6 aprile 2012

100 risposte ai fratelli separati di buona volontà

A cura di frà Tommaso Maria di Gesù (francescano)
Via alla Falconara n° 83 - 90100 Palermo - Tel. 0916730658

Presentazione

Fratelli carissimi, l’autore di questo lavoro, il francescano Frà Tommaso Maria di Gesù, uno fra i tanti Cattolici di buona volontà, risponde alle “Cento Domande” dei Pastori evangelici Stefano Testa e Lorenzo Calmieri. (Ediz. Centro Biblico – Via Carriera Grande,37 800139 - Napoli).
Il Parisi ha letto attentamente le “Cento domande” e risponde con brevità e chiarezza. Per l’amore che voi – certamente non meno di noi- portate alla Verità, siate così umili e pazienti di leggere più volte – come ha fatto l’autore delle “Cento Risposte” – il libro che vi si presenta in tutta umiltà e con tanta affettuosità.
Vi prego fraternamente di scorrere lo scritto – per quanto vi sarà possibile – scevri da pregiudizi e con la Bibbia alla mano, come è stato fatto dai due autori di questo modesto lavoro. Accingendovi allo studio di questo libro, rivolgete calde preghiere a Gesù Benedetto, Signore nostro, di cui ci onoriamo tutti – benché indegni – di essere seguaci. Anch’io ho letto – vorrei dire cento volte – le “Cento domande” e con molto interesse, che spesso si è cambiato in profonda emozione.
Infatti, seguendo le “Cento domande”, un cattolico che ha delle nozioni chiare – seppure sempre limitate – della Bibbia e dei suoi passi principali, non riesce a comprendere come mai si possano dare intepretazioni così contrarie, offendendo spesso la logica, il senso letterale, filologico, storico e biblico della S. Scrittura e nello stesso tempo credere di essere nel vero.
Salvata la buona fede, chi ha studiato con una certa serietà e senza pregiudizi le S. Scritture, seguendo logicamente anche le istruzioni dell’Organo Ufficiale e competente lasciato da Cristo a tale scopo, deve fare grande sforzo per eludere la tentazione che le “Cento domande” siano state compilate con la determinazione di suscitare confusione e incertezze in persone semplici e sprovvedute.
Le “Cento domande” sono dichiarate strettamente bibliche, mentre spesso sono mescolate a questioni che trattano argomenti di secondaria importanza ed anche extrabiblici o addirittura contro la Bibbia. Queste mie preliminari affermazioni nel presentare le “Cento risposte” agli Evangelici e Protestanti di buona volontà troveranno conferma nello scritto del francescano suddetto, ed anche in quella parte che scrive il confratello fra Deodato nella sua “Lettera aperta a tutti i Fratelli separati di buona volontà”, lettera di chiarificazione su alcuni punti principali del Vangelo.
Chiudo queta “presentazione” pregandovi, carissimi Fratelli separati, di credere alla mia sincerità ed al mio amore fraterno per voi. Senza questi due sentimenti evangelici mi sentirei non fratello, ma vostro nemico e, quindi, traditore di Cristo, che forma l’oggetto più sacro dei miei affetti e l’aspirazione più ardente del mio cuore. In Lui, per Lui e con Lui vi auguro la sua pace e tutto il bene che Egli solo ci può dare.

Vostro fratello in Cristo Fra Tommaso Maria di Gesù dei frati Minori Rinnovati

PREMESSA

     Rispondiamo - con questo nostro lavoro - alle Cento domande per i cattolici di buona volontà, opuscolo così intitolato che i Protestanti vanno diffondendo a profusione tra le file cattoliche.
     Rispondiamo non per alzare nuovi steccati tra noi e i fratelli separati delle chiese evangeliche, ma per lumeggiare verità che - pur contenute nella S.Scrittura - vengono da essi negate o non bene interpretate, e per dissipare equivoci ed incomprensioni facilitando così - in questi nostri tempi di avanzato ecumenismo - la via alla bramata unificazione del mondo cristiano.
     E' giunta l'ora che l'unico battesimo e la comune responsabilità - radicata nell'obbedienza a Cristo - debbono spingerci a fare tutto il possibile e con urgenza perchè sia eliminato lo scandalo delle divisioni.
Il mondo oggi ha più che mai bisogno di Cristo, ma stenta a riconoscerlo nei volti diversi e contrastanti nei quali gli viene presentato.

Le Cento domande, che i Protestanti presentano a noi cattolici, hanno avuto già da secoli esaurienti risposte, ma - riverniciate a nuovo - vengono di continuo ripresentate. Sembrano formulate apposta per confondere le idee e trarre in inganno: mettono infatti sullo stesso piano affermazioni dogmatiche - che tutti ovviamente dobbiamo credere - e semplici disposizioni magisteriali riformabili, norme pratiche (pastorali, liturgiche, canoniche) e opinioni teologiche di singoli, ipotesi e pie credenze popolari.Tutto - se non coincide con le loro concezioni religiose - è bollato dai Protestanti di eresia, mentre sappiamo che questa si ha solo nel caso di aperto e pervicace rifiuto di una verità rivelata e proposta' come tale ai fedeli. (Il pastore Stefano Testa pone in calce del citato opuscolo una lunga Lista delle eresie e delle invenzioni umane adottate e perpetuate dalla Chiesa Cattolica romana nel corso di 1600 anni)

     Ci si chiede di rispondere a queste Cento domande con la Bibbia (che per essi è l'unica fonte rivelata valida), cosa che noi ben volentieri facciamo per motivi di dialogo pur sapendo che questa posizione é in realtà insostenibile: la S.Scrittura non contiene - tra l'altro- il canone di se stessa, per il quale necessariamente si deve ricorrere alla Tradizione. E mentre noi Cattolici attingiamo le nostre certezze di fede - e a maggior ragione le norme pratiche - non dalla sola Bibbia e mai in contrasto con essa, gli Evangelici pretendono di ricavare dalla sola Bibbia - non senza cadere talvolta nel ridicolo - anche comportamenti del tutto contingenti. Nell'opuscolo si afferma (pag.4) che la Chiesa "rimase pura e fedele al Vangelo per circa 300 anni" e che dopo la conversione di Costantino (313) essa deviò (Per ragione di brevità nella trattazione ometteremo di ripetere questa premessa alle singole domande, che anche noi - come nell'opuscolo - indicheremo col numero cardinale).

     Saprebbero dire gli Evangelici che fine ha fatto dopo di allora la Chiesa, che Cristo ha fondato e contro la quale ha promesso che neanche le porte degli inferi, avrebbero prevalso? Saprebbe dirci il pastore Stefano Testa - autore dell'opuscolo - quale fu da quel tempo la vera Chiesa?

     Se Cristo fondò una sola Chiesa, che chiama anche la "sua Chiesa", ne consegue che ogni altra, sorta lungo il corso dei secoli, non può essere la sua Chiesa e tanto meno la vera Chiesa, ma opera di semplici uomini: da tali uomini, infatti, le chiese stesse vantano la loro origine e spesso ne prendono anche il nome, come quella luterana da Martin Lutero, quella anglicana da Enrico VIII d'Inghilterra, e così via. In tal modo le innumerevoli Chiese evangeliche, pullulate dopo la Riforma per l'azione dirompente delle dottrine luterane, non possono vantarsi di costituire la vera Chiesa pur professandosi cristiane: sono infatti venute fuori ad opera di semplici uomini e quando già da oltre quindici secoli la Chiesa fondata da Cristo svolgeva nel mondo la sua missione. Sono certamente esse pure in possesso di non pochi elementi di santificazione e di verità, ma anche questi sono propri dell'originale e integrale patrimonio della Chiesa cattolica; esse partecipano di questa ricchezza solo parzialmente e in misura della loro vicinanza dottrinale e strutturale con essa. Per sostenere il loro allacciamento a Cristo, le chiese evangeliche hanno fatto ricorso ad una ingegnosa invenzione, secondo la quale Cristo non avrebbe istituito propriamente una Chiesa visibile e gerarchica - come in modo chiaro ed evidente risulta dal Vangelo e dalle parabole e similitudini che la configurano - ma una Chiesa puramente spirituale invisibile ed universale, per cui, pur separate e staccate dalla Chiesa cattolica, esse ne farebbero parte lo stesso in modo invisibile mediante la fede in Cristo. Lo confessa candidamente il Pomar, protestante, il quale riconosce che i Riformati "da principio insegnarono che la Chiesa di Gesù Cristo è visibile; ma poi, chiedendosi loro dove, prima di Lutero, si ritrovasse la loro chiesa, si indussero a dire che essa erasi resa invisibile" (Per gli Evangelisti di buona volontà segnaliamo: Ferrua: Nelle grotte di S.Pietro, in la Civiltà Cattolica, 1941-1942; E Kirshbafm: Gli scavi sotto la Basilica di S.Pietro, in Gregorianum, 1948).

     Se dunque solo quella cattolica è la vera ed autentica Chiesa di Cristo, anche ad essa e ad essa soltanto egli affidò il sacro deposito della fede col mandato di custodirlo, interpretarlo nel giusto senso inteso dallo Spirito Santo e portarlo autorevolmente alla conoscenza dei popoli. Voler quindi accusare la Chiesa cattolica di deviazionismo e di eresia, o che abbia, dopo il terzo secolo, rinnegata la fede primitiva, é lo stesso che dire che la Chiesa non è più "la colonna e il fondamento della verità" come la contemplò l'Apostolo (1 Tm 3,15); che Cristo l'ha abbandonata a se stessa nonostante la sua solenne promessa di assisterla in ogni tempo "Io sarò con voi tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli" (Mt 28,20); e che Egli avrebbe permesso alle porte degli inferi - contrariamente a quanto aveva espressamente assicurato - di prevalere per ben quindici secoli (fino all'avvento della Riforma protestante) sopra di essa.
     E' quanto di più assurdo e irriverente nei riguardi della S. Scrittura - a cui anche i Protestanti dicono di credere come a parola di Dio - si possa pensare e immaginare!

     Il Prof. Zardi, ex pastore protestante, nel giorno della sua conversione al cattolicesimo, rivolse queste parole ai vecchi correligionari che assistevano al suo atto di abiura: "Ai fratelli separati dico: nel nome di Dio e di Gesù che mi arde nel cuore, ritornate alla Chiesa dei nostri padri, nella Chiesa della nostra patria, che è la Chiesa di Cristo. Fate un atto eroico, Gesù vi aspetta a braccia aperte. Vi assicuro che non vi sbagliate. lo ho studiato per voi, e vi assicuro che la via che vi addito è la via giusta perchè è quella di Dio"(Giulio Berardi: Bibbia con la Bibbia Pag.63).

     E' quello che anche noi, per la comune fede che ci lega a Cristo, ripetiamo qui di tutto cuore ai nostri fratelli separati.

Capitolo I - LA CHIESA

Puoi provare con la Bibbia - cosi si apre nel citato opuscolo, diffuso dai Protestanti, la serie delle domande - :

l. Che Gesù Cristo abbia fondato la Chiesa cattolica romana, anzichè la Sua Chiesa? (Leggi Matteo 16,18).

     Equivoca e quanto mai capziosa appare questa prima domanda alla luce delle chiare affermazioni del Vangelo. La Chiesa di Cristo, infatti, quella che in S. Matteo (16-20) egli chiama appunto, con tenerezza divina, la mia Chiesa, non è e non può, essere che quella fondata su Pietro: "Tu sei Pietro (-cefa, roccia) e su questa pietra edificherò la mia Chiesa".
     Il Vangelo, al riguardo, non può essere più esplicito. A Pietro -, primo capo di tale Chiesa scelto dallo stesso divin fondatore -, nel corso dei secoli e senza soluzione di tempo si sono succeduti nella sua sede episcopale i Romani Pontefici fino a quello attuale, per cui la Chiesa di Roma è quella che deriva direttamente da quella istituita da Cristo e con essa necessariamente si identifica. Se così non fosse, bisognerebbe dire o che Cristo nessuna Chiesa ha fondato o che il suo disegno sia andato miseramente fallito, perchè dopo di lui non è sorta al mondo altra Chiesa che vanti origine da lui. Lungo i secoli si sono avute, è vero, numerose altre Chiese, ma queste provengono tutte come scismatiche o eretiche da una separazione da quella Romana o dall'aperto abbandono delle verità fondamentali della dottrina di Cristo.

Dissidenti ed eretici - come aveva predetto Nostro Signore stesso - hanno infatti sconsigliatamente scossa ed infranta l'unità religiosa voluta da Cristo per la sua Chiesa. Foglie e rami sono così caduti in ogni tempo dal gigantesco tronco piantato dal Figlio di Dio; ma mentre l'albero grandioso - tetragono ai ripetuti assalti delle forze avverse - ha continuato a donare la sua ricchezza vitale, allargandosi sempre più fino agli estremi confini della terra, nei rami staccati altri distacchi si sono prodotti, lo scisma ha generato nuovi scismi.
E' anche per questa dolorosa realtà che nessuno - per poco che vi rifletta - stenta oggi a riconoscere nella Chiesa di Roma, sempre compatta ed unita, quella autentica di Cristo. Del resto, possono questi nostri fratelli separati provare "con la Bibbia" che Cristo abbia fondato le loro varie comunità evangeliche, spesso divise e in lotta tra di loro, anzichè la "sua Chiesa? "
La domanda successiva sembra formulata apposta per più confondere le idee.

2. Puoi provare che le dottrine e le pratiche della Chiesa romana di oggi siano le stesse di quelle della Chiesa primitiva?

     Rispondiamo: se si tratta di verità contenute - almeno implicitamente - nella S.Scrittura e quindi da Dio rivelate, le dottrine della Chiesa di oggi sono perfettamente identiche a quelle della della Chiesa primitiva. Se invece si tratta di semplici norme e disposizioni che regolano i riti liturgici, il modo di amministrare i sacramenti, la lingua da usare nelle celebrazioni cultuali, e simili - al cui riguardo nessuna prescrizione si ha nel testo biblico - è logico che possono non essere le stesse; lo stabilirle, in questo caso, resta nelle facoltà della Chiesa, che, come organismo vitale e in continua crescita sapientemente le adegua - scrutando sempre i segni dei tempi - alle esigenze contemporanee e ai mutati bisogni spirituali delle anime. Del resto, potrebbero i nostri fratelli separati dimostrare con la Bibbia - essi che tanto critici ed esigenti si mostrano nei riguardi della Chiesa cattolica - che le loro dottrine e pratiche di oggi siano le stesse di quelle della Chiesa primitiva? Che, ad esempio, i primi cristiani avessero dei luoghi di culto diversi dalle case private, che avessero delle grandi vasche apposta per i battesimi, che usassero le chitarre ed altri strumenti musicali,ecc.? .
Non meno subdola ed insidiosa si presenta la domanda 3, la quale non solo dà un numero incompleto delle tradizionali note essenziali e distintive della Chiesa ma le interpreta anche in modo inesatto e tendenzioso:

3. Puoi provare: "Che la Chiesa di Roma sia quella stessa che Cristo fondò, cioè: SANTA, ossia preoccupata soltanto di servire Dio per la redenzione spirituale dell'umanità? - CATTOLICA nel senso che le sue dottrine e pratiche sono state professate da tutta la cristianità dai primi secoli fino ad oggi? - APOSTOLICA vale a dire che sia rimasta fedele alla fede, alla dottrina e alle pratiche degli Apostoli, quali risultano nel Nuovo Testamento, tanto da poter dire: il Vangelo, tutto il Vangelo e nient'altro che il Vangelo? ".

     Come anche i semplici cristiani sanno, le note essenziali, che contraddistinguono la vera Chiesa di Cristo, non sono semplicemente tre - come la domanda vorrebbe farci credere, - bensì quattro, consacrate solennemente fin dai primi inizi del cristianesimo nel Credo o Simbolo apostolico e ripetute anche in quello di Nicea (325) ed in quello costantinopolitano (384):
                      "Credo la Chiesa, UNA, SANTA, CATTOLICA, APOSTOLICA".
La domanda ignora proprio la prima e la più fondamentale di tali prerogative - quella dell'unità -, che stava particolarmente a cuore al divin Redentore fino a chiederla con amorevole insistenza al Padre nella sua preghiera sacerdotale dell'Ultima Cena (Gv. 17) e che formalmente promise alla sua Chiesa: e si farà un solo ovile e un solo pastore" (Gv 10,16).
Di questa importantissima e fondamentale prerogativa dell'unità, che comporta non solo unità di fede ma anche di regime, la Riforma protestante ha fatto un vero e proprio scempio. Chiese e sette ormai senza numero, professanti ciascuna dottrine sostanzialmente diverse e spesso contrastanti, non riflettono più - neppure nei punti fondamentali come in fatto di sacramenti - il genuino insegnamento di Cristo e degli Apostoli. Oltre a ciò manca in esse - non dovendo sottostare ad alcuna Chiesa visibile - ogni unità di governo. Una vera babele regna a questo riguardo nel mondo protestante: chiunque può arrogarsi il diritto, secondo che si sente interiormente ispirato, di dirigere gli altri in fatto di fede e facendosi da sè - senza dipendere da alcun superiore - caposcuola e fondatore di una nuova setta. Se una parvenza di unità si riscontra in qualche precipua setta, essa le proviene quasi sempre dall'autorità politica, che ne ha fatto una chiesa nazionale.
Santa è la Chiesa, non per il grado di fervore - sempre soggettivo ed interiore - con cui si serve Dio, ma perchè santo è il suo capo e fondatore Gesù Cristo; santa la sua dottrina in tutto conforme al Vangelo; santi i sacramenti istituiti per la salvezza delle anime e che essa fin dai suoi primi inizi fedelmente conserva ed amministra; santa anche perchè in molti dei suoi figli ha saputo produrre frutti mirabili di perfezione evangelica.
Cattolica, cioè universale, è la Chiesa non perchè le sue dottrine siano state professate esplicitamente "da tutta la cristianità dai primi secoli fino ad oggi", ma perchè essa è destinata ed abbraccia le genti di tutti i tempi e di tutti i luoghi senza distinzione alcuna di razza o di nazione in piena ottemperanza al comando divino: "Andate e predicate a tutte le genti" (Mt 28,19).
Apostolica, infine, è la Chiesa non per il fatto che si sia mantenuta ferma ad una formulazione arcaica delle verità da Dio rivelate e trasmesse dagli Apostoli, ma perchè ne conserva intatto l'insegnamento attraverso i loro legittimi successori i Romani Pontefici e i Vescovi preposti al governo delle chiese locali.

Non diversamente dai farisei del Vangelo, che gridavano allo scandalo nel vedere Cristo mangiare e bere coi pubblicani e i peccatori (Me 2,16), i Protestanti passano a domandarci:

4. Alla Chiesa di Cristo possono appartenere dei peccatori non convertiti e impenitenti, ladri, assassini, adulteri, bugiardi, ingannatori, bestemmiatori, idolatri, ecc... ? " (Gal 5,19-21; Ef 5,5; Ap 22,15).

     Ma tanta e così indignata sorpresa, espressa dai Protestanti in questa loro domanda, viene a trovarsi in pieno e stridente contrasto con la S.Scrittura. Che facciano infatti parte della Chiesa di Cristo, viatrice in questo mondo verso la patria del cielo, non solo i giusti ma anche i peccatori, lo si deduce in modo evidente dalle parabole cosiddette "del regno", nelle quali i giusti vengono raffigurati in comunanza di vita coi peccatori. Così nella parabola della rete: "Il regno dei cieli è simile ad una rete gettata in mare, che prende ogni sorta di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, poi sedutisi, mettono i buoni nei canestri e buttano via i cattivi" (Mt 13,47-48). Così pure nella parabola del loglio o zizzania, ai servitori, meravigliati che insieme al grano fosse spuntato e crescesse anche loglio e che propongono di andarlo subito ad estirpare, il padrone risponde: "No, per timore che cogliendo il loglio, sbarbiate anche il grano. Lasciate che l'uno e l'altro crescano fino alla mietitura" (Mt. 13,28-29). Oltre a ciò viene a dissipare ogni dubbio - anche se ve ne fosse bisogno - il Vangelo dello stesso S.Matteo: "Se un tuo fratello ha peccato contro di te, va e correggilo fra te e lui solo; se ti ascolta hai guadagnato il tuo fratello. E se non ti ascolta, prendi con te uno o due affinchè per bocca di due o tre testimoni si stabilisca ogni cosa. E se non ne fa caso, fallo sapere alla Chiesa: se poi non ascolta neppure la Chiesa, consideralo come un pagano o un pubblicano" (Mt 18,15-17). Qui - come è chiaro - si tratta di un peccatore che fa parte della Chiesa. E' quindi falso che vi facciano parte soltanto i giusti. I Protestanti adducono in contrario i passi della S.Scrittura, da essi citati in calce alla stessa domanda. Ma tali passi si riferiscono alla fase finale del Regno dei cieli, cioè al Paradiso. Così in Galati 5,19-21 dopo di aver elencato diversi generi di peccatori, si conclude: "Coloro che fanno tali opere, non avranno in eredità il regno di Dio". In Efesini 5,5 "Perchè sappiatelo bene, nessun fornicatore, nessun impudico, nessun avaro, che è quanto dire nessun idolatra, partecipa al regno di Cristo e di Dio". La separazione tra buoni e cattivi avverrà alla fine del mondo come apertamente vien detto anche nelle parabole citate: "Così avverrà alla fine del mondo: gli angeli verranno e separeranno i cattivi di mezzo ai giusti, e li getteranno nella fornace di fuoco, dove sarà pianto e stridore di denti" (Mt 13,50).

Si passa, dopo di ciò, a domandarci

5. "Che non vi sia salvezza fuori della Chiesa romana?" (cfr At 4,10-12).

