però fu proprio questo scasso provocato dagli archeologi che contribuì all’accumulo di numerosi detriti all’interno del loculo tra cui vi erano anche piccoli frammenti ossei. Questi frammenti vennero raccolti da monsignor Kaas, che era solito ispezionare gli scavi a fine giornata.

Racchiuse i brandelli ossei in una scatola di legno che venne poi messa da parte all’interno del magazzino delle Grotte Vaticane nel quale si depositavano i materiali provenienti dagli scavi e per un lungo periodo (dodici anni) venne dimenticata. Sempre grazie alla professoressa Guarducci, che si interessò a ciò che nei precedenti scavi venne rinvenuto sotto al Muro G, i frammenti vennero sottoposti da una attenta analisi antropologica a cominciare dall’anno 1962 sotto la direzione del Professor Venerando Correnti, allora titolare della cattedra di Antropologia nell’Università prima di Palermo e poi di Roma, che negli anni immediatamente precedenti si era occupato anche di tutti gli altri frammenti ossei rinvenuti durante lo scavo nelle Grotte Vaticane. Gli studi portarono al riconoscimento dei frammenti ossei come appartenenti a un solo individuo di sesso maschile, robusto e in un’età oscillante tra i 60 e i 70 anni. Tutte le caratteristiche fisiche combaciavano con gli attributi che la storia ci aveva tramandato riguardo a Pietro.

L’unica anomalia era rappresentata da quelle monetine medievali ritrovate nello stesso punto in cui vennero rinvenute le ossa. La professoressa Guarducci trasse la felice conclusione che quelle monetine potevano essere molto facilmente scivolate all’interno del loculo attraverso le fessure del muro e che appartenevano alla moltitudine di fedeli che nei secoli compivano il pellegrinaggio alla tomba dell’Apostolo lasciando, come di consueto, delle monete attorno al luogo santo. Quanto all’osso animale ritrovato nel medesimo punto, si poteva spiegare col fatto che prima di diventare necropoli, quel luogo era stato occupato dagli Horti di Nerone nei quali vi era anche il famoso Circo in cui l’Apostolo avrebbe subito il martirio. Così è probabile che assieme alle ossa di Pietro vennero raccolte anche dei frammenti di ossa animali da quella tomba terragna, esistente sotto all’edicola del II secolo, nella quale, in origine, venne deposto il corpo di Pietro e che gli scavatori trovarono quindi vuota.

Un ulteriore problema sorse quando il Professor Correnti individuò, nel gruppo di ossa all’interno della cassetta, anche 27 frammenti appartenenti al cranio. Questo fatto contrastava con la secolare tradizione secondo la quale il cranio di Pietro dovesse trovarsi custodito all’interno della Basilica Lateranense accanto al cranio di san Paolo. I risultati destarono non poche delusioni poiché la conclusione fu che il cranio custodito all’interno della Basilica Lateranense non risaliva a prima dell’XI secolo ed era probabilmente il frutto di quel commercio di reliquie tanto comune in quei secoli. Per quanto deludenti fossero i risultati circa quel cranio custodito al Laterano dall’altra parte vi era grande entusiasmo per quei 27 frammenti di cranio ritrovati nel gruppo di ossa sotto il Muro G che, a questo punto, dovevano appartenere allo stesso Pietro.

L’IDENTIFICAZIONE DELLE RELIQUIE DI SAN PIETRO

Dopo quasi 30 anni dall’inizio dei lavori di scavo, il 26 giugno 1968, Papa Paolo VI annunciò il ritrovamento e l’identificazione delle reliquie di san Pietro sotto la sua Basilica, luogo in cui la tradizione cristiana da sempre le poneva. Il giorno seguente le ossa dell’Apostolo vennero accuratamente riposte in piccoli contenitori di plexiglas e ricollocate all’interno del piccolo loculo che per quasi duemila anni le aveva gelosamente custodite.

Nel 1998 gli ambienti della Necropoli Vaticana vennero adeguatamente restaurati e consolidati in modo tale da preservarne la preziosità nel corso degli anni. Oggi è consentita la visita al suo interno, attraverso i ricchi mausolei di età imperiale per concludersi proprio davanti alla tomba di Pietro dove si possono ammirare i cofanetti contenenti le ossicine dell’Apostolo.

Frammento del muro Rosso con la scritta PETR ENI