6 febbraio 2013

La Successione Apostolica, verità da ricordare



Ricordiamo alcune verità bibliche:

1 - Il Signore Gesù vuole che il suo Vangelo sia annunziato a tutte le genti e assicura che in quest'opera universale e perenne egli sarà sempre coi suoi inviati o apostoli fino alla fine dei mondo (cfr. Matteo 28, 19-20; Marco 16, 15). In effetti con la scelta dei Dodici e la missione loro affidata Gesù aveva fatto chiaramente capire che quest'opera universale e perenne di salvezza si sarebbe realizzata mediante il servizio di persone qualificate e autorizzate (cfr. Matteo 28, 18-20; Marco 16, 15; Luca 24, 46-49; Giovanni 20, 20-23).

I Dodici hanno ricevuto questo mandato direttamente dal Maestro (cfr. Marco 3, 14, e paralleli). Ma essi sono morti. Come può essere continuato questo ministero qualificato voluto dal Maestro divino? Come sarà perpetuata la struttura della comunità dei suoi discepoli quale egli ha chiaramente indicata?

2 - Gli Apostoli hanno ben capito questa volontà del loro Maestro. Perciò non solo ebbero la preoccupazione di predicare il Vangelo anche fuori della Palestina, nel mondo allora conosciuto, ma si circondarono di collaboratori, che potessero continuare la loro missione. A questi essi trasmisero anche mediante un gesto visibile e significativo, vale a dire con la imposizione delle mani l'autorità che essi avevano ricevuto dal loro Maestro. In seguito diedero disposizioni che, quando essi fossero morti, altri uomini fedeli ed esimi, subentrassero al loro posto.

Abbiamo qui delineata quella che si chiama “successione apostolica”, cioè la continuità del ministero o servizio qualificato nella Chiesa mediante uomini collegati ai Dodici senza interruzione, e mediante i Dodici allo stesso divino Fondatore della Chiesa.

GIUSTIFICA LA BIBBIA QUESTA CONTINUITÀ?
Giustificazione biblica

Un assertore esplicito della successione apostolica è, in modo particolare, san Paolo. Non molto tempo prima della sua morte scriveva a Timoteo: “Tu, dunque, figlio mio, fortificati nella grazia che è in Cristo Gesù. Le cose che udisti da me con l'appoggio di molti testimoni, affidale ad uomini fedeli, capaci di istruire altri a loro volta” (2 Timoteo 2, 1-2).

Spiegazione:

1 - Quando Paolo scriveva queste parole ave- va poca o nessuna speranza di ricuperare la libertà, di poter cioè vivere ancora a lungo. Prevedendo prossima la sua fine si preoccupa di assicurare la continuità nella trasmissione del Vangelo mediante ministri fedeli e ben preparati. Timoteo era certamente uno di questi. A lui Paolo, in una Lettera precedente, aveva raccomandato: “Non trascurare il carisma che è in te e che ti fu dato per mezzo della profezia insieme all'imposizione delle mani dei presbiteri” (1 Timoteo 4, 14).

Timoteo, dunque, può essere considerato il primo anello, dopo Paolo, d'una lunga catena, che è la successione apostolica. Questo significano le parole: “Le cose da me udite con l'appoggio di molti testimoni”. Si tratta d'una consegna, d'una trasmissione di poteri. L'espressione allude a un particolare momento nella vita di Timoteo, nel quale ricevette la missione di predicare il Vangelo con autorità. La consegna era accompagnata da un rito, cioè la imposizione delle mani (cfr. 1 Timoteo 4, 14; 6, 12).

2 - Ma Paolo guarda più avanti. Egli vuole che anche dopo Timoteo vi siano nella Chiesa uomini fedeli e capaci di continuare la stessa autorevole missione. Ad essi Timoteo deve trasmettere lo stesso ministero che ha ricevuto da Paolo: “Le cose che udisti da me affidale ad uomini fedeli, capaci”.

Abbiamo qui il secondo anello della stessa catena: come Timoteo si ricollega a Paolo nel servizio qualificato e autorevole della Parola, così altri devono collegarsi a lui e, mediante lui, a Paolo, a Cristo. Questo servizio non è perciò lasciato allo sbaraglio, alla balìa di avventurieri, ma deve essere continuato mediante la trasmissione da parte di coloro che a loro volta l'hanno ricevuto e fedelmente esercitato.

3 - La catena continua. Gli uomini fedeli e capaci, a cui Timoteo ha affidato le cose udite da Paolo, ossia il Vangelo autentico di Cristo, devono fare lo stesso cammino, affidare cioè ad altri, fedeli e capaci, quelle stesse cose, non altre.