     Se Cristo ha istituito la sua Chiesa lo ha fatto evidentemente perchè le anime raggiungessero la loro salvezza eterna poichè Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità" (1 Tm 2,4). Se infatti la Chiesa è l'ovile, del quale Cristo è la porta, e il gregge, di cui Egli stesso è il buon Pastore (Gv 10,1; 1 Pt 5,4), è più che chiaro che per raggiungere la salvezza occorre farvi parte. Solo Cristo - come si sa - è il Mediatore e la via della salvezza; ora, se Egli si è reso presente in mezzo a noi nel suo Corpo che è la Chiesa, ne resta con ciò stesso comprovata la necessità di questa sua Chiesa, nella quale si entra per il battesimo come per una porta (cfr Mc 16,16). Non potrebbero per conseguenza salvarsi quegli uomini che, pur sapendo che la Chiesa cattolica è stata da Cristo fondata come necessario mezzo di salvezza, non volessero entrare in essa o in essa perseverare. Come il Verbo incarnato, "luce del mondo"(Gv 9,5) "che illumina ogni uomo"(Gv 1,9), ha in sé una natura invisibile - la divina - e una natura umana che lo rende visibile agli uomini, cosi pure la sua Chiesa consta di un duplice elemento: la sua intima vitalità soprannaturale, e la sua compagine esterna, fatta di gerarchia e di popolo, che ne è la parte strutturale visibile. Non è quindi difficile capire che per essere pienamente incorporati nella società della Chiesa è necessario accettare integralmente la sua organizzazione e tutti i mezzi di salvezza di cui è dotata ed essere così - anche nella sua struttura visibile - congiunti in pienezza di vita con Cristo. Però, anche se incorporato alla Chiesa, non si salva colui che non persevera nella carità e nella fede. Viceversa si salva, grazie alla Chiesa e perché in qualche modo appartenente ad essa, chi pur non conoscendo il Vangelo di Cristo si sforza con tutto il cuore di conoscere la verità e di metterla in pratica secondo i dettami della coscienza.

Capitolo II - S. PIETRO

     Cristo è detto nella S.Scrittura "Pietra angolare", sulla quale è stabilito il regno dei cieli sulla terra (cfr. Is 28,16). Questa profezia la richiama anche S.Pietro e ne indica in Cristo il compimento: "..Accostatevi a lui (Cristo) pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e onorata da Dio. Voi pure come pietre vive siete edificati sopra di lui" (1 Pt 2,4-6).
Da questi passi biblici partono i Protestanti a spada tratta per negare a Pietro la prerogativa di capo della Chiesa e di fondamento sul quale Cristo, l'ha edificata e chiedono indignati:

6. "Che S.Pietro fosse il primo Papa?
8. Che egli fosse il Principe degli Apostoli e il capo visibile della Chiesa di Cristo?
9. Che egli avesse ricevuto dal Signore la suprema pontificia potestà, cioè il primato di Pietro


     A dire il vero, nella Chiesa cattolica mai nessuno si è sognato di spogliare Cristo della sua essenziale ed irrinunciabile prerogativa di capo e di fondamento della Chiesa, ma non vediamo - a semplice lume di ragione - perchè Egli, dovendo dopo la risurrezione fare ritorno al Padre e lasciare quindi il mondo, non potesse preporre Pietro nel governo della Chiesa - da lui istituita come società di uomini e quindi visibile - quale suo Vicario per fare le sue veci nell'ufficio di fondamento visibile. Con siffatto incarico a Pietro, Cristo non rinunzia ad essere fondamento e capo della Chiesa, ma semplicemente si procura un rappresentante perchè faccia nel mondo e nel corso dei secoli in modo visibile le sue veci.
     Nel Vangelo appare chiaro che Cristo durante il periodo della sua vita pubblica si preoccupò principalmente di formare il gruppo dei Dodici, cui affidare dopo la sua partenza la prosecuzione della sua missione garantendo la sua assistenza, poiché proprio questo è il significato delle sue parole: " ... io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo" (Mt 28,20).
     In questo gruppo emerge Pietro, sia nella vita di Cristo, sia dopo la Pentecoste quale capo del Collegio apostolico. Al di là della terminologia "primo Papa", "suprema pontificia potestà" o "primato di giurisdizione" nel Nuovo Testamento c'è la sostanza di ciò che con essa si cerca di esprimere con precisione concettuale, e quindi appare ridicola la contestazione protestante per il fatto di non trovarsi tali termini nel testo sacro. Pietro non diventa capo della Chiesa per volontà propria né per decisione del Collegio apostolico, ma per libera scelta ed espressa volontà dello stesso divin Fondatore. Nel Vangelo si colgono segni evidenti di predilezione di Gesù verso Pietro.
    Già al primo incontro gli cambia il nome: "Tu sei Simone, figlio di Giona; tu ti chiamerai Cefa, che significa Pietra" (Gv 1,42), ciò che è indizio, secondo lo stile biblico, di un disegno divino. Oltre a ciò, Gesù ha sempre qualche preferenza per Pietro: lo fa camminare sulle acque (Mt 14,29); per Pietro e per sè paga il tributo cavato dalla bocca di un pesce (Mt 17,27); per Pietro prega in modo particolare (Lc 22,32); a Pietro per primo lava i piedi (Gv 13,6); a lui appare dopo la sua risurrezione, prima che agli altri Apostoli (Lc 24,35).
     Di questa preminenza di Pietro gli Apostoli appaiono pienamente al corrente: Pietro e Giovanni si recano al sepolcro la mattina della risurrezione; Giovanni arriva prima ma non osa entrare se non dopo Pietro (Gv 20,8). Pietro esprime il desiderio di ritornare alla pesca e gli altri Apostoli senz'altro lo seguono. Ogni qualvolta si fa nei Vangeli l'elenco degli Apostoli Pietro vi occupa sempre il primo posto pur non essendo lui il primo chiamato (Mt 10,2; Mc 3,16; Lc 6,14). Nel gruppo dei tre Apostoli prediletti, che Gesù chiama al suo fianco in momenti solenni, come la trasfigurazione e l'agonia del Getsemani, Pietro è sempre il primo, Giacomo e Giovanni lo seguono. Anche quando tutto il Collegio apostolico viene indicato in modo generico, l'evangelista usa la formula significativa: "Pietro e quelli che erano con lui" (Mc 1,36).
     Ma al di sopra di così chiari indizi di preminenza, abbiamo nei Vangeli due fatti di indiscutibile importanza e che fugano ogni incertezza: la promessa del primato e il suo conferimento.
     Leggiamo in Matteo che un giorno Gesù, nei pressi di Cesarea di Filippo, sollecitati gli Apostoli a manifestargli ciò che la gente diceva di Lui, soggiunse poi: "E voi chi dite che io sia? ". Risponde per tutti Pietro: "Tu sei il Cristo, Figlio del Dio vivente". E Gesù di rimando: "Ed io dico a te che tu sei Pietro, e su questa pietra (cefa, roccia) edificherò la mia Chiesa e le porte degl'inferi non prevarranno contro di essa. E a te darò le chiavi del regno dei cieli; e qualunque cosa avrai legato sulla terra, sarà legato anche nei cieli, e qualunque cosa avrai sciolto sulla terra, sarà sciolto anche nei cieli" (Mt. 16,15-19).
     A questa sua promessa, chiara ed inequivocabile, Gesù dà compimento in riva al lago di Tiberiade, dopo la sua risurrezione. I testi evangelici del conferimento del primato a Pietro sono due: quello di Luca 22,31-32, dove si dice che Cristo, dopo aver pregato per Pietro affinchè la sua fede non venga meno, gli affida il compito, di consoli- dare la fede degli altri, in forza delle quali parole le sorti della Chiesa restano legate per sempre a Pietro; e in Giovanni 21,15-18. Quivi - dopo avergli chiesto per tre volte: "Pietro, mi ami tu più di questi? ", Gesù gli ripete: "Pasci i miei agnelli... Pasci le mie pecore".
    Sono queste le parole divine e solenni con cui viene conferito a Pietro il primato, non solo di onore e di precedenza, ma anche di giurisdizione. Gli vien dato il pieno mandato di pascere, cioè di governare, dirigere e tutelare tutto il gregge (fedeli e vescovi), che crescerà nel corso dei secoli. Cristo, che si era proclamato il Buon Pastore dell'unico ovile, a cui son chiamate tutte le pecore (cfr. Gv 10), proclama ora Pastore del suo gregge Pietro, il quale viene in tal modo costituito fondamento visibile della Chiesa, giudice inappellabile che lega e scioglie, guida suprema e garante dell'unità del mistico ovile, rappresentante e Vicario in terra del Figlio di Dio e come tale depositario di una autorità unica al mondo.

     Forse nessun testo del Vangelo è stato assalito e martoriato, specialmente da Lutero ai nostri giorni, come questo del conferimento del primato a Pietro, e quindi del Romano Pontefice, successore di Pietro, e della conseguente struttura gerarchica della Chiesa. Il Protestantesimo ha cercato in tutti i modi di scalzare le basi stesse del primato mettendo in dubbio e negando che Pietro sia venuto e morto a Roma:

7. Che egli esercitasse l'ufficio di Papa in Roma per 25 anni? "
(domanda 7 a pag. 6 dell'opuscolo più volte citato troviamo scritto: "Non fu mai (Pietro) capo della Chiesa; né mai pretese tale carica, né fu mai riconosciuto per capo dagli altri Apostoli. Infatti, la Bibbia non dice che egli sia stato in Roma").

     E per meglio riuscire in questo suo tentativo di demolizione del sacro testo concernente il primato, il Protestantesimo ha cercato sempre di contrapporre a Pietro - nell'autorità e nell'insegnamento - l'Apostolo delle genti, ignorando volutamente che fu lo stesso S.Paolo a riconoscere in Pietro - che egli chiama esclusivamente Cefa, come lo ha chiamato il Signore - il capo della Chiesa. Quando infatti egli tornò dall'Arabia - dove si era ritirato prima di darsi alla predicazione del Vangelo - suo primo pensiero fu di recarsi a Gerusalemme per incontrarsi non con altri Apostoli ma unicamente con Pietro. "Tre anni dopo scrive egli ai Galati - salii a Gerusalemme per fare la conoscenza di Cefa, e stetti presso di lui quindici giorni".
     Del resto, dal libro degli Atti balza evidente il fatto che Pietro cominciò fin dal principio - senza incontrare la minima opposizione da parte degli altri Apostoli - a svolgere le sue funzioni di capo della Chiesa. E' infatti Pietro che nel cenacolo, in mezzo ai fratelli (circa centoventi), assume la direzione e propone l'elezione di un nuovo Apostolo in luogo di Giuda (cfr. At 1,15-22); è Pietro che nel giorno di Pentecoste parla al popolo per primo e a nome del Collegio apostolico (cfr. At 2,14-36); è Pietro che opera il primo miracolo in conferma della fede (cfr. At 3,1-11); è Pietro a capo degli Apostoli che difende in faccia al Sinedrio la gloria del Maestro (cfr. At 4,5- 12); ed è ancora Pietro e sempre lui che in Gerusalemme presiede al primo Concilio della Chiesa (cfr. At 15,7). Un siffatto primato - come è ovvio - non doveva fermarsi a Pietro e cessare con lui. La Chiesa, istituita da Cristo come società visibile e indefettibile, non avrebbe potuto mancare mai del suo capo; per conseguenza i supremi poteri, conferiti a Pietro, dovevano sopravvivere a lui e trasmettersi in tutta la loro integrità ai suoi successori, i Romani Pontefici. Sono essi gli eredi legittimi del primato perchè Pietro esercitò a Roma gran parte del suo apostolato - non importa se per 25 anni o meno - fissandovi la sua sede come centro del governo di tutta la Chiesa e morendovi martire per la fede. In tal modo i Pontefici, che dopo di lui ascendono per legittima elezione alla sede episcopale di Roma, subentrano - come successori - nella sua medesima dignità e pienezza di poteri. Questo primato del Papa fu sempre cosa talmente pacifica che nessuno mai - se si eccettuano pochi eretici con Pietro Valdo - osò impugnarlo. Perfino gli antichi patriarchi orientali di Gerusalemme Antiochia ed Alessandria - i soli che avrebbero potuto avanzare qualche pretesa, - riconobbero come loro capo il vescovo di Roma perchè successore di Pietro.
     I Protestanti, negata la venuta e la morte di Pietro a Roma - ai quali due fatti è intimamente legata la primazia del Papa, - passarono ad asserire che il primato romano non era che un'invenzione fatta assai tardi, secondo l'opuscolo nel 607. Ma nel fare tale affermazione essi non si sono accorti d'essere solennemente smentiti nel Concilio di Efeso del 431.Quivi, nella seduta dell'11 luglio il Legato pontificio Filippo fece questa significativa dichiarazione: "... è noto in tutti i tempi che il beatissimo Pietro capo degli Apostoli, colonna della fede e pietra fondamentale della Chiesa cattolica, ha ricevuto da Gesù Cristo, Salvatore del genere umano, le chiavi del regno dei cieli e la potestà di sciogliere e di legare, il quale fino ad oggi e per tutti i tempi vive e giudica nei suoi successori. Il suo successore e luogotenente nell'ordine, il nostro beatissimo Papa, il vescovo Celestino ci ha mandati come suoi rappresentanti a questo Concilio ......
Pietro fu a Roma la prima volta al principio del regno di Claudio, intorno al 42, dopo aver governata la Chiesa di Gerusalemme come capo del Collegio apostolico, e dopo aver forse fondato e certo governata per alcuni anni la Chiesa di Antiochia.
In Roma egli vi trasferì - al tempo di Claudio - la sede episcopale che tenne fino al martirio avvenuto nel 67 o 68, il 29 giugno come vuole la tradizione, quando anche Paolo fu ucciso di spada sulla via Ostiense. Della venuta di Pietro in Roma non possiamo affatto dubitare perchè è Lui stesso che ce lo fa sapere.Nel chiudere infatti la sua prima lettera alla cristianità egli vi aggiunge: "Vi saluta la Chiesa, che è in Babilonia coeletta Roma), e Marco mio figlio" (1Pt 5:13). Il nome Babel (da cui Babilon e Babilonia) si traduce Porta di Dio. Quando la corruzione satanica si insinua nel divino (e lo vediamo anche nel Cap.XII dell'Apocalisse) si ha la Città di Babele in opposizione alla Gerusalemme celeste. E' ovvio che sia l'una che l'altra - in quanto espressioni allegoriche - possono essere variamente attribuite. Nell'ambiente giudaico- cristiano dei primi tempi, quando era in atto la persecuzione, il nome di Babilonia era usato correntemente per indicare Roma.

     Dato che i fratelli evangelici accettano prove esclusivamente bibliche, tralasciamo di addurre qui le molte e validissime testimonianze letterarie ed archeologiche dalle quali risulta in modo inconfutabile che Pietro fu e morì in Roma, verità mirabilmente confermata dagli scavi effettuati dal 1940 al 1949 nel sottosuolo della Basilica di S.Pietro.
Che poi S.Pietro sia morto come vescovo di Roma, risulta dall'antichissima festa liturgica - ricordata da molti antichi autori e dal Cronografo di Filocalo (354) - festività usuale dal secolo III, prima ancora che il cristianesimo, il 28 febbraio 380, venisse dichiarato da Teodosio religione di Stato, epoca in cui la Chiesa cattolica non aveva perduto ancora - secondo gli stessi Protestanti - la propria identità e si era mantenuta fedele al Vangelo. Notiamo ancora - in risposta alla domanda n.8 - che S.Pietro e S.Paolo vengono detti "Principi degli Apostoli" non già nel senso di potere e di dominio, come vorrebbe far credere la domanda, ma perchè furono principalmente essi che con la loro predicazione e il glorioso martirio hanno edificato la Chiesa di Cristo.

     Nella domanda n.9 l'opuscolo - nell'intento di contestare a Pietro la "suprema pontificia Potestà" - cita S.Matteo: " ... chi vorrà tra voi diventare grande, sarà vostro servo; e chi vorrà tra voi essere primo, sarà vostro schiavo" (20:26-28), e cita anche la 1 Pt. (5:1). Ma entrambi questi testi non contrastano col possesso dell'autorità, bensì inculcano il modo in cui esercitarla, cioè lo spirito di servizio "..appunto come il Figlio dell'uomo, che è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti". Gesù stava appunto parlando dei "capi" delle nazioni; ciò conferma che Egli , parlando ai Dodici, li ritenesse "capi" della Chiesa.
La lezione fu talmente ben capita che papa Gregorio I (+ 604) scelse per sè il titolo di "Servo dei servi di Dio", titolo che a tutt'oggi i suoi successori conservano.

10. Che per queste prerogative fossero poi da S. Pietro trasmesse ai vescovi di Roma quali suoi successori fino al giorno d'oggi?

     Che il compito affidato a Pietro non dovesse cessare con la sua morte, risulta anche dalle varie immagini usate da Gesù nei suoi riguardi. Ad esempio quella della "roccia" su cui Cristo avrebbe edificato la sua Chiesa affinchè "le porte degli inferi non prevalessero mai contro di essa". In ciò è evidente che o Pietro o la sua funzione non avrebbero mai dovuto venir meno sino alla fine del mondo.

11. "Che S. Pietro abbia mai chiesto o accettato doni per accumularsi un tesoro di argento o di oro, da chiamarsi "Tesoro di S. Pietro"?
12. "Che S.Pietro abbia mai accettato onori mondani .... ? (Atti 3: 6; 8: 10).


     Nel Vangelo si raccomanda di tenere staccato il cuore dalle ricchezze e dai beni di questo mondo "Beati i poveri di spirito, perchè di essi è il regno dei cieli" (Mt.5:3), ma in nessun luogo si vieta al Sommo Pontefice di accettare offerte per le occorrenti necessità della Chiesa e delle sue opere benefiche. S. Pietro stesso e gli altri Apostoli accettavano ed amministravano denaro ed averi della comunità per distribuirli ai poveri e alle vedove, ed erano in così copiosa abbondanza che ne dovettero affidare il compito a sette diaconi (Atti 4: 32-37). Del resto, anche lo stesso Collegio apostolico - con a capo Cristo vivente - aveva ed amministrava denaro proveniente dalle offerte, e Giuda - come ben sappiamo - ne era il cassiere. Se nel medioevo - quando i poteri civili e spirituali non erano ancora ben definiti e i Pontefici erano costretti a difendere anche con le armi, specie durante le invasioni barbariche e musulmane, la fede e la civiltà cristiana salvando più volte Roma e l'Italia - regnanti pii e generosi fecero loro dono di vasti possedimenti formandone il cosiddetto "Patrimonio di S.Pietro", che ragione c'è di scandalizzarsi quando era questo che comportava la condizione dei tempi? E quello che dicesi oggi "Tesoro di S.Pietro" e gli stessi palazzi pontifici, coi tesori d'arte che contengono, son forse proprietà del Papa o non piuttosto patrimonio e vanto di tutta la cristianità?

     Gli onori e gli omaggi, che secondo l'uso dei tempi e l'utilità pratica, come la sedia gestatoria (ormai anche questa abolita) o altro mezzo oggi più adatto nei grandi affollamenti di fedeli, vengono prestati al Papa non in quanto persona ma come Vicario di Cristo, e tutti sappiamo che per onorare Cristo Gesù non si fa mai abbastanza. Comunque, si tratta sempre di comportamenti pratici, che possono variare col mutar dei tempi, e non di dottrine e tanto meno di verità di fede.

Capitolo III - IL PAPA

13. Che la parola Papa si trova nella Bibbia

     Se è per questo, neanche il termine "Trinità" compare nella Bibbia, eppure gli stessi Evangelici lo usano tranquillamente, ne affermano la dottrina relativa e le rendono omaggio di lodi e di culto.
     Il nome "Papa" non lo troviamo nella S. Scrittura, ma in essa è chiaramente indicato ciò che tale ufficio comporta nel governo della Chiesa.
     Il termine (dal greco pàpas = padre) designava nei primi tempi l'ufficio del Vescovo in genere, ma poi fu riservato al solo vescovo di Roma. Che a Lui lo abbia affibbiato l'empio imperatore Foca nel 607 - come afferma l'opuscolo (pag. 7 e 22) - è frutto di pura fantasia. Lo troviamo infatti già due secoli prima di Foca. S.Pier Crisologo (+ 450) scrivendo al Vescovo Eutiche, condannato per le sue eresie, lo esortava ad eseguire quanto gli aveva imposto "il beatissimo Papa di Roma".

14. Che il Papa sia il successore del Principe degli Apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa universale?

     Stupisce che i Protestanti - dopo ormai venti secoli di cristianesimo, non sappiano ancora che il Papa è il successore del Principe degli Apostoli, cioè di S.Pietro, quando ciò - a parte che risulti chiaramente dal Nuovo Testamento - era pienamente notorio a tutta la Chiesa dei primi secoli. Fra le tante testimonianze basta qui addurre quella di S. Ireneo. Da giovane fu discepolo di S. Policarpo, vescovo di Smirne e discepolo di S. Giovanni l'evangelista. Fatto poi vescovo della Chiesa di Lione, in Francia, vi morì martire nel 169. Ora ecco cosa scrive Ireneo riguardo al vescovo di Roma: "Poichè sarebbe troppo lungo enumerare le successioni dei vescovi di tutte le Chiese, basta indicare quale sia la tradizione della Chiesa più grande e più antica e più conosciuta da tutti, fondata e stabilita in Roma dai due gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo: la quale fede e tradizione, annunziata agli uomini dagli Apostoli, è giunta fino a noi attraverso la successione dei vescovi.
     "E necessario che con la Chiesa romana, per la sua supremazia, siano congiunte tutte le Chiese, cioè i fedeli di tutte le parti...
     "Gli Apostoli, dopo aver fondata e catechizzata la Chiesa, lasciarono a Lino la vigilanza ed il compito di amministrarla. Paolo ricorda questo Lino nella sua lettera a Timoteo (4;21). Gli successe Anacleto; dopo di lui, quale terzo successore, Clemente ottenne dagli Apostoli l'episcopato; egli vide gli Apostoli medesimi, conversò con loro e di essi udiva risuonare il messaggio e aveva dinanzi agli occhi la tradizione apostolica.
Ed egli non era il solo, poichè vivevano con lui ancora molti istruiti dagli Apostoli" (Adv. Haer. III,c. 3,2-3).
     Come si fa, non dico a negare ma a mettere semplicemente in dubbio testimonianze così antiche e così autorevoli circa la successione dei Pontefici Romani da S.Pietro, che Ireneo continua ad enumerare con ogni precisione fino ai suoi tempi?

15. Che il Papa sia il "Successore del principe degli Apostoli, Sommo pontefice della Chiesa Universale"?

     Ci dispensiamo dal rispondere alla prima di queste due domande avendo ciò fatto esaurientemente trattando di S. Pietro.

     Se la Chiesa cattolica, nel corso dei secoli, ha parlato di sè, della sua origine, della sua missione e della sua autorità, cioè - come oggi si dice - a definirsi, non l'ha fatto mai per vuota affermazione trionfalistica, ma sempre perchè costrettavi dagli assalti esterni e dalle sue crisi interne. Nel secolo scorso, per rigettare con tutta autorità gli errori della cultura moderna, che minavano le basi stesse della fede, ha dovuto riaffermare ufficialmente, nel Concilio Vaticano I del 1870, la dottrina del Primato del Vescovo di Roma e soprattutto dell'infallibilità pontificia.
     Di questa singolare prerogativa, indispensabile al supremo magistero, Cristo ha sapientemente dotato la sua Chiesa perchè potesse custodire intatto da errori e validamente difendere il sacro deposito della fede. Senza tale carisma già da tempo la Chiesa avrebbe miseramente naufragato tra le mille insidie delle forze del male e delle eresie.
     Fu lo stesso divin Fondatore che, nelle ore oscure dell'imminente passione, confidò a Pietro: "Simone, Simone, ecco satana ha cercato di voi per vagliarvi come si vaglia il grano. Ma io ho pregato per te affinchè non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto (l'avrebbe infatti da lì a poco rinnegato tre volte), conferma i tuoi fratelli" (Lc.22:31).
     E' da questa preghiera del Figlio di Dio - ovviamente infallibile - e dalla promessa della sua continua assistenza che viene assicurata a Pietro, vivente nei suoi successori, l'infallibilità di magistero, sempre creduta ed ammessa dai fedeli fin dai tempi apostolici, ma dichiarata verità di fede nell'accennato Concilio Vaticano I. In seguito a tale solenne dichiarazione si è gridato allo scandalo tra i nostri fratelli separati - come lascia intuire anche questa loro domanda -, e hanno erroneamente supposto che il Papa fosse stato dichiarato addirittura impeccabile, mentre una cosa è l'impossibilità di peccare e altra quella di non poter commettere errore: la prima preserva dalla colpa morale ed è dono della volontà; l'infallibilità invece, preserva dall'errore ed è dono dell'intelletto. Per il fatto che un Papa si rende reo di peccato non per questo resta compromessa la sua infallibilità, così come per il fatto che un giudice non osserva nella sua vita privata la legge, non segue che non abbiano valore le sentenze che pronunzia in tribunale.
     Altri pensano che il Papa non possa mai sbagliare neppure quando tratta di questioni scientifiche, storiche, filosofiche o politiche. Non significa neppure che egli non possa errare in questioni ecclesiastiche stesse se parla o scrive come teologo o dottore privato.
     L'infallibilità - secondo il Concilio - consiste propriamente in questo: quando il Papa parla ex-cathedra, ossia come Pastore e Maestro di tutta la Chiesa, in questioni di fede e di morale da tenersi da tutti i fedeli, egli in virtù dell'assistenza divina a lui promessa nella persona di Pietro - non può errare perchè non può compromettere gli interessi spirituali ed eterni delle anime. Tali sue definizioni sono irreformabili cioè infallibili per se stesse a prescindere dal consenso della Chiesa, dalle decisioni del Concilio o dal previo studio degli esperti e dei dotti.
    Questa infallibilità, concessa da Cristo come un grande e singolare dono alla Chiesa docente (Papa e vescovi), si irradia anche sulla Chiesa discente in modo che tutta la Cristianità è chiamata a vivere nell'unità della verità.
     I Protestanti vanno invece dicendo che essi hanno una Bibbia infallibile e questo loro basta. Ma a che vale avere una Bibbia infallibile se chi la interpreta non è poi infallibile?
Si deve evidentemente a questa mancanza di infallibilità e di unità di magistero se nel Protestantesimo regna oggi una miriade di chiese dai credi più diversi e contrastanti.

17 "Che il Papa debba essere chiamato "Santo Padre" ? (Mt. 23:9; Gv. 17:11).

     Se i cattolici chiamano "Santo Padre" il capo della Chiesa universale, quale verità della Bibbia rinnegano e mettono in pericolo? Non fanno lo stesso anche gli Anglicani che chiamano "Sua Grazia" il loro Primate, e gli Ortodossi orientali "Sua Beatitudine" il loro Patriarca? E Gesù stesso non dice "beato" Pietro in Matteo? (Lc. 16:17).
     Tanto qui come alla domanda 26 gli Evangelici citano Matteo (23:9) per condannare l'uso cattolico del termine "padre" per i ministri sacri. Tralasciano però - come spesso fanno - di indicare il contesto della frase.
     Dal contesto dell'intero discorso di Gesù risulta chiaro che Egli vuole qui solo correggere l'abuso che di questo termine facevano i membri della sinagoga: amavano farsi chiamare "padri" ma poi erano ben lontani dal dimostrarsi tali. Non intende affatto quindi abolire il retto uso di quel titolo, ma impartisce una lezione di umiltà, come fa altrove nel Vangelo.
     Tanto meno Gesù intendeva proibire alle guide della comunità di nutrire per i loro fratelli anche il nobile sentimento dell'amorevole paternità spirituale, a imitazione di quella di Dio, "dal quale ogni paternità in cielo e sulla terra prende nome" (Efes.3:15).
     Da quest'ultimo passo biblico non è difficile anche comprendere che soltanto Dio è il Padre per antonomasia: gli altri sono padri (naturali e spirituali) in quanto partecipano di questa sua sublime dignità. Precisamente come avviene anche per la santità: Dio solo - come si afferma nell'Apocalisse (15:4) - è santo; eppure tutti i cristiani vengono chiamati nella Bibbia santi. Nessuna meraviglia, per conseguenza, che venga chiamato "Santo Padre" il Papa, Vicario di Cristo e capo dell'intera cristianità.

18. Che il Papa possa canonizzare dei santi, cioè dichiarare "santi" certuni per farli venerare o invocare? (II Cor. 1:1; Filip. 1:1; Col. 1:1)

     Che i cristiani siano tutti considerati e detti santi nei passi biblici citati nella domanda e in genere nella Scrittura, non toglie che di alcuni di essi se ne possa proclamare in modo speciale la santità.
     In questo infatti consiste la canonizzazione in uso nella Chiesa cattolica. Per essa sono "santi" quei fedeli che, dopo rigoroso esame e processo canonico, risultano avere esercitato, in grado eroico, le virtù cristiane, e sono - con terminologia tecnica - i venerabili, i beati e soprattutto i santi canonizzati.
     Proclamare "santo" non significa altro che riconoscere ufficialmente l'eroicità delle sue virtù, che le ha, cioè, esercitate in maniera decisamente superiore a quella dei fedeli ritenuti virtuosi. Eroicità che, se convalidata anche una prima e una seconda volta da Dio stesso con miracoli in senso stretto, e cioè ritenuti tali dalla scienza e dalla fede, la Chiesa con giudizio di ultima ed irrevocabile istanza inscrive nel catalogo dei santi a favore di un fedele precedentemente beatificato. Con tale atto essa dichiara che il santo canonizzato è realmente in cielo e perciò lo presenta alla venerazione e all'imitazione di tutti come modello o ideale, riflesso e attuazione concreta, nel proprio campo, dell'unico supremo ideale e modello che è Cristo.
     Proclamando "santo" un fedele, la Chiesa non intende affermare né che egli sia, nella virtù o nell'azione, più grande o più piccolo degli altri santi canonizzati; né che sia più santo di quelli non canonizzati o che mai saranno canonizzati, né che abbia raggiunto la perfezione assoluta, perchè questa appartiene solo a Dio. La Chiesa intende lo sottolineare ed evidenziare la straordinaria santità che uno dei suoi figli ha raggiunto con l'esercizio eroico delle virtù e senza indulgere volontariamente a nessuno peccato deliberato.
Saprebbero dire i fratelli evangelici dove nella Bibbia venga proibito alla Chiesa di far questo?

19. Che il Papa debba avere un regno temporale, essendo, "Sovrano dello Stato della Città del Vaticano" e con soldati e guardie armate e pretendere impero politico su tutte le nazioni della terra? (Gv. 18:36).

     Certamente non si può "provare con la Bibbia che il Papa debba avere un regno temporale", ma neanche è escluso che in certe circostanze storiche, per il bene comune, possa averlo. Non può infatti sfuggire agli storici che tale potere temporale - pur nella sua contingenza - sia stato un valido strumento della Provvidenza del quale Dio si è servito per dominare la storia e piegare gli eventi all'avanzamento della Chiesa nel mondo.
Quanto all'odierna Città del Vaticano, si tratta di uno stato simbolico "44 ettari con circa 500 abitanti! ", difeso da guardie armate di... alabarde folkloristiche! Forse gli autori dell'opuscolo non hanno neppure il senso delle proporzioni della storia, del simbolismo...
Il citato testo di S.Giovanni (18:36) pone giustamente la distinzione tra regno terreno e regno spirituale, dal momento che gli Ebrei li identificavano aspettando il Messia come liberatore politico e restauratore di un regno universale con capitale Gerusalemme. Non è certamente questo lo scopo del Vaticano. Se il Papa è così ascoltato anche all'ONU non lo è evidentemente perchè Sovrano temporale di 500 persone, anche se l'esserlo giustifica il suo intervento in importanti sessioni internazionali e le relazioni con gli Stati, a vantaggio anche delle altre religioni (cfr.ad es. gli appelli al Papa da parte degli Ortodossi russi) per la tutela della libertà di coscienza.
     Circondato da un personale appena sufficiente per l'ordinario servizio di amministrazione e di rappresentanza, indispensabile a un organismo sopranazionale come la Chiesa cattolica con proprie gerarchie e basi missionarie in tutte le parti del mondo, il Papa in quanto tale, non può cercare domini territoriali ("Il regno mio non è di questo mondo"): e fu una pesante croce l'abbinamento - nella stessa persona - del potere temporale e di quello spirituale in un'epoca ormai superata.

Nelle due domande successive viene contestato :
20. "Che il Papa possa scomunicare chiese e individui, sciogliere dal giuramento di fedeltà ai loro re popoli interi e che re, imperatori e presidenti di repubbliche debbano essere soggetti a lui?
21. Che il Papa "possa minare l'unità, la libertà e l'indipendenza delle nazioni, specialmente dell'Italia? ".


     Nell'opuscolo - facendo processo a un passato ormai lontano - ci si dimentica di dire che simili interventi pontifici avvenivano in circostanze storiche essenzialmente diverse, quando, cioè, tra Chiesa e Stato vi era perfetta alleanza e lo Stato era impegnato a mettere la forza materiale a servizio della Chiesa per difenderla e proteggerla.
     Tutta la società era allora cristiana e la vita cristiana si identificava con quella civile, sicché i delitti contro la Chiesa e contro la fede erano delitti contro lo Stato, l'ordine pubblico e la tranquillità sociale. E' in questa concezione storica che bisogna inquadrare anche l'istituto della sacra Inquisizione. Se quindi nel medioevo il Papa ha fatto talvolta ricorso alla drastica misura della scomunica e perfino a quella di sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà al proprio sovrano - oggi non più concepibile - ciò non fu per avidità di "supremazia politica", ma perchè il sovrano stesso - ribellandosi alla Chiesa - aveva sconvolto l'ordine sociale con disagio e grave conflitto di coscienza per i sudditi costretti a servire e ad aiutare un Principe fedifrago nei suoi impegni verso la Chiesa.
     Consapevole che ogni autorità procede da Dio (Rom. 13: 1), il Sommo Pontefice interveniva, in tali casi, con il "Potere delle Chiavi" e, scomunicando il Monarca infedele, dichiarava sciolto - cioè non vincolante - il giuramento di fedeltà dei sudditi nei suoi confronti.
     Non meno infondata è l'accusa di avere il Papa "minato l'unità, la libertà e l'indipendenza d'Italia", solo per aver osato di protestare dinanzi al mondo cattolico, di essere ingiustamente spogliato degli Stati pontifici, patrimonio della Chiesa e garanzia della sua indipendenza da qualsiasi Stato. Tale inderogabile esigenza di autonomia e integrità fu sancita nei Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929, con i quali fu riconosciuto il minuscolo e simbolico Stato della "Città del Vaticano".
     A fare uso dell'indulgenza - nella Chiesa primitiva - fu anche S. Paolo: nella sua prima ai Corinzi (5:5) egli consegna a satana (scomunica) un pubblico peccatore, che era di grave ostacolo nella comunità dei fedeli, peccatore che poi, ravvedutosi e pentito, egli stesso assolve condonandogli la pena inflittagli (II Cor. 2:6-10).
     Nei tempi di persecuzione avveniva di frequente (e S. Cipriano ne riporta parecchi esempi) che, a distanza dei martiri che andavano al supplizio e in vista dei loro meriti, veniva rimessa, in tutto o in parte, la pena al peccatori pentiti.
     Le indulgenze vengono concesse dalla Chiesa attingendo al tesoro spirituale che è costituito dai meriti sovrabbondanti di Cristo, della Vergine e dei Santi, che, in quanto penosi, hanno valore espiativo dinanzi alla giustizia di Dio.
     Che la Chiesa abbia il potere di concedere indulgenze è logica conseguenza del governo su tutti i fedeli che Cristo le ha affidato, governo che importa necessariamente - come per lo Stato riguardo ai propri cittadini - la potestà di far leggi, di giudicare, di punire ed anche di condonare pene. Se Cristo, infatti, ha dato a Pietro e poi anche agli Apostoli e quindi anche ai loro successori il potere di legare e di sciogliere, di rimettere o ritenere i peccati, ha dato principalmente anche il potere di condonare la pena dovuta al peccato, del quale è essa conseguenza.
     L'episodio di Zaccheo, pubblicano e peccatore (Lc. 14), ci insegna come siano indispensabili, per la remissione totale, non solo il pentimento e il mutamento di condotta, ma anche le opere riparatrici del male operato: "Do ai poveri - dice Zaccheo - la metà dei miei beni, e se qualcuno ho frodato gli restituisco il quadruplo". E Gesù: "oggi si è realizzata la salvezza per questa casa! ". Zaccheo non comprò il perdono del peccato col denaro, ma col pentimento e la conversione. Il denaro servì ad espiare la pena conseguente al peccato di sfruttamento del prossimo.
     In modo analogo la Chiesa accorda ai fedeli pentiti le indulgenze ( = remissione della pena) a condizione che vengano compiute - in tale stato di ravvedimento - determinate opere meritorie, quali preghiere, digiuni, pellegrinaggi di penitenza, elemosine, contributi per opere benefiche.
     Fra queste opere benefiche fu computata anche (ed era giusto) la ricostruzione della Basilica vaticana perchè divenisse - nella sua magnificenza incomparabile - punto di convergenza di tutti i popoli sulla tomba di Pietro.

     Lutero gridò allo scandalo: In tutta l'Europa si vendono le indulgenze; Roma è tutta un marciume! ... Non ricordò - non volle ricordare - che un giorno Gesù nel gazofilacio guardando il frequente deporre di offerte per il Tempio, osservò una vedova che metteva due soli spiccioli i quali costituivano non il superfluo ma il necessario per lei poverissima: "Questa vedova - disse compiaciuto - ha dato più di tutti gli altri insieme". Essa aveva infatti espiato con grande generosità (al pari di Zaccheo) la pena del peccato al cospetto di Dio. Affermiamo ciò perchè il Tempio di Gerusalemme - riedificato meravigliosamente e mantenuto con i sacrifici di tutti - era immagine ipostatica del corpo stesso di Gesù, onde l'offerta al tempio toccava la persona di Cristo stesso.
     Se tali e così solide sono le fondamenta delle indulgenze, non valgono certo a frantumarle eventuali lontani abusi - tutt'altro che dimostrati imputabili non alla dottrina della Chiesa, ma alla fragilità umana degli esecutori ecclesiastici. Una delle forme più note e solenni di concessione di indulgenza, che la Chiesa pratica è quella giubilare, di cui fu già figura il Giubileo cinquantenario ebraico, in cui ognuno tornava in libertà, se l'aveva perduta, e in possesso dei suoi beni se ne era stato spogliato.
     Il Giubileo fu stabilito nel 1300 da Bonifacio VIII ogni cento anni, periodo di tempo che in seguito fu ridotto prima a 50 e poi a 25 anni. Esso ha lo scopo di risvegliare nelle coscienze il desiderio della penitenza e della riparazione per i peccati commessi e di rendere più ampia l'elargizione dell'indulgenza e più facile ed agevole il modo di acquistarla.

     Il carattere penitenziale e di rinnovamento nella gioia (iubilare = gioire, esultare) è posto in evidenza dalla predicazione stesso di Gesù nella Sinagoga di Nazareth (Lc. 4:18), ove legge un brano di Isaia (61:2): "E' l'anno accetto al Signore il giorno della retribuzione, della liberazione, della remissione, della vista ai ciechi ......
     Durante l'Anno Santo i pellegrini non si recano a Roma per "visitare il Papa", ma per pregare sulle memorie dei Martiri della Fede e visitare i luoghi più insigni della pietà cristiana.

Capitolo IV - I PRETI

     Un impegno particolare hanno messo sempre i fratelli evangelici nel far credere che gli Apostoli altro incarico non ebbero che quello di predicare e di battezzare e ciò per dire che il sacerdozio cattolico è nella Chiesa superstruttura abusiva e fuori dagli intenti di Cristo fondatore.
     Da qui le domande dell'opuscolo: 

24. "Che Gesù Cristo abbia istituito, oltre gli Apostoli che dovevano predicare il Vangelo, una gerarchia sacerdotale, ossia una casta speciale e privilegiata separata dal popolo? " (Mt.10:1-8;23:8).
25. "Che gli Apostoli abbiano istituito altri ordini diversi da quelli dei Vescovi o Pastori, Anziani o Presbiteri, Diaconi od Evangelisti? " (I Tim. 3:1-8;5:17).


     Come si vede anche dalla seconda domanda, per essi Vescovi e presbiteri della Chiesa primitiva sono la stessa cosa che anziani e seniori, cioè semplici cristiani, commendevoli per età e prudenza, ai quali collegialmente sarebbe stato affidato il governo delle chiese locali. Le denominazioni sarebbero quindi sinonime.
     Da qui anche la premura dei traduttori protestanti della Bibbia, quale il Diodati, di cambiare quasi sempre episcopo e presbitero in anziani e di evitare il termine sacerdote per indicare il presbitero e l'episcopo della Nuova Legge, anche quando esso significa in modo evidente preti o sacerdoti.
     Già Lutero in "De abroganda Missa privata" decretava, da maestro infallibile, la fine del sacerdozio cattolico e con esso del sacrificio eucaristico e del potere di assolvere i peccati. Riteneva soltanto il sacerdozio comune a tutti i fedeli, quello che nasce dal battesimo e del quale parla espressamente S.Pietro (I Pet.2:9), ma che differisce essenzialmente da quello ministeriale da Cristo istituito.
     L'opuscolo cita Matteo (10:1-8) per ricordare l'istituzione del Collegio degli Apostoli, che è senza dubbio fondamentale nella Chiesa primitiva, come risulta anche dagli Efesini(2:19-20) e da Apocalisse(21:14), ma dimentica la missione dei 72 discepoli (Lc.10:1), che prefigura la distribuzione degli incarichi di responsabilità nelle comunità cristiane.
     Cosi pure nella seconda citazione (Mt.23:8) - ove viene ricordato che uno solo -il Cristo - è il nostro Maestro e noi tutti siamo fratelli - si trascura di aggiungere che Cristo ordina agli Apostoli di ammaestrare tutte le nazioni (Mt. 28:19), di dire (At. 2:42) che i primi cristiani "erano assidui nell'ascoltare gli insegnamenti degli Apostoli" e che Dio ha posto nella Chiesa alcuni come maestri (I Cor.12:28-30).
     Quest'ultimo testo afferma che nella Chiesa Dio stesso ha assegnato il primo posto agli apostoli affidando loro il ministero ecclesiale con il triplice compito di insegnare, santificare, governare:... "Ammaestrate... battezzandole... insegnando loro ad osservare..." (Mt.28:19-20), e il potere di "legare e sciogliere" (Mt.18:18), già singolarmente conferito a Pietro insieme alle "chiavi del regno dei cieli" (Mt.16:18-19; Le.22:32; Gv.21:15-17).
     Tali caratteristiche apostoliche non sono qualcosa di limitato nel tempo, ma devono durare sino alla fine del mondo, tanto è vero che Cristo non lascia di assicurare che le porte degli inferi non prevarranno mai contro di essa (la Chiesa).
     Per questo, dopo la tragica fine di Giuda, gli undici rimasti, con Pietro a capo, si preoccupano subito - prima ancora della Pentecoste! - di associarsi qualcuno al suo posto (At. 1:12-26) nel ministero apostolico. Poi essi mettono a capo delle comunità cristiane in formazione dei propri rappresentanti, denominati promiscuamente presbiteri o episcopi (At.20:17-28); (Tito 1:5-7). Ed è sempre dall'autorità che essi vengono costituiti (At.14:23;11:30), non dalla base, attribuendola (tale designazione) a Dio stesso:"Lo Spirito Santo vi ha posti come sorveglianti a pascere la Chiesa di Dio"(At.20:28).
     La preoccupazione di non lasciare la Chiesa priva di responsabili autorizzati cresce man mano che gli Apostoli vedono approssimarsi la loro morte, ed emerge soprattutto nelle tre lettere, dette pastorali, scritte da S.Paolo ai suoi discepoli Timoteo e Tito, ai quali - dopo un periodo di ammaestramento - aveva affidato rispettivamente le comunità di Efeso e di Creta (I Tim.1:3; II Tim.1:6; Tito 1:5).
     Dagli accenni ivi fatti sull'ufficio strettamente episcopale, risulta chiaro che per Paolo chi ne è investito deve esercitare l'insegnamento e il governo, cioè le funzioni stesse degli Apostoli! Paolo esorta quindi ripetutamente i due a conservare e difendere la "sana dottrina" tenendo lontani gli altri dall'eresia. Il conferimento del ministero avviene mediante il rito dell'imposizione delle mani (I Tim.4:14; Il Tim.1:6), compiuto da parte di chi già gode di tale dono (ivi: Paolo e il collegio dei presbiteri).
     Tramite la stessa imposizione delle mani che Timoteo e Tito trasmettono a loro volta i loro poteri ad altri (Tito 1:5;1 Tim.5:22). E' propriamente questo l'inizio di quella catena ininterrotta che lega agli Apostoli i ministri sacri - vescovi, presbiteri, diaconi -della Chiesa cattolica odierna; è così che viene in essa perpetuato quel sacerdozio ministeriale che Cristo istituì e conferì agli Apostoli e che viene fedelmente trasmesso come dono ineffabile di Cristo alla sua Chiesa.
    Questa sacra ordinazione - conferita mediante l'imposizione delle mani come al tempo degli Apostoli - è vero e proprio sacramento della Nuova Legge, istituito da Cristo, sacramento che conferisce a chi lo riceve una grazia sua propria, imprime nella sua anima un carattere spirituale indelebile e dà poteri divini sul corpo reale di Cristo - l'Eucaristia -, e sul suo corpo mistico che è la Chiesa.
     Mediante il rito dell'ordinazione un cristiano viene elevato e costituito sacerdote, collocato con ciò stesso in una condizione diversa, essenzialmente distinto dallo stato laicale, come un battezzato è essenzialmente e realmente distinto da un non battezzato.
    E ciò non per formare "una casta speciale e privilegiata" (le caste si hanno per nascita), ma per divina chiamata che si ha attraverso un rito sacramentale (l'imposizione delle mani).