Abbiamo qui il terzo anello della catena. E' implicito nel pensiero di Paolo che su questi altri incombe lo stesso dovere, vale a dire di non spezzare la catena, ma continuarla affidando ad altri ancora lo stesso qualificato e autorevole servizio della Parola. E così fino alla fine dei tempi.

4 - In questa chiara esposizione dell'Apostolo sono ben delineati i connotati di quella che si chiama “la successione apostolica”. E' una catena ininterrotta - ripetiamo - che dal Signore Gesù, mediante gli Apostoli da lui scelti, autorizzati, inviati, e mediante i loro legittimi successori, deve continuare fino alla fine del mondo (cfr. Matteo 28, 20). Chi si pone fuori di questa catena non ha nessuna autorità, nessun diritto, nessuna garanzia di annunciare il Vangelo eterno del Figlio di Dio. Il Signore Gesù ha assicurato la sua presenza, cioè la sua assistenza, ai suoi Apostoli, non ad altri, fino alla fine del mondo.

Commenta un biblista:
“La "successione apostolica" è qui chiaramente delineata (...). L'Apostolo si preoccupa che Timoteo stesso si prepari dei collaboratori nell'insegnamento, tra i quali, ovviamente, qualcuno avrebbe dovuto prendere il suo posto quando il discepolo stesso sarebbe morto. "Quelle cose da me udite davanti a molti testimoni, affidale in custodia ad uomini sicuri, i quali siano capaci di ammaestrare anche altri" (2 Timoteo 2, 2). Come Cristo si è creato i suoi rappresentanti legittimi, cioè gli Apostoli, così questi si scelgono e designano dei successori, i quali a loro volta designano altri; e così fino alla fine dei tempi. C'è una "legittimità" di rappresentanza, la quale non può prescindere, oltre che da specifiche doti umane e spirituali, quali l'apostolo ripetutamente enumera, anche da un autentico e ben chiaro rapporto di ascendenza che, in qualche maniera, ricolleghi a colui o a coloro dai quali viene gestita la rappresentanza”.
0 Timoteo, custodisci il deposito (1Timoteo 6, 20)

Noi arriveremo alla stessa conclusione esaminando ciò che Paolo scrive ancora a Timoteo nella prima Lettera: “0 Timoteo, custodisci il deposito” (1 Timoteo 6, 20).

Quando Paolo scriveva questa Lettera, dense nubi si addensavano all'orizzonte della sua vita. Infatti, dopo appena due anni, arriverà per lui il tempo di levare l'ancora (cfr. 2 Timoteo 4, 6), e verserà il suo sangue come offerta a Dio gradita.

In questo contesto, le parole sopra citate a Timoteo, che era stato preposto alla guida della chiesa di Efeso, hanno tutto il sapore di un testamento. Al discepolo, che aveva tutte le caratteristiche di un Vescovo, Paolo raccomanda di custodire il deposito. Nel linguaggio giuridico del tempo deposito era qualcosa consegnata a una persona di fiducia, che contraeva il diritto-dovere di custodire la cosa consegnata nella sua integrità per riconsegnarla a suo tempo sostanzialmente immutata.

Al di là della metafora, le cose sono chiare senza possibile dubbio. Cristo ha affidato il deposito del Vangelo agli Apostoli. Paolo si sentiva ed era Apostolo di Cristo a tutti gli effetti. Come i Dodici egli sentiva di essere un depositario della Parola di Dio. Presentendo vicina la sua fine terrena, affidava tale deposito a persona qualificata e di fiducia quale era appunto Timoteo.

Trattandosi di un deposito, Timoteo a sua volta dovrà fare lo stesso, finché il tesoro depositato si conservi integro fino al ritorno del Depositante, che è Cristo Signore. Si forma così una catena ininterrotta di depositari, che garantiscono la custodia integra kl deposito conforme alla volontà del Padrone.

“Come Paolo ha ricevuto gli insegnamenti che ha trasmesso ai suoi discepoli (cfr. 1 Corinzi 11, 2 e 23; 15, 1-3; Galati 2, 2.9), così dovrà fare a sua volta Timoteo il deposito (cfr. 1 Timoteo 6, 20) è da custodirsi e insieme trasmettersi. Canale di questa trasmissione è Timoteo insieme ad altri, perché non udì da solo gli insegnamenti di Paolo, ma fra molti testimoni (cfr. 1 Timoteo 6, 12). Timoteo e i testimoni insieme formano come una sola vox populi del cristianesimo che è la vox Dei, ed essi a loro volta trasmetteranno quella unica voce ad uomini fedeli”.