     Non si capisce perchè i Protestanti si debbano mostrare tanto preoccupati del fatto che nella Chiesa cattolica:

26. "vescovi e diaconi non possano prender moglie, e un prete senza moglie e figli debba essere chiamato padre? " (Tim.3:2;4 :12;4:3; Mt.23:9).

     Il perchè il prete possa essere chiamato padre lo abbiamo spiegato già rispondendo alla domanda 17. In due passi di quelli sopraindicati non viene imposto ai Vescovi di sposarsi una volta, ma si proibisce solo di ordinare chi, rimasto vedovo, si sia risposato.
     I fratelli evangelici ignorano forse che è proprio S.Paolo - al cui insegnamento dicono sempre di attenersi - a scrivere: "Io vorrei che tutti quanti fossero come sono io;ma Dio dà ad ognuno un dono particolare: agli uni dà questo dono, ad altri uno diverso" (I Cor. 7:7), e poco più avanti (7:32-34) ne dà anche il motivo che è quello di servire il Signore più liberamente e senza la preoccupazione di famiglia.
     La citazione (I Tim. 4:3) è del tutto fuor di luogo perchè non riguarda affatto la Chiesa cattolica, dove il matrimonio è stato sempre tenuto in grande onore e considerato addirittura sacramento se tra battezzati. In fatto di celibato l'Apostolo non fa che ricalcare l'insegnamento di Cristo: "Ci sono infatti degli eunuchi nati così dal seno della madre; e vi sono degli eunuchi fatti tali dagli uomini, e ci sono di quelli che si son fatti eunuchi da sè in vista del regno dei cieli. Chi può comprendere cerchi di comprendere". (Mt. 19:12)
     La Chiesa cattolica non ha mai proibito di ordinare sacerdoti degli sposati: il celibato è solo una norma pratica del rito latino. Ma è giusto che essa scelga al ministero sacerdotale chi crede bene. S.Paolo elenca una quindicina di requisiti per presbiteri e diaconi (tra cui il non essere risposato) "marito di una sola donna, (Tim. 3:3; Tit. 1: 6) ".Perchè la Chiesa - che ha da Cristo la responsabilità di guidare le anime a salvezza coi mezzi che crede più opportuni - non può di tali requisiti precisarne alcuni secondo le circostanze di tempo e di luogo? Il celibato è senza dubbio più conforme a Cristo vergine, del quale il prete deve essere segno nel mondo. Del resto, nessuno è obbligato a farsi sacerdote, ma chi accetta deve legarsi prima davanti a Dio col celibato.
     D'altra parte, se la verginità per il regno dei cieli è stata raccomandata tanto vivamente nel Nuovo Testamento ai cristiani in genere, è pienamente logico che lo sia ancor più per i vescovi e i sacerdoti consacrati totalmente al servizio di Dio e della Chiesa.

27. Che il prete sia una persona molto potente? (« Più che i santi e gli angeli, più che i serafini e cherubini, più che la Vergine Maria... parla il prete, ed ecco che Cristo, l'Iddio eterno e onnipotente, china in umile ubbidienza il capo al comando del prete ») *. (Leggi 2 Tessalonicesi 2:4; Romani 1:21-22)

Nella domanda 27, dove si fanno le meraviglie per i sovraumani poteri del sacerdote, gli autori dell'opuscolo fanno due citazioni che non si capisce cosa centrino col nostro argomento.

     La faziosità degli autori dell’opuscolo Cento Domande… raggiunge l’apice nella domanda n.27 dove si insinua e si fa dire alla Chiesa cattolica che i preti hanno poteri sovraumani, addirittura si bestemmia dicendo che Cristo china umilmente la testa ubbidendo ai comandi del prete, citando un professore di filosofia tal J. A. O’ Brien che ha scritto tale frase in un suo libro, e che tale libro ha ricevuto l’imprimatur del Vesvoco Noll di Fort Wayne, Indiana, USA, pag. 17, 18.Sarebbe però il caso di citare tutto il pensiero del filosofo, che trattando appunto filosofia parte da molto lontano per far capire il suo pensiero, con esempi filosofici appunto, un po’ come fanno tutti i filosofi. O’ Brien è un filosofo per l’appunto e non un teologo, quindi andare a citare una sua frase estrapolandola per giunta dal contesto del discorso è scorretto e calunnioso, tentare poi di farla passare per un insegnamento della Chiesa cattolica è vergognoso e meschino.(ndr, Incardona Salvatore)

     Se nelle Chiese evangeliche manca oggi il potere sovraumano che neppure gli angeli e i santi del cielo hanno, che è quella di "dir Messa, e assolvere i peccati", come si ironizza nella domanda 28, la colpa è tutta dell'autore della Riforma, il quale ha rifiutato per i suoi seguaci, come abbiamo detto, il sacerdozio ministeriale, il solo che abiliti all'esercizio di siffatte sacre funzioni.
     Tali facoltà non sono un'invenzione della Chiesa cattolica, ma palpitante realtà che scaturisce dal Nuovo Testamento e dall'operato di Cristo. Fu infatti Gesù che investì gli Apostoli del suo medesimo potere sacerdotale, distinguendoli con ciò essenzialmente dagli altri suoi seguaci e conferendo loro mandati divini indipendentemente dal volere e dal consenso degli altri discepoli.
     E' lui che li chiama con una vocazione speciale, è lui che promette loro di farli pescatori di uomini, che li sceglie tra tanti discepoli chiamandoli Apostoli e dichiarando loro: "non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi perchè andiate e portiate frutti e frutti duraturi"(Gv.15:16).E nell'Ultima Cena - in una singolare aria di rito e di mistero -, dopo di avere consacrato e trasformato nel suo corpo e nel suo sangue il pane e il vino, secondo quanto aveva solennemente promesso a Cafarnao all'indomani della moltiplicazione dei pani, egli dice loro:"Fate questo in memoria di me"(Lc.22:19; I Cor.11:24).
     Comandando loro di fare ciò che egli - Sommo ed eterno Sacerdote dell'Altissimo- aveva in quel momento fatto, conferiva agli Apostoli quella facoltà che l'atto richiedeva. Autorizzandoli a rinnovare e ad offrire il suo stesso sacrificio, egli faceva con ciò gli Apostoli e loro successori partecipi del suo medesimo sacerdozio.
     Tale partecipazione Gesù la completò quando - dopo la risurrezione - conferì loro l'altro potere - anch'esso strettamente sacerdotale - di rimettere i peccati (Gv.20:1-19).

     Fu in seguito alla concessione di questo straordinario potere che gli Apostoli cominciarono a considerarsi ministri della riconciliazione: "Dio, il quale ci ha seco riconciliati per mezzo di Cristo, e ci ha affidato il ministero della riconciliazione" (II Cor.18:20).
     Si tratta quindi di poteri essenzialmente divini, che solo Dio può conferire e non già gli uomini, i quali nessun potere, per quanto altolocati, hanno in ciò o possono avere. Lo mette in risalto S.Paolo: "Ogni uomo ci consideri ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio" (1 Cor.4:1); e per meglio far comprendere il singolare mandato ricevuto spiega:"Ogni pontefice, preso di mezzo agli uomini, è costituito rappresentante degli uomini in tutto ciò che riguarda il culto di Dio, allo scopo di offrire oblazioni e sacrifici" (Ebr. 5: 1 ); e passa ad avvertire che "nessuno si può attribuire tale dignità perchè bisogna esservi chiamati da Dio"(Ibid.5:4).
     Da questi passi biblici risulta più che evidente la essenziale differenza che passa tra gli Apostoli insigniti del sacerdozio e gli altri discepoli che questo non ebbero, e per conseguenza tra i semplici laici e quelli consacrati sacerdoti.
     Le due citazioni (Salmo 51:1 e 32:5) - apposte alla domanda 28 - ricordano che è Dio a perdonare i peccati, ma gli autori dell'opuscolo dimenticano di aggiungere che Cristo "ha mirabilmente delegato tale potere agli uomini" (Alt. 9:8) e precisamente agli Apostoli: "A chi rimetterete i peccati, saranno, loro rimessi, e a chi li riterrete, saranno ritenuti" (Gv. 20:2 1-2 3). Non capiti anche a noi di ingiuriare la misericordia di Dio come fecero gli scribi di cui si parla in S.Marco (2:6-7)!

     Il ceto dei cardinali, che da circa un millennio sono i più stretti collaboratori ed anche i grandi elettori del Sommo Pontefice, è ovviamente di istituzione ecclesiastica. I Protestanti - come sempre - ne vanno a cercare il nome l'istituzione nella Bibbia e ci domandano:

29. Che Gesù abbia istituito il titolo di cardinale, monsignore, ecc.? ,
quasi che tale istituzione o la nomina di altre simili dignità puramente ecclesiastiche fosse condannata dalla S.Scrittura, senza dire che i Cardinali sono anch'essi vescovi con compiti particolari rispetto alla comunità di Roma.
     Ancor meno ragionevole appare la loro sorpresa (30) per l'istituzione della vita monastica nella Chiesa cattolica, quando a darne il via fu lo stesso Gesù approvando e lodando il Battista nella sua austerità e solitudine (Le.7:24-35), vivendo. egli stesso per 40 giorni nel deserto - cosa che fece anche S.Paolo per tre anni -, e insegnando con la sua vita povera e mortificata la rinuncia ai beni terreni e a viva voce esortando: "E tutti quelli che per causa mia hanno abbandonato fratelli e sorelle, padre e madre, case e campi, riceveranno cento volte di più e avranno in eredità la vita eterna" (Mt. 19:29).
     Niente quindi di strano se la Chiesa - premurosa del progresso spirituale dei suoi figli - ha sempre tenuto in gran conto l'invito di Cristo e ha incoraggiato e strutturato - come fece S.Paolo per le vedove (I Tim.5:3-16) - la vita religiosa e monastica per gruppi di fedeli decisi a seguire più da vicino Cristo quale divino modello di vita consacrata attraverso la pratica dei consigli evangelici nel ritiro e nella penitenza.

Capitolo V - LA MESSA - L'OSTIA

Questi due argomenti, che nell'opuscolo protestante formano due diversi capitoli, li trattiamo qui insieme perchè intimamente collegati. Gli Evangelici che - come abbiamo sopra veduto - sostituiscono arbitrariamente al triplice ordine sacerdotale di vescovi presbiteri del Vangelo i pastori gli anziani ed evangelisti spacciandoli per sinonimi indicanti la stessa cosa, con le domande 31, 32, 34, 36, 40, 44, 45 ci invitano a dimostrare con la Bibbia che "Gesù Cristo abbia istituita la Messa Cattolica e non la semplice Santa Cena degli Evangelici"; - che "Gesù e gli Apostoli dicessero la Messa"; - che "la Messa sia identica alla Santa Cena, si sia servito dell'Ostia e non del pane e del vino" (Mt. 26:26-28); - che "solo il prete possa comunicarsi con l'Ostia e il vino, e che il popolo debba contentarsi della sola Ostia- (Mt. 26:27); - che "la Santa Messa debba essere detta in latino, cioè in una lingua non compresa dal popolo" (I Cor. 14:9-10).

     Gli Evangelici, che ci propongono queste domande ed altre secondarie, a cui risponderemo nel corso di questa trattazione, sono proprio certi che la loro Santa Cena sia identica all'ultima Cena di Gesù? Dal Vangelo sappiamo che Gesù istituì l'Eucarestia nel corso dei riti della Cena pasquale ebraica, riti che includevano un preciso cerimoniale col tradizionale agnello, le erbe amare, il canto di certi salmi, certe formule di benedizione sulla terra, su Gerusalemme, ecc. Tutto questo avviene nella Santa Cena degli Evangelici?
     Certamente che no. E allora come possono dire che essa è identica a quella di Gesù?
     E' stato agli Apostoli (i soli lì presenti) e non ad altri, che Gesù disse: "Fate questo in memoria di me" (Lc.22:19); e solo essi, quindi, avrebbero potuto adattare il rito cambiando, ad esempio, il luogo, la lingua, i canti complementari, le cerimonie, ed altre modalità della celebrazione. E proprio questo ha fatto la Chiesa cattolica -immediata e diretta ereditaria degli Apostoli - lungo il corso dei secoli: ferma restando la sostanza della celebrazione fino alla più scrupolosa conservazione delle parole istitutive, ha sostituito - secondo le mutevoli esigenze dei tempi - al primitivo aramaico la lingua greca, il latino, idiomi orientali ed oggi le lingue parlate.
     Anche quanto alla materia usata da Gesù per la sua istituzione, la Chiesa cattolica ha sempre usato il pane e il vino anche se non sempre ha ammesso tutti i fedeli al calice (e ciò perchè non necessario alla Comunione e per motivi pratici facilmente intuibili). Quanto all'ostia, cosa è se non pane azzimo (cioè non lievitato) come quello usato da Gesù? Ha forse Gesù proibito di usare pane rotondo? Del resto la Chiesa cattolica ha usato pane anche di altra forma e colore come pure pane fermentato.
     Di queste e di simili questioni che non toccano per certo la sostanza della veneranda istituzione, si servono i Protestanti, come di cortina fumogena, per stornare l'attenzione dalla cosa più importante che rende invece e con tutta realtà sostanzialmente differente la Santa Cena degli Evangelici da quella di Gesù, il fatto, cioè, che essa non viene celebrata - come Gesù ha ordinato- dagli Apostoli, né dai loro legittimi successori, ma da un semplice battezzato!
     Ciò premesso, esaminiamo più attentamente se Gesù istituì realmente "la Santa Cena degli Evangelici e non piuttosto la Messa cattolica" come si vorrebbe contestare nella domanda n.31.
     Che nell'Ultima Cena non si trattasse di semplice pane e vino -"come la intendono e la celebrano gli Evangelici - ma di vero Corpo e Sangue di Gesù Cristo, "offerti in cibo e bevanda ai discepoli sotto le due specie, si deduce con assoluta certezza dalla stessa S.Scrittura.
     Trattandosi di una istituzione ardua per la mente umana e di sorprendente importanza per la comune salvezza, quale sarebbe stata quella del mistero eucaristico, Gesù - per meglio disporvi gli animi - lo preannunzia nella promessa, esplicita e solenne, che ne fa a Cafarnao, all'indomani della moltiplicazione dei pani, e che Giovanni riporta, con ricchezza di particolari, al capo sesto del suo Vangelo. Dal discorso, animato e drammatico, di Gesù alla folla emerge:
a) - si tratta anzitutto di una promessa, a cui sarà dato compimento solo in seguito: "Il pane che io darò...";

b) - Gesù indica se stesso come pane vivo: "Io sono il pane vivo, disceso dal cielo; e cibo vero:" ... la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda";

c) - "mangiare" di questo cibo e "bere" di questa bevanda è assolutamente necessario per conseguire la vita: "Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non berrete il suo sangue, non avrete la vita in voi";

d) - i Giudei hanno capito bene che non era questo un modo di dire, ma che si trattava di mangiare proprio la sua carne e di bere il suo sangue, tanto che essi "questionarono tra di loro dicendo: Come può costui darci da mangiare la sua carne? " E ritenendo la cosa impossibile ed assurda, andavano ripetendo: " ... questo linguaggio è duro, e chi mai può ascoltarlo? e molti se ne allontanarono";

e) - anche di fronte al fatto doloroso dell'allontanamento di molti Gesù non modifica o attenua il suo dire, ma anzi lo conferma con giuramento: "In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e bevete il suo sangue, non avrete la vita in voi. Chi si ciba della mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell'ultimo giorno" (Gv.6:53-54).
     Questa promessa chiara ed inequivocabile, Gesù l'attua puntualmente nell'ultima Cena. Quivi, dopo di avere cambiato il pane e il vino nel suo corpo e nel suo sangue con le parole: "Prendete e mangiate, questo è il mio corpo; ... prendete e bevete, questo è il mio sangue", comanda agli Apostoli (non certo al popolo che non era presente) di fare ciò che egli aveva fatto: "fate questo in memoria di me", rendendoli con ciò stesso - come abbiamo già detto - partecipi del suo sacerdozio.
     Ora, come fanno i nostri fratelli protestanti a mettere in dubbio e a contestare -proprio come gli altercatori del Vangelo - che quello che Gesù - Figlio di Dio e verità infallibile - chiama "mio corpo e mio sangue" non sarebbe invece realmente tale? Poteva Gesù trarre così in inganno la nostra fede?
     S. Paolo - quasi a prevenire ogni obiezione riguardo tale grande mistero della nostra fede - scrive:"Io infatti ho ricevuto dal Signore quanto vi ho insegnato, cioè che i Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane e dopo avere reso grazie lo spezzò e disse: Questo è il mio corpo, dato per voi; fate questo in memoria di me. Così pure, dopo avere cenato, prese il calice dicendo: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate queste tutte le volte che ne berrete, in memoria di, me" (I Cor.11-:23-26).
     E quasi temendo d'essere frainteso circa l'effettiva presenza di Gesù nell'Eucaristia, l'Apostolo soggiunge: "Ognuno dunque esamini prima se stesso, e così mangi di quel pane e beva del calice, perchè chi mangia e beve indegnamente senza discernere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna" (ICor. 11: 28-29).
     Se si fosse trattato di semplice pane e vino - mangiati in una cena, sia pure simbolica, per ricordare la morte di Gesù, come fanno appunto gli Evangelici - S.Paolo non avrebbe certo affermato che "mangia la propria condanna chi lo mangia indegnamente senza discernere il corpo del Signore".
     Ed è per questa assoluta certezza, fondata così chiaramente nella S.Scrittura e quindi nell'infallibile parola di Dio, che la Chiesa cattolica ha sempre prestato culto di adorazione all'Ostia consacrata, dichiarando dogma di fede la presenza reale di Cristo nell'Eucarestia. Fa quindi semplicemente sorridere la leggerezza con cui si afferma nell'opuscolo protestante. "L'adorazione dell'ostia fu sancita da Papa Onorio III nell'anno 1220. Così la Chiesa Romana adora un Dio fatto dalle mani di uomini. Tale pratica è il colmo dell'idolatria ed è assolutamente contraria allo spirito del Vangelo- (cfr.pag. 26, n. 25).