Modalità nella successione

Gli Apostoli dunque ebbero dei collaboratori, ai quali trasmisero il ministero o servizio qualificato e autorevole di maestri e guide delle comunità. I collaboratori divennero successori. Ma quale fu la forma concreta di questa successione? Chi ne fu il soggetto?

1 - Dai documenti in nostro possesso, soprattutto dagli Atti degli Apostoli e dalle Lettere di san Paolo, appare chiaro che la trasmissione dei poteri dell'Apostolo è personale e individuale, non collettiva e anonima. A Gerusalemme abbiamo il caso di Giacomo. Fin dai primissimi tempi appare come il Vescovo di quella chiesa, attorniato da anziani o presbiteri (cfr. Atti Il, 30; 15, 6-13; 21, 8). Simile corso ebbe luogo nelle chiese di Efeso con la presenza e l'opera di Timoteo (cfr. 1 Timoteo 1, 3), e di Creta con Tito (cfr. Tito 1, 5). Ben a ragione i due collaboratori dell'Apostolo vanno considerati come i primi successori in quelle comunità col potere d'insegnare e di guidare.

La stessa cosa sembra potersi dire della chiesa di Antiochia di Siria. Con ogni probabilità fu Pietro a guidare quella chiesa per un certo tempo (cfr. Galati 2, 11). A lui successe Evodio, a cui tenne dietro come Vescovo Ignazio, che finì la vita col martirio a Roma nel 107 d.C. Il martire Ignazio è il testimone più esplicito della forma monarchico-episcopale delle chiese fin dai suoi tempi, vale a dire fin dalla seconda metà del primo secolo (cfr. infra).

Infine è molto probabile che “gli angeli” delle sette chiese, di cui parla l'Apocalisse nei capitoli 2 e 3 (cfr. anche 1, 20), rappresentino i singoli Vescovi di quelle chiese. E Giovanni scrisse verso la fine del primo secolo.

2 - Tuttavia, almeno in alcune chiese di origine paolina, sembra che la successione si sia attuata in un primo tempo in una forma collegale, sfociata a breve scadenza in quella monarchica, a imitazione delle altre chiese. Le cose si sarebbero svolte nel modo seguente in sintonia con quanto aveva fatto lo stesso Paolo.

Finché visse l'apostolo era lui il responsabile. Ma la cura immediata delle singole comunità era affidata a un consiglio di anziani (cfr. Atti 14, 23; 1 Tessalonicesi 5, 12-13). Tra gli anziani era eletto uno chiamato “episcopo” con funzioni direttive particolari (cfr. Tito I# 5). La figura dell'episcopo è di qualcuno che debba avere qualità non comuni (cfr. 1 Timoteo 3, 1 ss; Tito 1, 7-9). E' significativo il fatto che Paolo, nella Lettera a Tito (1, 7), parli dell'episcopo al singolare.

Dopo la morte dell'Apostolo, assai di buon'ora, prevalse la forma monarchica di successione. L'episcopo divenne Vescovo, imitando il comportamento avuto da Paolo nei riguardi di Timoteo e Tito.

3 - Testimone autorevole di questo sviluppo è certamente il martire Ignazio di Antiochia, già ricordato. Egli visse nella seconda metà del primo secolo e fu quindi contemporaneo dell'autore dell'Apocalisse. Di lui rimangono numerose e chiare testimonianze sulla struttura delle singole chiese, che si accentra nella figura del Vescovo.

“Procurate di fare ogni cosa (...) sotto la guida del Vescovo, che tiene il luogo di Dio”: “Nessuno faccia senza il Vescovo alcuna di quelle cose, che riguardano la Chiesa (...). Dove appare (il Vescovo), ivi sia la comunità, come dov'è Gesù Cristo, ivi è la Chiesa cattolica. Quello che il Vescovo fa è approvato da Dio”.

In tutte le lettere di Ignazio, anche in quelle indirizzate alle chiese di origine paolina, la figura del Vescovo appare in modo chiaro ed inequivocabile.

“Dato che prima della fine del 1 secolo si trovano chiese sotto un unico Vescovo, si può presumere che uno dei membri del collegio fosse eletto a succedere all'apostolo, dopo la morte di lui, come capo monarchico della chiesa”.

http://digilander.libero.it/ametistaazzurra1967/21.htm