     Ma i Protestanti, con a capo Lutero, non si limitano a negare la presenza reale di Gesù nell'Eucaristia tacciando i cattolici di idolatria, ma respingono tale celebrazione - chiamata dalla Chiesa cattolica "Messa" - quale vero e proprio sacrificio, e ci chiedono di provare con la Bibbia "che la messa sia un sacrificio e la ripetizione giornaliera del sacrificio di Cristo sulla croce" (n.33). 
     Ad essi, dal momento che all'ultima Cena del Redentore hanno sostituito con la loro Santa Cena una semplice e sterile rievocazione, senza alcun riferimento al sacrificio compiuto da Gesù sul Calvario, la cosa non può arrecare che meraviglia. Che la Messa sia invece anche vero e proprio sacrificio, ripresentazione incruenta di quello cruento del Calvario, lo ha vaticinato già nel Vecchio Testamento il profeta Malachia, il quale annuncia chiaramente la fine del sacrificio levitico e dei sacrifici della Legge antica per dar luogo a un nuovo sacrificio che li avrebbe sostituiti: "Oh, ci fosse fra di voi chi chiude le porte, perchè non arda più invano il mio altare! Non mi compiaccio di voi, dice il Signore degli eserciti, non accetto l'offerta dalle vostre mani! Poichè dall'oriente all'occidente grande è il mio nome fra le genti e in ogni luogo è offerto incenso al mio nome e una oblazione pura, perchè grande è il mio nome fra le genti, dice il Signore degli eserciti" (Ml.1:10-11).
     Il nuovo sacrificio vaticinato da Malachia è appunto quello compiuto da Gesù sul Calvario: la celebrazione dell'ultima Cena e la Messa dei cattolici non sono due sacrifici, ma lo stesso e l'unico sacrificio del Calvario, uno ed unico tanto come attualità eterna nel pensiero di Dio quanto nell'evento storico umano.
     Se la Messa non fosse vero e proprio sacrificio, identico a quello del Calvario, il vaticinio di Malachia non potrebbe dirsi pienamente avverato perchè solo così il sacrificio della croce è celebrato "in ogni luogo" e "dal sorgere del sole al suo tramonto".
     Infatti il sacrificio del Calvario fu offerto non in ogni momento della giornata "dal sorgere del sole al suo tramonto" ma in un'ora determinata, senza neppure la possibilità di potersi ripetere; fu offerto non in ogni luogo della terra - come indica il vaticinio - ma in un luogo soltanto, cioè sul Calvario.
     Nella Cena e nelle Messe celebrate in tempi e luoghi diversi è sempre lo stesso sacrificio della croce che è reso presente - ripresentato - nel tempo e nello spazio, in virtù delle parole consacratorie dette da Gesù e in nome di Lui ripetute non da un battezzato qualsiasi ma dal sacerdote , ciò debitamente abilitato con una particolare consacrazione, l'Ordine sacro.
     Che si tratti di vero sacrificio emerge dalle parole istitutive di Gesù: "Questo è il mio corpo, che è dato per voi; questo è il calice della nuova alleanza nel mio sangue, che è sparso per voi." (Lc.22:19-20). "E' dato per voi", cioè, dato, consegnato alla morte per voi, in vece vostra, quale prezzo di riscatto per la vostra redenzione e salute. "E' sparso per voi", per la remissione dei vostri peccati. Dare la vita e spargere il sangue per la remissione dei peccati è offrire un sacrificio (Cfr.M.Sales: il Nuovo Testamento, vol.I). "E' impressionante la parola "dato sparso per voi", che indica che il corpo del Signore, massacrato dalla crocifissione il giorno dopo, è lì presente sulla mensa dell'ultima Cena" scrive P. Parente (Teol. del Cristo.. vol.II, pag.376).

     S.Paolo, a questo proposito, afferma: "Ogni volta che mangiate questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore fino a quando Egli verrà"
     Anche la Tradizione della Chiesa Cattolica è unanime nel riconoscere che la Messa è vero e proprio sacrificio mediante la celebrazione dell'Eucarestia nella quale "vengono ripresentati la vittoria e il trionfo della morte" di Cristo (Cost. Apost. sulla Sacra Liturgia "Sacrosanctum Concilium", nn.6 e 7).
     Se ne ha aperta conferma da I Cor.(10:14-22), dove la comunione eucaristica con Cristo è paragonata ai pasti sacrificali dell'Antico Testamento, per i quali i fedeli entravano in comunione con l'altare (vv.16-18), e contrapposta ai pasti sacri che seguivano i sacrifici pagani (v.21).
     E' quindi chiaro che Paolo colloca nettamente l'Eucarestia in una prospettiva sacrificale. Questo non significa che il sacrificio di Cristo, compiuto una volta per sempre, si moltiplichi ad ogni Messa, ma solo che esso viene perpetuato nel suo memoriale eucaristico, come già notato. E' quindi inutile citare la lettera agli Ebrei contro la realtà sacrificale della Messa - come fanno gli autori opuscolo alla domanda 33 - proprio perchè essa non intende essere altro che il medesimo unico sacrificio di Cristo.

Quanto alla domanda
46 Che la Messa debba e celebrata dentro ore fisse, ecc. ?
e i tre testi biblici citati, è da notare che Cristo istituì l'Eucarestia nel corso di una cena, si, ma una cena rituale, cioè la Pasqua ebraica, per far comprendere che nel nuovo rito aveva pieno compimento l'antico e si stabiliva la "Nuova Alleanza nel suo sangue. I primi cristianiusavano unire ancora il pasto fraterno con l'Eucarestia, ma come risulta dal citato brano (I Cor.11:20-34) si verificarono gravi abusi ché costrinsero a modificare tale prassi, sostituendo la mensa della Parola di Dio (letture bibliche) alla mensa corporale.
     Gli interventi a tale riguardo furono compiuti dall'autorità della Chiesa per il succitato potere di legare e di sciogliere.
     S.Ireneo (-202) nel IV libro della sua grande o apologetica Adversus haereses, c.17, così scrive:"Ai discepoli Gesù diede ordine di offrire le primizie delle cose create a Dio ... ed Egli stesso, anzi, scegliendo tra le cose create il pane. lo prese, rese grazie, dicendo: Questo è il mio corpo. Ugualmente prendendo, sempre tra le create come noi, il calice, affermò che quello era il sangue. Istituì in tal modo il nuovo sacrificio del Nuovo Testamento, che la Chiesa, come l'ha ricevuto dagli apostoli, offre in tutto il mondo a Dio, che ci appresta gli alimenti come primizie dei suoi doni nella Nuova Alleanza: tutto questo già Malachia, uno dei dodici Profeti, aveva predetto .....".

     "A nessuno può sfuggire l'importanza di queste affermazioni limpide e precise, che potrebbero bastare a riconoscere in S. Ireneo un testimone valido a provare nei primi due secoli l'esistenza dell'Eucaristia sacramento-sacrificio, celebrato e vissuto da tutta la Chiesa" (P. Parente, op.cit.pag.380).
     Nel Catechismo pubblicato da S.Pio V per decreto del Concilio di Trento (1545-63) si legge al N.237: "Il Concilio di Trento ha dichiarato che il sacrificio della Messa fu istituito da Gesù Cristo nell'ultima Cena e con esso si offre a Dio un vero e proprio sacrificio nella Chiesa, la quale, pur celebrando Messe in memoria e onore dei Santi, offre il sacrificio non ad essi, ma solo a Dio che i Santi ha coronato di gloria immortale ... lo ringrazia per le insigni vittorie riportate dai martiri e implora il loro patrocinio affinchè si degnino d'intercedere per noi in cielo, mentre noi facciamo memoria di loro in terra".
     E al N.238:" ... il sacrificio che si compie nella Messa e quello che fu offerto sulla croce non sono e non debbono essere che un solo medesimo sacrificio, come una e identica è la vittima, cioè Cristo Signore nostro che si è immolato una sola volta sulla croce in modo cruento. Ora la vittima cruenta e la incruenta sono un'unica vittima e non due. E anche uno e identico il sacerdote, cioè Cristo medesimo, poichè i ministri celebranti non agiscono in nome proprio, ma in persona di Cristo quando consacrano il suo corpo e il suo sangue...; il sacerdote non dice: Questo è il corpo di Cristo, ma: Questo è il mio corpo ... ; l'augusto sacrificio della Messa non è soltanto un sacrificio di lode e di ringraziamento né una semplice commemorazione di quello della croce, ma un vero sacrificio propiziatorio col quale ci rendiamo Dio placato e favorevole ... ; la virtù di questo sacrificio è tale da giovare non solo a chi lo offre e a chi lo riceve, ma anche a tutti i fedeli o che siano ancor vivi sulla terra, o che essendo già morti nel Signore, non siano ancor completamente purificati.Perchè è certa la tradizione postolica che il sacrificio della Messa si offre utilmente anche per i morti, oltreché per i peccati, le pene, le soddisfazioni, le angustie e calamità svariate dei vivi ...... Esiste un intimo nesso tra il sacrificio eucaristico e il sacramento dell'Eucaristia. Le parole consacratorie realizzano l'uno e l'altro nel valore unitario della dizione in duplice significato sacramentale e sacrificale: per il sacramento, le parole: Questo è il mio corpo - Questo è il calice del mio sangue; per il sacrificio; queste medesime parole con le altre: che è dato per voi - che è sparso per voi.
     Materia del sacramento dell'Eucaristia sono il pane che è cibo dell'uomo e il vino che ne è bevanda. Essi, alimento naturale, vengono assunti a significare un alimento d'ordine superiore. Infatti, per la conversione - detta transustanziazione -, operata dalle parole consacratorie proferite sul pane e sul vino, la sostanza del pane si converte nella sostanza del corpo del Signore e la sostanza del vino in quella del suo sangue, perchè il corpo e il sangue del Signore siano nostro alimento spirituale e soprannaturale.
     L'Eucaristia è dunque sacramento. Del pane e del vino restano solo le specie, senza soggetto, sostenute da virtù divina. Sotto le specie del pane e del vino c'è veramente, realmente, sostanzialmente il corpo e il sangue di Cristo e, per concomitanza, la sua anima e la sua divinità.

     "Questo è domma di fede intangibile, da accettarsi non per motivi razionali, ma per fede" (P. Parente, op.cit.,pag.400): E' il mistero della Fede!
     Cristo Signore è presente nel sacramento dell'Eucaristia e vi continua la sua presenza finchè le specie permangono.
     Le tre parole: "veramente, realmente, sostanzialmente" si oppongono alle tre diverse interpretazioni dei Protestanti sulla presenza di Cristo nell'Eucarestia:
1) - Carlostadio, Zwinglio, Ecolampadio sostengono che la presenza è solo figurativa, come, per esempio, se un marito, prima di partire per un viaggio, lascia alla moglie un suo ritratto perchè lei così l'abbia presente. Il Concilio di Trento, invece, afferma che Cristo è veramente presente nell'Eucaristia.

2) - Altri pensano che Cristo sia presente mediante la fede. I sacramenti,secondo loro, hanno il solo compito di tenere viva la fede in Cristo. In particolare, tale funzione viene attribuita all'Eucaristia come ricordo di ciò che Cristo ha fatto nell'ultima notte prima della morte.Il Concilio, invece, afferma che Cristo è realmente presente nell'Eucaristia e ciò indipendentemente dalla fede di chi riceve il sacramento. Infatti, chi non avesse fede, riceverebbe il sacramento anche se solo materialmente.

3) - Giovanni Calvino: per lui il Cristo è presente nell'Eucarestia virtualmente in quanto esercita in essa un potere santificatore. Cristo, cioè, dal cielo irradia una virtú divina nei fedeli che si accostano all'Eucarestia. Il Concilio, invece, afferma che nell'Eucarestia Cristo è presente sostanzialmente, cioé, sotto le specie del pane e del vino vi è la sostanza del corpo e del sangue del Signore e, per concomitanza, la sua anima e divinità, in armonia di realismo e simbolismo.
     Martin Lutero parla d'una presenza del Cristo nel pane e con il pane, che comincia e finisce nell'atto in cui il fedele riceve il pane, nell'uso che ne fa.
     E' la cosiddetta dottrina della consustanziazione e impanazione per la quale sarebbero coesistenti pane e corpo di Cristo. Il Concilio afferma invece che dopo le parole della consacrazione la sostanza del pane e quella del vino non vi sono più e che sono state convertite nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo. Del pane e del vino non restano che le apparenze, le specie:" ... con la Consacrazione del pane e del vino si ha una conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo nostro Signore e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo sangue; la quale conversione la Chiesa cattolica convenientemente e appropriatamente chiama transustanziazione"(can.4).
     Se fosse come pensava Lutero, resterebbe compromessa la verità delle parole di Cristo:"Questo è il mio corpo", perchè ci corre un abisso tra queste parole e "qui c'è il mio corpo".
     Dalle stesse parole di Cristo appare evidente che la sua presenza nell'Eucaristia non è solo reale ma anche permanente. Nel decreto III . del Concilio è detto: "La Santissima Eucaristia ha certamente in comune con gli altri sacramenti di essere il simbolo di una cosa sacra e forma visibile di una grazia invisibile; ma è tutta propria dell'Eucaristia questa cosa particolare e sublime, che gli altri sacramenti hanno solo il potere di santificare quando vengono usati, mentre nell'Eucaristia prima di essere amministrata già si contiene l'Autore della santità. Gli Apostoli, infatti, non avevano ancora ricevuto l'Eucaristia dalle mani del Signore, che già, tuttavia, affermava con verità essere il suo stesso corpo ciò che presentava loro".
     La SS.Eucaristia è, dunque, sacramento permanente che continua ad esistere finchè le specie sacramentali rimangono incorrotte.
    Cristo è tutto intero nell'eucarestia: come s'è detto sopra, vi è col corpo e col sangue in virtù del sacramento, vi è con l'anima e la divinità per naturale concomitanza, perchè Cristo Risorto non può scindersi (S.Tomm. Summa Theol.3, q.76).
     Per la stessa ragione Cristo è tutto intero sotto ciascuna delle due specie, sebbene si possa dire che in virtù del sacramento è con la sostanza del corpo sotto le specie del pane e con la sostanza del sangue sotto quelle del vino (S.Tomm., ibidem a.2).
    E' stato più volte affermato che in virtù delle parole della consacrazione la sostanza del pane e quella del vino vengono convertite, rispettivamente, nella sostanza del corpo e del sangue del Signore. Ma le specie - dette accidenti nell'uso scolastico -del pane e del vino, cioè la loro quantità dimensiva con le altre note sensibili permangono, per virtù divina, senza soggetto di inesione ma hanno una certa somiglianza di soggetto (S.Tomm.3,q.75 a.V ad primum e ad quartum).
     Detti accidenti, così configurati, hanno valore di segno sacramentale poichè, essendo destinati al nutrimento sul piano naturale (infatti, l'ostia consacrata nutrisce, il vino consacrato inebria), dicono relazione reale con il corpo e il sangue del Signore in quanto nutrimento spirituale e soprannaturale in chi riceve il sacramento. "Cristo intero si fa presente nel sacramento per modo di sostanza, che è indipendente dal luogo e permette che nel sacramento, per concomitanza, ci siano anche le dimensioni quantitative di Cristo senza localizzazione (adattamento al luogo) (P.Parente, op. citata pag.397).
     Nell'ostia consacrata il corpo di Cristo e la sua quantità dimensiva sono per modo di sostanza; negli accidenti la quantità dimensiva è circoscritta, posta nel suo modo naturale, di parti, cioè, estese e occupanti uno spazio. "Le specie sacre con la loro relazione reale accolgono in se stesse il Cristo immutato rendendolo sostanzialmente presente" (P. Parente, ibid.pag.401).
     "La presenza di Gesù nell'Eucaristia ... dura, finchè rimangono inalterate le specie consacrate, come fu definito dal Concilio di Trento (Sess.XIII, can.4) e come risulta dalla perpetua prassi della Chiesa, che, anche fuori del tempo in cui si celebrano i sacri misteri, conserva e adora l'Eucaristia" (Card. Massimo Massimi, La nostra Fede, pag.28).
     "Cristo nel sacramento non è soggetto al moto e ad altre mutazioni, che sono proprie degli accidenti, sotto cui Egli è "per modo di sostanza". Moto e mutamenti avvengono nelle sacre specie, ma Cristo non li subisce in sè, nel suo essere, che ormai è libero in cielo da ogni mutazione o alterazione" (P.Parente, ibid. pag.394). Perciò, quando il Sacramento vien portato in processione o nelle case degli ammalati e altrove, il movimento è delle specie in cui Cristo è presente per modo di sostanza.

     L'Eucarestia in quanto sacramento:
1) E' nutrimento spirituale dell'anima mediante la conservazione e l'aumento della grazia santificante, delle virtù e dei doni dello Spirito Santo. Dà, insieme, come effetto particolare, la grazia sacramentale con la quale si ottiene il fine specifico dei singoli sacramenti;

2) Produce una speciale intima unione dell'anima con Cristo e il suo Corpo mistico, che è la Chiesa, mediante la carità; "Un solo corpo siamo noi sebbene molti, quanti partecipiamo dell'unico pane " (I Cor. 10: 17).

3) Libera dalle colpe d'ogni giorno (peccati veniali) e preserva dalle gravi.

4) E' pegno della gloriosa risurrezione dei corpi e insieme della vita eterna: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell'ultimo giorno" (Gv. 6:54).
     La Comunione è necessaria agli adulti di necessità di precetto divino: "In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita"(Gv.6:53). E necessaria anche di precetto ecclesiastico gni anno per la Pasqua. Non è però necessaria sotto tutte e due le specie, contenendo ciascuna di esse tutto il Cristo.

     L'Eucarestia in quanto sacrificio:
1) Ha il fine di rendere il culto supremo a Dio: l'adorazione, il ringraziamento, l'espiazione o propiziazione, la domanda o impetrazione.

2) Gli effetti o frutti che ne derivano sono:
a) Frutto meritorio: della grazia e della gloria futura, che viene conseguito dal sacerdote - offerente ministeriale - e da quelli secondari, secondo la misura del loro merito personale, "ex opere operantis".
b) Frutto impetratorio: di beni spirituali e temporali - se utili all'anima -, provenienti dal sacrificio della Messa, in sè, "ex opere operato".

c) Frutto propiziatorio o espiatorio: il sacrificio della Messa ha il potere di dare riparazione a Dio e di rimettere i peccati mortali e veniali, "ex opere operato."

d) Frutto soddisfatorio: il sacrificio della Messa ha il potere di rimettere sia ai vivi che ai defunti la pena temporale ancora dovuta per i peccati già rimessi, "ex opere operato".

c) Frutto propiziatorio o espiatorio: il sacrificio della Messa ha il potere di dare riparazione a Dio e di rimettere i peccati mortali e veniali, "ex opere operato."

d) Frutto soddisfatorio: il sacrificio della Messa ha il potere di rimettere sia ai vivi che ai defunti la pena temporale ancora dovuta per i peccati già rimessi, "ex opere operato".

Ricordiamo ai benevoli lettori: 
1) Nel cimitero cristiano di Domitilla (sec.I-II) - Via Ardeatina in Roma -, su un loculo è scritto: "Signore Gesù, ricordati della nostra figlia". 
2) Su lastra coeva conservata nel Museo Lateranense, IX,1 3: "Amerimmo a Rufina coniuge carissima benemerita. Dio accordi refrigerio al suo spirito". 
3) Su altra, ancora, trovata presso Santa Sabina e ora conservata nel Museo Capitolino: "Attico, dormi in pace. Tu che sei sicuro della tua salvezza, prega istantemente per i nostri peccati". 
     Stimiamo che sia sufficiente la citazione di tali epitaffi per porre in evidenza come fin dai primi due secoli erano acquisiti i due concetti - conformi alla fede vissuta dai cristiani di allora - della preghiera a Dio per i defunti e della preghiera dei defunti per i viventi.

     S.Agostino, con riferimento specifico al sacrificio della Messa, insegna: "Non ci può essere dubbio
che i defunti ricevano aiuti dalle preghiere della Chiesa e dal sacrificio che dà la vita"(Serm.172). Anche ne "Le Confessioni (Lib.9,c.XI) ricorda le parole della madre morente: "Ponete questo corpo in qualsiasi luogo; non vi date nessun pensiero di ciò; solamente vi prego che vi ricordiate di me all'altare del Signore dovunque voi siate".

     Se la Chiesa appoggia le sue preghiere per i vivi e per i defunti (dom.38 e 39) al sacrificio della Messa è perchè siano immensamente più efficaci. Gesù stesso ha infatti assicurato che qualunque cosa verrà chiesta al Padre in nome suo verrà concessa (Gv.14;13-14). E quindi tanto più le accoglierà se gli vengono fatte insieme all'offerta mistica del suo Sacrificio. Anche se questo è di valore infinito, come sappiamo, Dio resta tuttavia assolutamente libero sia nel concedere i divini favori, il perdono dei peccati in vita o il paradiso dopo la morte, come diremo anche in seguito trattando del Purgatorio.

Capitolo VI - LA VERGINE MARIA E I SANTI

     Questi due capitoli, che nell'opuscolo figurano distinti, li trattiamo qui insieme per un migliore filo logico oltre che per maggior comodità.
     Nel piano della salvezza Maria appare intimamente legata al Redentore: "Quando venne la pienezza dei tempi, mandò (Dio) il suo figlio fatto da donna ... affinchè ricevessimo l'adozione in figlioli" (Gal. 4A- 5). E nel Simbolo apostolico la Chiesa ci fa ripetere sempre - quasi a ricordarci il meraviglioso disegno divino -:"Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e si è incarnato per opera dello Spirito Santo da Maria Vergine".
     Nella Bibbia Maria appare come colei che più di ogni altra creatura è associata al Figlio suo. Preconizzata fin dagli albori dell'umanità (Gen. 3:15), presentata dai profeti come la mistica aurora che precede la venuta del Redentore, l'Apostolo dell'amore ce la mostra nel suo Vangelo solo due volte in momenti particolarmente significativi: all'inizio e alla fine della vita pubblica di Gesù. A Cana è lei - la madre -ad affrettarne l'ora, ottenendo il "primo, segno", sicché i suoi discepoli credettero in lui. Sul Calvario essa è unita in modo mirabile al Figlio redentore e ne riceve il testamento: Giovanni, simbolo della Chiesa, le viene affidato come figlio al posto di Gesù, ed egli lo riceve "come sua madre".
     Da qui inizia la funzione di Maria, che sul Golgota partorisce nel dolore l'umanità redenta, ed ora - in piena rispondenza al piano della salvezza - continua in cielo (e stupirebbe che non fosse così) la sua missione materna dopo di averla compiuta nel Cenacolo(Atti 1: 15).
     Dinanzi a tanta ineffabile missione e a così eccelsa dignità non può che stupire la domanda

49:"Che Maria debba essere chiamata la Madre di Dio? " (At.1:14).
     I fratelli evangelici contestano così alla Vergine il più grande e il più fondamentale dei suoi privilegi.
     E questo uno dei più gravi errori degli antichi eretici, condannato nel Concilio di Efeso del 431, in cui fu smascherata la falsità nestoriana e dove fu solennemente proclamato che "Maria è Madre di Dio".
     Quando diciamo che Maria è Madre di Dio affermiamo implicitamente due verità fondamentali: la prima che Gesù, figlio di Maria, è vero uomo, altrimenti Maria non potrebbe essere sua madre; la seconda che questo suo figlio è anche vero Dio.
     Affermiamo - in altre parole - che la seconda Persona della SS.Trinità, cioè il Figlio e Verbo divino, che nella sua natura divina è generato da tutta l'eternità dal Padre, è stato nuovamente generato nella pienezza dei tempi, nascendo come uomo, dalla Vergine Maria, ossia assumendo nel suo seno materno, senza alcun concorso umano e per sola opera dello Spirito Santo, una natura umana della medesima sostanza di quella di lei. Pur non avendogli data la natura divina, ciò che Maria dà alla luce è tutta la Persona del Verbo incarnato, il Cristo tutto intero uomo e Dio insieme, per cui ella è e deve dirsi Madre di Dio.
     Voler negare alla Vergine il titolo di Madre di Dio per il fatto che a Cristo, suo figlio, ella non ha dato la natura divina, è un pretesto puerile. E stata forse la mamma nostra a darci l'anima spirituale ed immortale creata immediatamente e direttamente da Dio nell'atto stesso della concezione? Eppure a nessuno è mai venuto in testa di pensare alla propria madre come alla madre della sua parte materiale soltanto, vale a dire del solo suo corpo, e non di tutta la persona.
     I termini di madre e di figlio - come è noto - si riferiscono alla persona e non già alle parti e agli elementi che la compongono. Nessuno dice "la madre del mio corpo", ma "mia madre", cioè la madre di me, formato di anima e corpo.
     Lo stesso - in certo qualmodo - è avvenuto nel mistero dell'incarnazione: la Vergine dando alla seconda Persona della SS.Trinità, cioè all'Unigenito Figlio del Padre celeste, una vera natura umana della stessa sostanza della sua - così come tutte le madri di questo mondo fanno riguardo ai propri figli - è divenuta veramente e realmente sua Madre, Madre del Figlio divino, e per conseguenza Madre di Dio fatto uomo.
     Ed è appunto perchè Madre di Dio - collocata da Dio stesso, per questa singolare missione, al di sopra degli Angeli e dei Santi - che nella Chiesa cattolica, come meglio in seguito diremo, la si onora e la si venera con culto speciale, detto con termine greco di iperdulia, ma che differisce sempre ed essenzialmente da quello di latria, cioè di adorazione, dovuto unicamente a Dio.

     Dopo il dono della divina maternità i Protestanti contestano alla Vergine - (nella domanda
47):" Che Maria sia stata concepita senza peccato? "(Lc.1:46-47; Rom.3:10-23)
- il singolare privilegio dell'immacolato concepimento, che cosi viene formulato da Pio IX nella sua definizione dommatica dell'8 dicembre 1854: --- ... con l'autorità del Nostro Signor Gesù Cristo, dei beati Apostoli Pietro e Paolo e Nostra, dichiariamo, pronunciamo e definiamo che la dottrina, la quale ritiene che la beatissima Vergine Maria, nel primo istante della sua concezione, per singolare grazia e privilegio di Dio onnipotente ed in vista dei meriti di Gesù Cristo, Salvatore del genere umano, sia stata preservata immune da ogni macchia della colpa originale, è rivelata da Dio e perciò è da credersi fermamente e costantemente da tutti i fedeli". Verità dunque rivelata, non in contrasto ma contenuta nella S.Scrittura.

     Apriamo infatti il libro della Genesi, il Protovangelo come è stato chiamato, e vi troviamo l'immane tragedia abbattutasi sul genere umano: Eva, istigata dal demonio, coglie dall'albero proibito e ne dà ad Adamo e tutt'e due, non curandosi della minaccia di morte, trasgrediscono il comando divino trascinando nella rovina - come capostipiti -tutta la loro progenie.
     Dio misericordioso non abbandona per sempre l'uomo nell'abisso in cui è precipitato e si prende subito una rivincita sul demonio con la promessa del Redentore: "Poichè hai fatto questo - dice al tentatore - maledetto sii tu ... Porrò inimicizia fra te e la donna, fra il seme tuo e il seme di lei; essa ti schiaccerà il capo e tu insidierai il suo calcagno (Gen.3:14-15).
     Si tratta di una sola e identica inimicizia tra la donna e la sua stirpe contro il serpente e la sua stirpe. Cristo - stirpe di Maria - ha attuato in pieno questa inimicizia sul suo avversario, riportandone un completo trionfo con la sua morte e la sua risurrezione. Lo stesso deve quindi essere avvenuto tra la donna e il serpente altrimenti la profezia biblica non potrebbe dirsi avverata.
     Questa donna, preconizzata nel testo sacro, non poteva certo essere Eva, divenuta schiava del demonio, e tanto meno altre donne di cui ci parla la Bibbia. Una inimicizia perfetta e totale esige infatti che la donna non sia stata amica - cioè schiava - del demonio neppure per un istante della vita e fosse per conseguenza immacolata fin dalla concezione.
     E che tale donna sia proprio Maria, risulta in modo evidente - oltre ad essere esso stesso argomento inconfutabile - dal saluto che l'Arcangelo Gabriele rivolge alla Vergine:"Ave, o piena di grazia, il Signore è con te" (Lc.1:28). Se è "la piena di grazia" per eccellenza, come appunto suona il termine greco "kecharitomene", ne segue che essa non è rimasta priva neppure per un breve istante, sia pure all'inizio della sua esistenza, a causa del peccato originale.
     Anche Elisabetta, illuminata dallo Spirito Santo, riconosce in Maria tale grazia eccezionale e la saluta: "Benedetta sei tu fra tutte le donne e benedetto il frutto del tuo seno"(Lc.1:42).
     L'immunità dalla macchia originale della Vergine risulta quindi in modo più che evidente dalle pagine della Bibbia e non sappiamo spiegarci il perchè i Protestanti abbiano a negarle questo dono che è di tanto decoro alla Madre di Dio. Ripugna infatti alla stessa ragione umana pensare che Maria prescelta e predestinata da Dio ad essere la Madre del Figlio suo, Salvatore del mondo, che doveva vincere satana e il suo regno, fosse soggetta per un istante solo proprio a satana.
     Gli autori dell'opuscolo citano Romani (3:10-23) in calce alla domanda 47 per far credere che l'esenzione della Vergine sarebbe contro la dottrina paolina circa I'universalità della colpa e la conseguente universalità dell'opera redentiva di Cristo.

Ma non vi è affatto contrasto perchè la colpa originale pesa in generale sulla specie umana derivata da Adamo, mentre la preservazione di Maria si attua sulla linea della persona, non della specie. In Maria - per singolarissimo privilegio e in vista dei meriti del Figlio - la redenzione opera in modo preventivo, cioè non solo purificandola ma anche preservandola e colmandola di grazia fin dal primo istante del suo concepimento.

Nella domanda
58:"Che Maria sia salita al cielo anima e corpo? "(Gv.3:13), i fratelli evangelici contestano alla Vergine anche la sua assunzione al cielo, che Pio XII ha dichiarato domma di fede il 1 novembre 1950.
     E' anche questa una verità che è stata sempre creduta nei secoli. Padri e Dottori della Chiesa ne hanno sempre trattato e i fedeli hanno in onore della Madonna assunta innalzato chiese e celebrate feste.
     Dichiarandola verità di fede solo ora e dopo tanti secoli, la Chiesa non ha creato o inventato una nuova credenza di fede, come si afferma nell'opuscolo (pag.29), ma solo ha riconosciuto e solennemente dichiarato che essa è verità rivelata e come tale da credersi da tutti i fedeli; precisamente come un qualsiasi tribunale di questo mondo, quando sentenzia che un diritto appartiene a un individuo, non gli crea tale diritto, ma soltanto lo riconosce autorevolmente contro coloro che glielo vogliono contestare.
     Anche di questa verità abbiamo infatti gli elementi fondamentali nella Bibbia:
a) la maternità divina ha creato tra Gesù e Maria vincoli talmente intimi e profondi da riuscire pressoché inconcepibile che il Figlio di Dio - onnipotente e amantissimo della Madre sua - non le abbia procurato la gloria dell'assunzione portandola con sè in cielo in anima e corpo alla fine della sua vita terrena;

b) Maria, vergine illibata nella sua divina maternità e che anche nel parto ha conservato il privilegio della sua integrità fisica, era anche giusto che non conoscesse la corruzione del sepolcro;

c) è innegabile verità di fede, fondata sulla Bibbia, che Maria è stata associata intimamente al Figlio nella completa vittoria contro il demonio. Era quindi conveniente che venisse a lui associata anche nella vittoria e nel trionfo sulla morte e sul peccato mediante la sua elevazione al cielo in anima e corpo, come è appunto avvenuto del Figlio suo.
     Spogliata di questi molteplici e singolari privilegi, di cui Dio l'ha voluta adornata, i Protestanti non vedono in Maria che una donna qualsiasi la quale "visse e morì come una cristiana esemplare". Per cui "il pregare e il celebrare delle feste in suo onore è un insulto alla sua memoria, ed essa stessa sarebbe la prima a protestare" (opuscolo pag. 14).

Passano quindi a contestare a lei e ai Santi in genere ogni potere di intercessione presso Dio:
53 "Che Maria abbia mai domandato e ottenuto da Dio qualche grazia o favore per qualcuno dei suoi devoti? - (50) Che Maria sia la Porta del cielo, la dispensatrice dei doni celesti, la Corredentrice col Nostro Signore ... ? ". 

     Per la Chiesa cattolica - non diversamente di quanto ammettono i fratelli evangelici nella domanda 64 - "santi" sono non soltanto quelli canonizzati, di cui abbiamo trattato rispondendo alla domanda 18, ma quanti - vivi e defunti - fanno parte, come amici di Dio, del Corpo Mistico di Cristo rendendo in tal modo possibile tra di loro quel felice scambio di beni che nel Simbolo viene chiamato "Comunione dei Santi".
     Alcuni di tali membri del Corpo Mistico di Cristo o santi, morti a testimonianza della fede o di una virtù ( martiri, cfr. Apoc. 2: 10 e 12: 11) o dopo una vita ricca di opere buone (cfr.Mt.7:15-20), sono proposti a tutti i fedeli come autentici imitatori di Cristo, e quindi come modelli di vita cristiana. Ciò lo mette assai bene in evidenza S.Paolo: i fedeli, imitando lui, - come raccomanda di fare (1 Cor.4:16;Gal.4:12;Fil.3:17) - imiteranno il Cristo (1 Tess.1:6;Fil.2:5,ecc.) che egli stesso imita (I Cor.11:10). Infine essi devono imitare Dio (Ef.5:1) e imitarsi gli uni gli altri (1 Tess.L7;2:14;Ebr.6:14).
     Nel testo 2:1-5 di I Timoteo - citato alla domanda 66 - Paolo istruisce Timoteo sul comportamento dei fedeli, e raccomanda tra l'altro che essi preghino per gli altri, anzi per tutti gli uomini, comprese le autorità civili. Insegna altresì che l'intercedere per gli altri è cosa lodevole e gradita a Dio, perchè la preghiera dei fedeli farà sì che i lontani possano conoscere la verità (cioè l'unico Dio e Salvatore) e quindi salvarsi. Ne consegue che i fedeli - secondo la Bibbia - possono e devono concorrere al bene altrui anche mediante la loro intercessione presso Dio. Ciò è confermato da molti passi biblici (basti ricordare Gv.5:16-17; Rom. 15:30-31; Ef.6:18-19;Col.1: 9-10).
     L'intercessione è la pratica della fraterna carità, legge fondamentale dei seguaci di Cristo.
     Ora, se tale fruttuoso scambio di beni e di vicendevole aiuto è possibile tra i santi quando sono ancora viatori sulla terra, e quindi limitati nel tempo e nello spazio, perchè non dovrebbe essere loro più possibile - e in modo certamente più largo ed efficace - quando regnano con Cristo in cielo? A fianco di Cristo sono infatti chiamati i santi dopo la morte come da lui stesso promesso al buon ladrone:"Oggi sarai meco in Paradiso"(Lc.23:43).
     La S.Scrittura mostra un esempio di intercessione dei martiri presso Dio e l'esaudimento di essa nell'Apocalisse. Nel linguaggio simbolico di questo libro, Giovanni mostra i Santi del cielo che, con le loro preghiere, riempiono di profumi i vasi d'oro, che salgono continuamente al trono dell'Agnello (5:8); queste preghiere non sono solo di lode, ma anche di intercessione per i loro fratelli bisognosi di aiuto sulla terra (6:9-11); la loro preghiera è ascoltata da Dio (8:3-4) e infine esaudita (9:13): qui l'espressione "udii una voce dai lati dell'altare d'oro" indica appunto che quanto segue è frutto della preghiera dei martiri sopra descritti.

     Se dunque i santi possono in cielo intercedere ed essere da Dio esauditi a favore dei fratelli bisognosi sulla terra, perchè mai questo, e in modo immensamente più efficace, non può farlo la Madre di Dio, che i fedeli invocano appunto loro Avvocata?
     I Protestanti per negarlo si basano unicamente sul citato testo a Timoteo: "Non vi è che un solo Dio, uno solo è anche il Mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che per tutti ha dato se stesso in riscatto (I Tim.2:5-6).
     Ma è proprio questa verità paolina che la Chiesa cattolica ha sempre creduto ed affermato nel suo insegna mento! Sappiamo tutti, infatti, che Cristo è l'unico e vero Mediatore per avere redento l'umanità col sacrificio della sua vita. Ma dove è detto nella Bibbia che Cristo non possa - per gratuita sua benevolenza e a mirabile dignità dell'uomo - chiamare altri collaboratori nell'attuazione dell'opera salvifica da lui compiuta? Se Dio ha eletto Maria all'altissima dignità di Madre del Figlio suo, che vi è di strano se è stata chiamata anche a coadiuvarlo nell'opera della redenzione?
     Si tratta - naturalmente - di mediazione subordinata e dipendente da Cristo ed è sotto questo particolare aspetto che la mediazione di Maria viene posta in evidenza dalla "Lumen gentium" del Concilio Vaticano II: "La funzione materna verso gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce questa unica mediazione di Cristo, anzi piuttosto ne mostra l'efficacia. Poichè ogni salutare influsso della Beata Vergine sugli uomini non deriva da intrinseca necessità, bensì soltanto dal beneplacito di Dio, e sgorga dalla sovrabbondanza dei meriti di Cristo, si fonda sulla mediazione di lui, da essa assolutamente dipende e attinge tutta la sua efficacia; non impedisce minimamente l'immediato contatto dei credenti con Cristo, anzi lo facilita" (Cap.III,n.60).
     A lei infatti come a madre Cristo affidò sul Calvario l'umanità redenta; è lei che è divenuta madre della Chiesa e dei membri che la compongono, formanti tutti quel corpo mistico di cui Cristo, suo Figlio, è capo.
     Se i fratelli evangelici - anzichè isterilirsi in illogiche contestazioni quasi sempre in aperto contrasto con la Bibbia - volessero collocare anch'essi la Vergine nel posto in cui Dio l'ha voluta nel piano della salvezza, non tarderebbero a riconoscere essi pure, doverosi e pienamente conformi alla S.Scrittura, i titoli e gli omaggi che il mondo cattolico le tributa. Finirebbero, anzi, per fare eco festosa anch'essi alle parole risuonate sulle sue labbra divinamente ispirate: "Perchè ha guardato (il Signore) l'umiltà della sua serva, ecco fin d'ora tutte le generazioni mi chiameranno beata" (Lc. 1: 48). Sarebbe questo un passo decisivo verso la bramata unione religiosa e il modo migliore di accogliere la parola che ella rivolse ai servitori al banchetto di Cana: "Fate tutto quello che egli (il Cristo) vi dirà" (Gv.2:5).
     Restare ostinatamente muti nel crescente coro di benedizioni e di lodi, che dai primi secoli si eleva sempre più festoso alla Vergine, significa non aver compreso l'altissima missione che come Madre di Dio e degli uomini ella è stata chiamata a compiere nella Chiesa di Cristo!

     I protestanti contestano inoltre (domande 60, 67, 70) ogni forma di culto alla Vergine e ai Santi: "Che culto di dulia e iperdulia, dato ai santi e a Maria, non sia idolatria espressamente proibita nella Bibbia? (Es.20:4-5; Lev.26:1; Mt.4:10).
     L'idolatria, che la S.Scrittura proibisce, consiste nel prestare culto divino ad una creatura.
     Quando Dio comanda di adorare lui solo con culto supremo ed assoluto non intende proibire quello inferiore, cioè di dulia e iperdulia, che si presta ai Santi come a suoi amici. E come un re non si reputa offeso se vengono onorati i suoi ministri ridondando sulla sua persona un tale onore, così pure il culto che si presta ai Santi si riflette su Dio, la cui gloria in essi appunto risplende.
     E che tale culto non sia per nulla proibito, ce lo fa toccar con mano la stessa S.Scrittura: Abramo, Lot e Giosuè si prostrano riverenti agli angeli del Signore; Abdia, uomo giusto, venera col volto fino a terra il santo profeta Elia (III Reg. 18:17); l'Ecclesiastico esorta addirittura a lodare e glorificare gli uomini virtuosi:"Diamo lode agli uomini gloriosi, come Mosè, David,Giosuè; la loro sapienza è celebrata dai popoli e le loro lodi sono ripetute nelle sacre adunanze" (44:1-15).
     E perchè i semplici fedeli sappiano anche ben distinguere tra il culto dovuto a Dio e quello prestato ai Santi, la Chiesa ha sempre insegnato a chiare note che il primo è di 'latria" o adorazione, mentre il secondo è di semplice venerazione cioè di "dulia". E siccome tra i Santi un posto del tutto singolare occupa la Vergine perchè Madre di Dio, a lei viene tributato un culto superiore a quello degli altri Santi, detto di "iperdulia", ma sempre distinto essenzialmente da quello di adorazione dovuto unicamente a Dio.
     Quando dunque i Protestanti asseriscono - come ora nelle domande 54,69,72 -che i cattolici adorano la Vergine, i Santi o le loro reliquie o immagini, affermano delle autentiche falsità, e stupisce che dopo oltre quattro secoli dalla Riforma si vadano ripetendo simili banalità. 

     Non resta ormai che rispondere ad alcune specifiche domande circa l'uso delle immagini e la venerazione delle reliquie dei Santi, che gli Evangelisti ci pongono nei numeri 68 e 69: Che si possano fare delle statue dei Santi e della Madonna per ricordarsi di loro? (Is. 44:9-20; Salmo 115:2-9); e "portarle in processione? " (Es. 20:4-5; Is.44; 15:19; Ger.10:3-15). 

     Su questo punto delle immagini gli Evangelici non fanno che appellarsi al Vecchio Testamento, ma saprebbero essi direi come mai, mentre al c.20 dell'EsodoDio proibisce le immagini, al c.25 comanda i cherubini per l'Arca santa? Come spiegare due ordini contraddittori di Dio nello stesso libro, a soli 5 capitoli di distanza?
     Il c.20 è un testo molto antico, di fattura "eloista" e risalente a circa nove secoli prima di Cristo; vi era allora molto pericolo di politeismo e idolatria per gli Ebrei. Il c.25, invece, fu redatto dopo il ritorno dall'esilio babilonese e quindi quattro secoli più tardi del c.20: allora la mentalità giudaica era assai purificata per l'opera dei profeti e le sofferenze subite; infatti dopo di allora si avrà il rigido giudaismo, fedele (almeno esteriormente) alla Legge del Dio Unico. Per cui non era più troppo pericoloso l'uso delle immagini e si ricorse perfino ai cherubini, che erano divinità secondarie dei popoli circonvicini. Anche nell'antichissima sinagoga di Durw-Europos si trovano immagini nei resti archeologici.
     Se dunque già nel quinto secolo avanti Cristo non vi era più pericolo che il popolo ebraico adorasse le statue e le immagini come divinità, vogliono i Protestanti che si cada in questo grossolano errore nel nostro secolo ventesimo?

     Anche le citazioni bibliche apposte alle domande 62, 63, 68, 69 si riferiscono tutte all'Antico Testamento, mentre per noi valgono invece le parole di S.Paolo "Noi sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo, e che non esiste che un Dio solo"(I Cor.8:4). Cosi pure è puerile addurre in contrario Atti (10:25-26 e 14:18) nelle domande 72 e 73 in quanto ivi è chiaro che i pagani, venuti a contatto coi due Apostoli, li vogliono adorare perchè li credono esseri sovrumani, anzi gli abitanti di Listra scambiano addirittura Barnaba per Giove e Paolo per Mercurio! Noi questo non lo pensiamo neppure!

"Che le ossa dei morti ed altre reliquie siano investite di virtù miracolose, e che debbano essere esposte alla pubblica venerazione, baciate e portate in processione? "(71). 

     Cominciamo col dire che le immagini - in pittura o scultura - ci rappresentano la persona reale o ideale del Santo. le reliquie invece, riguardano o il loro corpo o frammenti di esso o cose adoperate da lui in vita o che vennero poi a contatto con le sue ossa o col suo sepolcro come sono appunto la croce, i chiodi, le spine, la Sindone cioé il lenzuolo che avvolse il corpo del Salvatore.
     Alle une e alle altre - immagini e reliquie - la Chiesa Cattolica presta un culto relativo, vale a dire non vengono onorate per quello che sono in se stesse, ma in riguardo alla dignità della persona a cui si riferiscono, diretto, cioè, e indirizzato non a tali oggetti in sè, ma al santo a cui appartengono o che rappresentano. Così il fedele che si prostra in ginocchio dinanzi alla statua della Vergine, non intende venerare il pezzo di legno o di marmo che gli sta innanzi, ma la Vergine in persona che sta in Cielo. L'immagine gli serve solo a meglio elevare il cuore e la mente a Lei.

     Lo stesso dicasi per le reliquie. Non sono le ossa e gli oggetti inanimati che distribuiscono grazie e miracoli, come si asserisce in campo protestante, bensì il Santo e in ultima analisi Dio, che si compiace di manifestare la sua potenza e la sua bontà per mezzo dei Santi, venerati con fede nelle loro immagini o nelle loro reliquie.
     L'episodio evangelico con l'Emorroissa ce lo dimostra in modo evidente: "Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello - ella pensava di Gesù - sarò guarita".
     Gesù, voltatasi, la vide e disse: "Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita" (Mt.9:20-22).
     Gesù approva quindi il comportamento della donna; non solo, ma anche altri passi del Vangelo (Mt.14:36; Me.6:15) ci fanno sapere che questo comportamento era normale: quanti toccavano l'orlo del mantello di Gesù guarivano. Anche di Paolo si raccontano negli Atti (19:11-12) cose simili: si mettevano sopra i malati fazzoletti e grembiuli che erano stati a contatto con Lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi fuggivano". E di Pietro si legge che "operava guarigioni anche solo con la sua ombra" (At.5:15-16).
     C'è dunque da stupirsi per il comportamento dei cattolici e per le numerosegrazie e guarigioni prodigiose che i fedeli ottengono pregando con fede dinanzi ad immagini sacre e soprattutto nei Santuari Mariani come a Lourdes, Fatima, Loreto e Pompei? 

     Quanto al passo di Luca (11:27-28), citato in calce alla domanda 54, e da dire che - contrariamente a quanto gli Evangelici suppongono - Cristo, con l'affermazione: "Beati piuttosto quelli che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica", non solo non nega la grandezza di sua Madre, ma la esalta ancor più presentando un maggior motivo di lode, quello della sua fede, modello incomparabile per tutti i suoi seguaci. Ne è prova lo stesso Vangelo, il quale a questi riguardi esclama: "Beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore! (Lc. 1: 15).

Capitolo VII - IL PURGATORIO

     Circa l'esistenza nell'aldilà da, di questo luogo o meglio di questo stato di purificazione delle anime nell'attesa di essere ammesse alla visione beatifica di Dio, dichiarata più volteverità di fede dalla Chiesa Cattolica, in campo protestante c'è il più netto rifiuto. "Il Purgatorio - leggiamo a pag. 17 dell'opuscolo - è una pura invenzione della Gerarchia Romana, non essendovi di esso neanche l'idea nel Nuovo Testamento. Tale dottrina è in contraddizione con le parole di Cristo, che dice che i suoi credenti vanno direttamente in Paradiso quando muoiono" (Lc.23:43; Gv.14:3).
     E' anche un insulto alla efficacia del Sangue di Cristo che ci purga da ogni peccato (Gv.1:7). Questo (il Sangue di Cristo) è il vero Purgatorio evangelico, e non il Purgatorio di fuoco".
     A vieppiù screditare su questo punto la Chiesa Cattolica, i Protestanti hanno cercato di confondere le idee, precisamente come nella questione del culto delle immagini, dove per essi tutto, anche la semplice venerazione, è adorazione e quindi idolatria.
     Non diversamente essi fanno riguardo al Purgatorio: confondono insieme i dati dommatici della Chiesa con altri elementi -, a volte solo tollerati - , che la pietà dei fedeli o la devozione popolare ha introdotto con rappresentazioni talvolta fantasiose ed arbitrarie: cose che nascono in gran parte dalla difficoltà che incontra la fede nel non sapersi spiegare le condizioni dell'uomo dopo la morte.
     Ecco cosa intende la Chiesa cattolica quando parla di Purgatorio e di Inferno: in fedele adesione al Nuovo Testamento e alla Tradizione essa crede alla felicità dei giusti, i quali saranno un giorno con Cristo. Crede altresì che una pena attende per sempre il peccatore, il quale sarà privato per tutta l'eternità della visione di Dio con ripercussione di tale pena in tutto il suo essere. Crede, infine, per quanto concerne gli eletti, ad una eventuale purificazione che è preliminare alla visione di Dio ed è, tuttavia, del tutto diversa dalla pena dei dannati (Cfr. Dichiarazione della S.Congr. per la Dottrina della fede, del 17/5/1979).
     Che questo luogo di purificazione o Purgatorio realmente esista, ce lo dice la stessa ragione umana appoggiata alla S.Scrittura. Dall'Apocalisse (21:27) sappiamo infatti che nella celeste Gerusalemme "nulla di men che puro può entrare": lo richiede la giustizia di Dio prima di conferire il premio dell'eterna felicità. Ora sta di fatto che molti muoiono improvvisamente. Questi tali, se sono in peccato mortale e non hanno avuto tempo di pentirsi, vanno all'Inferno; se invece hanno avuto tempo e modo di pentirsi, all'Inferno non ci andranno più: il Signore misericordioso accoglie sempre il peccatore che si pente. Ma è anche vero che questi tali non hanno potuto in nessun modo far penitenza per i peccati commessi; come è anche vero che chi muore improvvisamente, anche se in grazia di Dio, non ha modo di pentirsi e di espiare per i peccati veniali; qualora ne abbia. Neppure per questo però egli andrà all'Inferno.
     Adunque, all'Inferno no, perchè morti in grazia di Dio, in Paradiso no, perchè "nulla di men puro vi può entrare". Deve, per conseguenza, esserci un luogo, distinto dall'Inferno e dal Paradiso, dove le anime, passate di vita in grazia di Dio e non del tutto monde, abbiano la possibilità di purificarsi e rendersi degne di entrare nella patria beata.
     Questo luogo di espiazione non solo non svalora il sacrificio della Croce, ma costituisce una tangibile espressione della infinita misericordia di Dio perchè in questo modo dà alle anime, non interamente monde, la possibilità di liberarsi dalle scorie del peccato espiando dopo morte la pena temporale dovuta alle loro colpe e che non hanno avuto tempo o modo di soddisfare durante la loro vita.

     I nostri fratelli evangelici sono convinti che per essere ammessi al Paradiso basti aderire mediante la fede a Cristo; quanto poi all'espiazione dei peccati commessi - essi dicono - ha provveduto con sovrabbondanza Cristo: il sacrificio della Croce basta a soddisfare per i peccati di tutto il mondo!

     Anche la Chiesa cattolica sa bene che Cristo ha soddisfatto con sovrabbondanza, ma sa pure che i suoi meriti infiniti, perchè siano all'individuo fruttuosi, debbono essere applicati caso per caso; come è pur vero che nell'ordine della Provvidenza è stabilito che anche noi, insieme con Cristo, dobbiamo operare la nostra salvezza. In ciò S.Paolo è molto esplicito: "Adempio in me ciò che manca (perchè fruttifichi) alla Passione di Cristo" (Col.1:24). E che cosa manca alla Passione di Cristo? Non certo l'efficacia di soddisfare essendo essa di valore infinito, ma manca l'applicazione al cristiano singolo, cosa che non può essere realizzata senza la sua libera accettazione e senza la sua personale cooperazione, proprio secondo il detto di S.Agostino; "Chi ti ha creato senza di te, non ti salva senza di te".
     Se dunque qualcuno - pur trovato alla morte degno del Paradiso - non si è unito durante la sua vita ai patimenti di Cristo e insieme a lui non ha soddisfatto completamente per i propri peccati, non avrà altra possibilità per andare in Paradiso che compiere queste espiazioni nel Purgatorio e ciò pur avendo Cristo soddisfatto abbondantemente per i peccati del genere umano.
     Anche se nella Bibbia - come ci rinfacciano i Protestanti - non troviamo la parola "Purgatorio", c'è però, e in modo assai chiaro, la cosa che con tale vocabolo si vuole significare.
     Nel libro II dei Maccabei - della cui ispirazione divina neppure i Protestanti dovrebbero dubitare dal momento che lo cita anche S.Paolo (Ebr.11:35) - l'esistenza del Purgatorio emerge in modo evidente. Ivi infatti si narra come il prode Giuda Maccabeo, trovati dopo una sanguinosa battaglia su alcuni cadaveri degli oggetti idolatrici, presi nei paesi conquistati, ordina di fare tra i presenti una colletta e invia la somma - dodici mila dramme d'argento - a Gerusalemme perchè vengano compiuti dei sacrifici nel tempio per ottenere il perdono di questo loro peccato alle anime dei soldati caduti valorosamente per la patria.
     E come se questo già non bastasse a fare comprendere il dovere che i vivi hanno di venire in aiuto dei defunti, il sacro testo autorevolmente conferma che "santo e salutare è il pensiero di pregare per i defunti perchè siano sciolti dai loro peccati" (II Macc.12:43).

     E fuori dubbio che qui si tratta di individui morti con sentimenti di pietà religiosa e nell'amicizia di Dio; venivano a trovarsi, per conseguenza, non già nell'Inferno e neppure - a causa del peccato commesso - in Paradiso, ma in luogo di espiazione ossia in Purgatorio, altrimenti non avrebbero potuto "essere sciolti dai loro peccati". Nel Nuovo Testamento si leggono espressioni che ne presuppongono l'esistenza.
     Così in Matteo (12:32) Gesù parla di peccati che non saranno rimessi "né in questo secolo né in quello futuro"; altrove ammonisce che "nel giorno del giudizio" gli uomini dovranno rendere conto di ogni parola oziosa che avranno detto" (Mt,12:36); e a più chiare note ci esorta in Matteo (5:25-26): Mettiti subito d'accordo col tuo avversario, mentre sei ancora con lui in vita; affinchè l'avversario non ti consegni al giudice, e il giudice alla guardia, e tu non sia gettato in carcere. In verità ti dico: Tu non uscirai finchè non abbia pagato sino all'ultimo spicciolo".
     Ora, qual è questa prigione ove alla morte si va per espiare una parola oziosa, un fallo commesso e non riparato e dalla quale si potrà uscire solo dopo aver pagato fino all'ultimo centesimo, se non il Purgatorio?
     Contrariamente a quanto affermano i Protestanti - che nell'altra vita, cioè, esistano solo il Paradiso e l'Inferno -, S.Paolo riconosce dopo la morte tre stati in cui ci si può trovare al giudizio particolare: "Ma nel giorno del giudizio - egli scrive nella sua prima ai Corinzi (3:13-15) -, Dio rivelerà quel che vale l'opera di ciascuno. Essa verrà sottoposta alla prova del fuoco, e il fuoco ne proverà la consistenza. Se uno ha fatto un'opera che supera la prova, ne avrà la ricompensa (il Paradiso). Se invece la sua opera sarà distrutta dal fuoco, egli perderà la ricompensa (cioè avrà l'eterna condanna).
     Egli personalmente (se si trova in una via di mezzo) sarà tuttavia salvo, come uno che passa attraverso l'incendio".

     E veniamo ora alla prima delle citazioni (Mt. 25:46) che gli autori dell'opuscolo -per dimostrare la loro tesi - fanno seguire alla domanda
76: "Che vi sia un Purgatorio, come luogo intermedio tra il Paradiso e l'Inferno? ".
     In questo passo il Vangelo presenta, è vero, solo questi due stati eterni, ma essi sono conseguenti al giudizio universale quando - anche secondo la Chiesa cattolica - il Purgatorio cessa la sua funzione.
     Anche il fatto che il buon ladrone (dom.78) sia passato direttamente al cielo (Lc.23:43) subito dopo la morte, nulla prova in contrario perchè a lui è bastato come purificazione dei suoi peccati la fortunata vicinanza a Cristo morente (spettacolo assai commovente e istruttivo) e le sofferenze della crocifissione e spezzamento delle gambe. Quel che vale per il suo caso - veramente singolare - non vale come legge generale.  Cosi pure il passo di Giovanni (14:3) nulla prova in contrario, perchè ivi si parla del ritorno di Cristo alla fine del mondo, quando gli eletti tutti entreranno al posto loro preparato da Gesù presso il Padre. Tra l'Ascensione del Risorto al cielo e il suo ritorno alla fine del mondo cosa impedisce infatti la purificazione di alcune anime dopo la morte? Giovanni ci insegna (1:7-9) che è Dio che purifica da ogni peccato, ma non dice il modo come lo fa per cui può essere anche mediante l'espiazione dopo la morte.

     Quanto al Salmo (49:6-9) è ovvio che nessuno può acquistare la propria salvezza con denaro; ma è pur vero che l'elemosina - fatta nel modo voluto da Cristo nel Vangelo (Mt.6:1-4), cioè animata dalla carità (I Pet' 4:8) - purifica da ogni peccato, come viene assicurato in Tobia (12:9): "L'elemosina salva da morte e purifica da ogni peccato", e in altri numerosi passi biblici.

Quanto alla dom.81 è da precisare che le anime del Purgatorio non "esaudiscono le preghiere dei loro amici rimasti sulla terra", ma - in quanto anch'esse amiche di Dio -chiedono che tali preghiere vengano esaudite. Né si vede - dopo quanto è stato detto nel capitolo precedente alle dom.50 e 53 - perchè esse non possano essere aiutate dai viventi con preghiere, Messe, suffragi, elemosine ed altre opere buone per affrettarne l'ingresso in Paradiso.

     La domanda 83 sulla "visita della Madonna alle anime del Purgatorio il sabato" gli Evangelici la fondano su una rivelazione privata a S.Simone Stock e quindi non vi è alcun obbligo di crederla. Come infatti si sa, dopo l'ultimo dei libri rivelati, l'Apocalisse, la divina Rivelazione è chiusa e non vi possono essere se non delle rivelazioni private (Lourdes, Fatima,ecc.), le quali, anche se difese e incoraggiate dalla Chiesa come certe e fondate, non costituiscono tuttavia vero e proprio domma di fede.
     Contro tale credenza, però, nulla prova la citazione di Luca (16:26) perchè in tale passo del Vangelo non del Purgatorio si parla ma dell'Inferno, separato dal Paradiso da un abisso, simbolo dell'impossibilità di cambiare stato, sia per gli eletti come per i dannati. Cristo,poi,"in ispirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che erano in carcere" (I Pet.3;19) e non in Inferno.

Capitolo VIII - LE BUONE OPERE

     Chiamati a provare con la Bibbia
84" Che la salvezza dell'anima possa essere guadagnata col fare le opere meritorie... ?
---dobbiamo qui subito dire che neppure per la Chiesa cattolica le opere buone possono essere in se stesse causa efficiente della nostra eterna salvezza.
     Questa - come si sa - è una realtà soprannaturale e come tale irraggiungibile dalle forze puramente umane, specie dopo il peccato d'origine; per conseguenza le opere buone non possono costituire il mezzo adeguato per conseguirla, ma solo l'espressione della libera cooperazione dell'uomo all'azione della grazia, dono soprannaturale che ci rende figli di Dio e partecipi della sua natura divina.
     Se le buone opere vengono fatte in stato di grazia, meritano il Paradiso perchè così ha voluto Dio nella sua bontà! La ragione è evidente: in questo caso le opere vengono compiute non soltanto dall'uomo, ma dall'uomo e da Dio insieme, presente nell'anima del giusto mediante la grazia. Se invece a compierle è solo l'uomo, con le sole sue forze naturali e senza l'aiuto della grazia, esse non sono sufficienti per l'acquisto della vita eterna.
     E che le cose stiano proprio così è Gesù stesso a dircelo: "Io sono la vite, voi i tralci; chi rimane in me ed io in lui, questi porta molto frutto, perchè senza di me nulla potete fare" (Gv.15:5).
     E che le opere compiute in questo stato di grazia siano tutt'altro che inutili e costituiscano anzi una condizione indispensabile al conseguimento della vita eterna, risulta in modo indiscusso dal fatto che quando "tutti gli uomini compariranno davanti al tribunale di Dio e del Cristo" - come afferma l'Apostolo (Rom.14:10) e come si ha da molti altri passi della S.Scrittura - per riceverne l'eterna ricompensa, ciò avverrà "secondo le loro opere" (Ef.6:9; Mt.16:27; ecc.) e "secondo quello che avranno seminato" (Gal. 6:7-9).
     Le opere quindi buone o cattive vengono ad avere un peso determinante nella sentenza di Cristo giudice, il quale non si attarderà a chiedere se gli uomini abbiano aderito a lui con la fede, ma se abbiano compiuto le opere che egli ha comandato di fare, unica dimostrazione valida della loro fattiva adesione. L'Apostolo in ciò è molto esplicito: "Noi, infatti, dobbiamo tutti quanti comparire davanti al tribunale di Cristo, perchè ognuno riceva la ricompensa di quel che avrà fatto mentre era nel corpo, sia in bene che in male" (II Cor.5:10).

     Ed è appunto perchè il giudizio divino verterà sulle opere compiute che S.Paolo diverse volte fa degli elenchi delle opere cattive, che escludono dal regno di Dio, concludendo che "coloro che fanno tali opere non avranno in eredità il regno di Dio"(5:19-21).
     Contrariamente a questa dottrina, fondata in modo tanto chiaro nella Sacra Scrittura, i Protestanti asseriscono che le opere dell'uomo non meritano mai il Paradiso, come non meritano, se peccaminose, l'Inferno. Sono un puro di più, inutile e perfino dannoso alla salvezza, perchè chi salva è la fede nei meriti infiniti di Cristo e soltanto quella, e chi ci danna è solo la mancanza di tale fede. .
     Ci siamo chiesti donde essi traggano questa assurda conclusione, e abbiamo supposto che sia scaturita dalla risposta che Paolo e Sila, chiusi nella prigione di Filippi, diedero al carceriere che - rientrato in se stesso - così li interrogava: "Signori, che cosa devo fare per essere salvato? Essi risposero: Credi nel Signore Gesù. Sarai salvo tu e la tua famiglia" (At.16:30-31).

     Da questa risposta essi probabilmente partono per affermare che per salvarsi è necessaria la fede (credere). E in ciò non sono lontani dal vero: la stessa cosa afferma infatti la Chiesa cattolica dato che proprio questo ha insegnato Cristo nel Vangelo: "Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, chi invece non crederà sarà condannato" (Mc.15:16).
     Ma saprebbero dirci i fratelli evangelici in quale passo della Bibbia è scritto che per salvarsi basti e non sia necessaria che la sola fede? E poi, quale fede? quella dei martiri, o quella della stragrande maggioranza dei cristiani di oggi che poco o nulla sa di Cristo e meno ancora di pratica di vita cristiana? 

     Dal Nuovo Testamento risulta invece, quasi ad ogni pagina, che la fede, per essere vera ed autentica, deve accompagnarsi alle buone opere. S.Giacomo in ciò è molto esplicito: "Non ingannate voi stessi; non contentatevi di ascoltare la parola di Dio, mettetela anche in pratica" (1:22). E in modo ancora più chiaro: "Fratelli, a che serve se uno dice: io ho la fede! , e poi non lo dimostra coi fatti? Forse che quella fede può salvarlo? ... la fede da sola, senza opere, è morta" (2:16-17).
     Il pensiero di Gesù non si discosta da questa affermazione dell'Apostolo: Al giovane ricco, che gli domandava cosa dovesse fare per conseguire la vita eterna, egli non propose semplicemente di credere, ma gli rispose: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti (Mt.19:17). Gesù pone così l'osservanza dei comandamenti -ossia il compiere le opere di bene - a base e come condizione indispensabile per raggiungere la salvezza. "Se vuoi", dipende quindi anche da lui, cioè dalla sua libera volontà e libertà. E se è necessario osservare i comandamenti per salvarsi, è chiaro chenon basta la fede, ma ci vogliono anche le opere, le quali risultano così tutt'altro che inutili.
     Ecco perchè Gesù insiste ancora: "Non colui che mi dice; Signore, Signore! (credere) entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli (compiere le opere) questi entrerà nel regno dei cieli' '(Mt.7:21). E nell'Apocalisse si legge:"Sì, vengo presto, portando con me la mia ricompensa per darla a ciascuno secondo le sue opere"(22:12). I Protestanti adducono in contrario il passo di S.Paolo:"Nessuno sarà giustificato dinanzi a lui(Dio)mediante le opere della legge"(Rom.3:20); e ancora: "Noi riteniamo che l'uomo è giustificato per mezzo della fede senza le opere della legge" (Rom.3:28). Ma qui l'Apostolo - come è evidente - intende riferirsi non alle opere in genere, ma alle opere della legge mosaica (cerimoniali, circoncisione, e simili) ormai non più necessarie nel cristianesimo.
     A meglio far credere trattarsi in questo passo paolino di ogni genere di opere, essi hanno fatto sparire dal testo originale della Bibbia "della legge" e vi hanno aggiunto "sola", traducendo quindi così: "L'uomo si giustifica con la sola fede senza le opere": il che è ben diverso da ciò che intendeva dire l'Apostolo.
     Anche le due citazioni bibliche (Gal.2:16; Ef.2:8-10), apposte alla domanda, nulla provano contro il valore delle opere. La giustificazione si può avere certamente anche dalla fede ma a condizione che questa non si riduca a pura adesione intellettuale e che sia, in senso biblico, fiducia ed obbedienza ad una verità vitale che impegna tutto l'essere nell'unione a Cristo, come più volte indica l'Apostolo (II Cor.13:5-7; Gal.2:20; Ef.3:17). Ciò che S.Paolo decisamente respinge è il valore delle opere umane per meritare la salvezza senza fede in Cristo.
     Volere inoltre sostenere l'inutilità dell'intercessione dei Santi (della cui efficacia abbiamo già parlato), dei sacramenti e del prete nel conseguimento della salvezza, significa chiudere gli occhi su quanto ripetutamente afferma la Bibbia. Così - quanto al battesimo - il Vangelo di Marco (16:16) espressamente dice: "Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo"; e S.Giacomo quanto all'Unzione degli infermi: "Qualcuno di voi è infermo? Chiami i sacerdoti della Chiesa e i sacerdoti preghino per lui, ungendolo con l'olio nel nome del Signore; la preghiera della fede salverà il malato e il Signore lo solleverà e se ha commesso dei peccati sarà perdonato" (5:14-15). Anche indispensabile risulta l'opera del sacerdote nell'evangelizzazione, alla quale missione inforza della sua stessa ordinazione viene particolarmente abilitato: "E in che modo ci saranno dei predicatori, se non sono mandati? " (Rom.10:13-15).
     Anche riguardo alle cosiddette opere supererogatorie i fratelli evangelici hanno una concezione difforme da quella della Chiesa cattolica: esse non sono quelle necessarie o comandate od anche al di sopra del numero richiesto per la salvezza della propria anima - come ci si vorrebbe far credere nelle domande 84, 85 e 86 -, ma quelle di semplice consiglio, alle quali il cristiano non è strettamente tenuto. Così S.Paolo, parlando dei diritti e doveri degli sposi (I Cor.7:6-8 e sgg.), mette in risalto la preminenza del celibato virtuoso sul matrimonio, l'abbracciarlo però non è d'obbligo: costituisce un'opera buona, non comandata ma solo consigliata, e quindi supererogatoria. Quanto alla citazione di Isaia(1:12-18) della domanda 85, il profeta qui se la prende con un ritualismo cui non risponde un sentimento interiore, come fece Gesù nei riguardi dei farisei. Evidentemente. le azioni ivi indicate, compiute con tale atteggiamento puramente esteriore, neppure per la Chiesa cattolica hanno alcun valore meritorio, come è stato più volte spiegato; quindi la citazione non ci tocca.
     Nelle citazioni apposte alla dom. 88 (Mt.15:11;1 Cor.10:25; I Tim.4:1-5) si parla di proibizioni alimentari basate sulla persuasione che alcuni cibi siano immondi per se stessi o dopo l'immolazione agli idoli. Per noi cattolici come, del resto, per la Bibbia, ogni cibo è puro. Questo però non toglie che a volte ci se ne possa privare per amore di Dio (cfr.Lc.4:2) e ciò anche come atto comunitario (At.13:3); ora, ciò che è bene davanti a Dio, l'autorità ecclesiale lo può anche imporre in nome di Lui (cfr.Mt.16:19;18:18).
     Circa la domanda 89 abbiamo già altrove rilevato la differenza che passa tra la simonia e il "vivere dell'altare" (Cfr.I C or.9:7-14). Le dispense non si pagano e le tasse per quelle matrimoniali, stabilite dall'autorità, sono per il necessario mantenimento e funzionamento degli uffici relativi.
     Quanto all'uso di portare oggetti di devozione addosso come pure all'uso del segno della croce, di cui nelle dom. 90 e 91, dobbiamo dire che si tratta di gesti di fede e in tanto sono validi in quanto sono accompagnati da analogo sentimento interiore.
     Gli autori dell'opuscolo citano S.Matteo (4:10-11) per riprovare l'uso del segno di croce; ma nel brano evangelico, ove si legge in che modo Cristo allontanò la tentazione, non viene per nulla condannato l'uso di segnarsi con la croce dicendo: "nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo"! Esso è un significativo gesto di fede che ricorda proprio come attraverso la croce di Cristo fummo liberati dal potere del diavolo e consacrati alla Trinità Santissima.

Capitolo IX - LA PREGHIERA

92. Che le preghiere possano essere rivolte a chiunque altro, oltre che a Dio, uno e trino? 

     Gli autori dell'opuscolo, basandosi sui passi biblici citati in calce a questa domanda, e cioè Matteo (6:6) "Ma tu, quando vuoi pregare, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto, e il Padre tuo, che è nel segreto, te ne darà la ricompensa"; Giovanni (16:23): "In verità, in verità vi dico: qualunque cosa domanderete al Padre, egli ve la concederà in nome mio"; come pure Atti (7:59) e I Cor. (1: 2), nei quali passi l'invocazione appare sempre rivolta al Padre sia pure fatta a nome di Gesù, concludono che le preghiere non debbono essere rivolte ad altri che a Dio e quindi fanno le più alte ed indignate meraviglie nel vedere noi cattolici rivolgere le nostre preghiere anche alla Vergine e ai Santi.

     Se fosse realmente come gli Evangelici dicono, noi non potremmo rivolgerci nelle nostre preghiere neppure allo Spirito Santo, che pure è Dio, dato che nei detti passi nessun cenno si fa di preci a lui indirizzate.
     D'altra parte, negli Atti (7:59) Stefano, durante la lapidazione si rivolge a Gesù, cioè al Figlio in quanto uomo, che egli contempla alla destra di Dio, pregando: "Signore Gesù, ricevi il mio spirito", preghiera che i suoi uccisori ritengono orribile bestemmia.
     In nessun luogo della Bibbia si legge che nelle preghiere si debba fare ricorso solo a Dio. A suo luogo abbiamo infatti detto come la Vergine e i Santi, in quanto amici di Dio possano essere presso di Lui nostri intercessori, avvalorando e presentando le nostre stesse suppliche. Il continuo afflusso di fedeli e pellegrini d'ogni condizione, luogo e cultura, nei santuari, specialmente mariani, sta luminosamente a dimostrare la grande fiducia che viene riposta nell'efficacia dell'intercessione della Vergine e dei Santi. E se innumerevoli - e non di rado miracolosi - sono i favori celesti che i fedeli ottengono rivolgendosi a loro, è chiaro segno che anche Dio approva tali prassi della Chiesa e tali preghiere, le quali, in ultima analisi, hanno per fine sempre Dio Padre attraverso Cristo nello Spirito Santo, come la Chiesa cattolica suole concludere le sue orazioni liturgiche.
     Se quindi tutte le nostre preghiere, anche quando viene interposta l'intercessione dei Beati del cielo, finiscono a Dio, perchè stupirsi di invocazioni fatte ai Santi con la recita del Padre Nostro? (dom.94). 

     Interpretando inoltre alla lettera le parole di S. Matteo: "E quando pregate, non moltiplicate vane parole, come i pagani, che credono di essere esauditi a forza di parole" (6:7) come pure quelle di Isaia (1: 15), essi passano a riprovare nelladom.93 "Che la stessa preghiera si possa ripetere tante volte come si fa con la corona del rosario? ".
     In tali passi, citati nell'opuscolo, come in non pochi altri della Bibbia, viene inculcata più che altro la necessità che la preghiera sia fatta col cuore e non con le labbra soltanto. Non vi si condanna l'insistenza nella preghiera fino all'importunità specie ripetendo la mirabile preghiera del Padre Nostro che Egli stesso ci ha insegnato.
     Cosi pure chi pratica con fede ed amore la preghiera del rosario si accorge che essa è un facile mezzo di elevazione della mente e del cuore ai misteri della nostra Redenzione e non una pratica meccanica fatta di parole inutili: basta dire che la ripetizione dell'Ave Maria è solo un accompagnamento della meditazione degli avvenimenti gaudiosi, dolorosi e gloriosi della vita di Cristo e della Madre sua.
     Quanto alla domanda 95, dove si riprova il fatto che in confessione vengano imposte delle preghiere in espiazione dei peccati, è da ricordare che la "penitenza" imposta dal confessore è solo un segno della buona volontà di convertirsi, è un minimo, un inizio. Nulla quindi di strano che si indichi per tale scopo un rilancio del contatto con Dio, la cui trascuratezza è spesso alla base del peccato.

Capitolo X - IL BATTESIMO
96. "Che il Battesimo per spruzzamento di un po' d'acqua sulla testa della persona, lo fa cristiano, lava dal peccato, e salva l'anima? " 

     Questa domanda mette a nudo la concezione errata che i Protestanti hanno circa l'azione dei sacramenti in genere e del battesimo in particolare. Per essi i sacramenti nessuna grazia producono nell'anima, ma servono solo a suscitare dei buoni sentimenti in chi li riceve.
     Il sacramento non sarebbe pertanto il veicolo o mezzo fisico, immediato, col quale viene conferita la grazia, ma solo una pia cerimonia e un rito puramente religioso. La giustificazione - secondo questa loro concezione - non avviene con la distruzione del peccato a mezzo del sacramento, come è fede nella Chiesa cattolica, ma con la suacopertura, in quanto Cristo copre coi suoi meriti infiniti come di un mantello i peccati. Di qui la quasi inutilità dei sacramenti.
     Alla luce di siffatta concezione si spiega la loro sorpresa che un po' d'acqua sul capo del battezzando possa cancellare il peccato e salvare l'anima.
     E' vero che la parola greca baptizo significa bagnare, fare il bagno, ed essendo il battesimo simbolo della morte, ci fu tra i primi cristiani l'uso di scendere in una vasca (come in una tomba - morire con Cristo) per poi salire lavati (risorgere con Cristo), ma questo modo di battezzare non era comandato, e quello per infusione fu praticato senza che per questo si dubitasse della sua validità. Leggiamo infatti negli Atti (2: 41); "Quelli adunque che accolsero la sua parola furono battezzati e, in quel giorno, il numero dei discepoli si accrebbe di circa tre mila persone.

     Se in quel giorno solo furono battezzate tre mila persone, è chiaro che in Gerusalemme, dove c'era penuria d'acqua, non si potè fare il battesimo per immersione. Ne troviamo esplicita conferma anche nella Didachè - succinto catechismo della Chiesa primitiva - dove si insegna: "Battezzate così Nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo con acqua corrente, con acqua calda o fredda, e se non ne hai in quantità sufficiente spargi tre volte il capo".
     D'altra parte, possono i fratelli evangelici provare con la Bibbia che Cristo abbia stabilito una determinata quantità d'acqua da usare nel battesimo e quali parti del corpo debbano essere lavate perchè il sacramento sia valido?

     Nel rito del battesimo quel che conta è il segno del lavarsi il corpo per l'anima. Certamente è più espressiva l'immersione - che quasi sempre, anche se non ovunque, è stata praticata pure nella Chiesa cattolica - ma ciò non toglie che motivi pratici di necessità o di utilità possano consigliare altra forma. Quel che conta è conservare nel rito il significato simbolico.
     Il battesimo - secondo la Bibbia - seppellisce il peccatore nella morte di Cristo (Col.2:12), da dove esce mediante la risurrezione con lui nuova creatura, membro dell'unico corpo animato dall'unico Spirito (I Cor.12:13); è un lavacro che purifica (Ef.5:26); è come una nuova nascita (Gv.3:5): insomma, è un rito simbolico efficace, che realizza ciò che significa.
     Contro questa dottrina biblica, che è precisamente quella della Chiesa cattolica, cosa hanno di contrario i brani di Matteo (28:19-20) e di Marco (16:15-16), citati nella domanda? Proprio nulla! Da tali brani appare solo l'ansia di Gesù che tutti vengano battezzati perchè siano salvi.

97 Che i bambini debbano essere battezzati subito dopo nati ...? 

     I Protestanti, convinti come sono che i sacramenti hanno lo scopo di suscitare dei buoni sentimenti in chi li riceve, sostengono che per ricevere il battesimo si richiede un vero ed esplicito atto di fede anche perchè si legge nel Vangelo "Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato" (Mc.16;16). I neonati sono incapaci di credere, quindi non debbono essere battezzati.

     Ma un grosso equivoco sta alla base di questa loro affermazione: le parole di Gesù si riferiscono alla predicazione che gli Apostoli imprendevano allora: si trattava diannunziare il regno di Dio alla gente che viveva in quel tempo ed è chiaro che non si va a predicare ai neonati ma agli adulti, giudei o pagani che fossero, i quali prima di abbracciare la nuova religione dovevano naturalmente convertirsi. Era quindi ovvio che questi tali, prima di ricevere il battesimo, dovevano già credere.
     Il fatto che i neonati nulla capiscono ancora di battesimo non impedisce che lo possano ricevere validamente; e come contraggono il peccato d'origine senza saperlo venendo al mondo privi dell'amicizia con Dio (Rom.5:19), così pure niente di strano che ne siano liberati senza che ne siano a conoscenza. Il sacramento produce lo stesso la grazia nell'anima.
     Quando Gesù disse a Nicodemo:" ... se uno non nasce da acqua e da Spirito non può entrare nel regno di Dio" (Gv.3:5), la nascita spirituale è causata (in greco c'è la particella ekche esprime assai bene tale causa) proprio dall'acqua, vale a dire dal rito del battesimo.
     Se dunque il sacramento produce per sè, direttamente, la grazia nell'anima in quanto opera interiormente ciò che il lavacro dell'acqua esprime esteriormente, non si vede perchè questo grande beneficio debba essere negato ai neonati, quando esso potrebbe segnare il fortunato atto di nascita alla vita della grazia e al diritto gioioso del regno dei cieli. E questo tanto più in quanto il battesimo costituisce l'unica via ordinaria per ricevere la vita soprannaturale; diciamo "ordinaria" perchè Dio potrebbe usare vie straordinarie e a noi sconosciute nella sua infinita bontà e misericordia; ed è per questo che non osiamo affermare che tutti i bambini morti senza battesimo restino privi della beatitudine del cielo. E invece certo che non andranno all'Inferno perchè non hanno peccati personali che lo meritino.

     Gli autori dell'opuscolo citano Marco (10:13-16) per sostenere che i neonati non hanno bisogno di battesimo; ma in tale brano, ove Gesù dice: "Lasciate che i fanciulli vengano a me ... perchè il regno di Dio è di quelli che sono simili a loro", il termine greco, usato per "fanciulli", non può essere applicato a neonati, ma a fanciulli tra i 7 e i 14 anni come si ha da Marco 5:42; e noi sappiamo che a quest'età si possono commettere benissimo dei peccati e rifiutare perfino di credere. Non entrano quindi nel regno di Dio per il solo fatto di avere meno di 14 anni.

     Cristo loda nei fanciulli alcune caratteristiche virtù e qualità come la semplicità, l'assenza di pregiudizi di prevenzioni,ecc. Anzi in Matteo (18:3) afferma in forma assoluta e categorica la necessità di farsi fanciulli per entrare nel Regno. Con tali parole Gesù vuole senza dubbio dire che il regno di Dio è un dono e per riceverlo bisogna mettersi nella condizione di chi si riconosce povero e indigente, debole e bisognoso di aiuto. E niente quanto il battesimo dei neonati mette in evidenza l'assoluta gratuità dell'adozione a figli da parte di Dio. Proprio per questo il citato testo di Marco viene usato nella Chiesa cattolica nel rito del battesimo dei bambini!

     Quanto alla dom.98 - in cui si critica l'uso dell'olio, del sale e della saliva del prete -, dobbiamo dire che Cristo, istituendo il battesimo, non ha fissato i riti da usare, e quindi resta nelle facoltà della Chiesa stabilirle ed eventualmente modificarle o sopprimerle, tanto è vero che ora né il sale né la saliva vengono più usati. In tali eventuali modifiche deve naturalmente essere sempre salvaguardata la sostanza del rito voluta da Cristo, cioè l'elemento materiale dell'acqua e quello delle parole che spiegano il gesto ("Io ti battezzo..."), che sono gli unici necessari per la validità, come la Chiesa cattolica ha sempre insegnato e praticato.

Capitolo XI - LA SACRA SCRITTURA

     Col nome di Sacra Scrittura o Bibbia si suole designare il complesso dei 73 (secondo altro modo di computarli, 72) libri sacri che la compongono: 46 del Vecchio Testamento e 27 del Nuovo Testamento.
     L'elenco o Canone di tutti e singoli si ha nell'anno 382 in un sinodo tenuto a Roma e si legge anche in quello cartaginese del 397, vale a dire oltre mille e cento anni prima dell'avvento del Protestantesimo. Il criterio per discernere i libri ispirati da quelli non sacri è l'accettazione da parte della comunità cristiana, e particolarmente dell'autorità apostolica, cui Cristo affidò l'incarico dell'insegnamento della verità.
     In quanto libri sacri, da Dio ispirati, essi non potevano essere affidati che alla Chiesa che Cristo aveva istituito, come si può intuire da Matteo 28:19-20 (presso il popolo eletto erano i sacerdoti del Tempio ad averne cura), e quindi tocca ad essa e ad essa soltanto il compito di interpretarli e di portarli alla conoscenza dei popoli nella, loro nativa integrità e genuina realtà. E perchè tali libri possano essere rettamente compresi dai fedeli e non corrano il rischio d'essere fraintesi o adulterati, la Chiesa ha stabilito che non vengano messi in circolazione senza l'Imprimatur della competente autorità ecclesiastica e non corredati da note esplicative nei passi di più difficile interpretazione. Da queste provvide e doverose misure, usate dalla Chiesa cattolica a salvaguardia dell'integrità e autenticità dei sacri testi, prende le mosse la domanda

99: "Che non sia lecito ad alcuno di leggere la Bibbia senza le annotazioni e l'Imprimatur della Chiesa romana? "
     Purtroppo queste cautele, prese dalla Chiesa cattolica e delle quali viene essa continuamente accusata dai Protestanti, non son bastate a scongiurare del tutto il pericolo e son servite solo a mettere in guardia i fedeli cattolici. Infatti il Protestantesimo di quei 73 libri ne ha accettato solo 66 rigettandone sette: Tobia, Giuditta, Sapienza, Ecclesiastico, Baruch e I e II dei Maccabei; distribuendo in tal modo al popolo cristiano testi incompleti, privi di note esplicative e quindi soggetti a interpretazioni errate e tradotti altresì in non pochi passi - specie il Nuovo Testamento - in modo inesatto e tendenzioso.
     Di tali sacrileghe manomissioni sono stati gli stessi capi storici del Protestantesimo a lamentarsi, e tra questi Zuinglio il quale - a proposito della traduzione della Bibbia fatta da Lutero - ebbe a dire che essa "alterava e corrompeva la parola di Dio".

     Il Protestantesimo fa consistere l'evangelizzazione dei popoli nel distribuire Bibbie senza il necessario sostegno dell'autentico magistero ecclesiastico. Cristo non disse: distribuite Bibbie e discutete: dal libero confronto delle interpretazioni germoglierà la verità; bensì:"Ammaestrate ... battezzate ... insegnate". E fu ai Dodici che lo disse.
     Circa l'utilità della lettura delle sacre Scritture, quanto dicono i due passi (Gv.5:39 e II Tim.3:15-17), citati nell'opuscolo, è certamente vero, ma è non meno vero quanto si afferma in II Pet.3:15-16: "In esse (le lettere di S.Paolo) ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina". E ciò appunto perchè come si ha nella medesima lettera di Pietro (1:20) -: ... nessuna profezia della Scrittura (e questa è tutta profezia in quanto parola di Dio e annunzio del Cristo) è soggetta a interpretazione privata".
     Contravvenendo a un così chiaro ammonimento della Bibbia, Lutero pose invece a base del suo insegnamento il principio del libero esame, in forza del quale ognuno ha l'inviolabile diritto di trarre dalla Bibbia - secondo la propria privata interpretazione - la dottrina da credere per salvarsi e la libertà di dar vita a una propria setta o chiesa.
     La lettura della Bibbia può così aiutare nel cammino verso la salvezza come può essere anche di inciampo, se interpretata in modo distorto proprio come di Cristo che è " ... sasso contro cui si inciampa e pietra di scandalo" per chi non crede (I Pet.2:6-7).
     Proprio nel citato Gv.5:39 Gesù attesta - ed è significativo! - che i suoi ascoltatori scrutavano le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; eppure non ne accettavano la testimonianza resa a Cristo. Non basta "scrutare" le Scritture: occorre aprire davvero il cuore alla voce di Dio. Non capiti anche ai nostri tempi di non accorgersi della testimonianza che le Scritture rendono alla Chiesa, sicché questa debba dire: "Se non credete a quello che è scritto, come potete credere alle mie parole?" (Gv.5:47).

     Non contenti d'essersi sbarazzati degli elencati sette libri i protestanti rigettano anche la sacra Tradizione, cioè l'insegnamento orale trasmesso da Cristo agli Apostoli e da questi al magistero della chiesa: "Che la Tradizione abbia la stessa autorità dalle sacre Scritture? -. 

     Per far credere d'essere nel vero, essi equivocano anche qui confondendo e facendo un tutt'uno dell'autentico insegnamento orale di Cristo e degli Apostoli -quello che noi chiamiamo appunto "sacra Tradizione.. - e le deliberazioni, disposizioni, pie pratiche,ecc., emanate dalla Chiesa nel corso dei secoli, per poi rigettare tutto in blocco come parola dell'uomo. Nell'opuscolo si fa perfino un elenco di 44 "Aggiunte dell'uomo alla parola di Dio", che non è altro che un coacervo di falsificazioni e confusioni storiche che solo gli ignoranti più grossolani possono credere.
     Quando i Cattolici parlano della Tradizione divina affiancandola alla Bibbia -quale parola di Dio non scritta alla parola di Dio scritta -, essi non intendono affatto includervi queste presunte innovazioni, lamentate nell'opuscolo, ma si riferiscono unicamente a ciò che accenna

     S.Paolo: "Vi raccomandiamo poi, fratelli, in nome di Nostro Signor Gesù Cristo, di tenervi lontani da qualunque fratello che viva ... non secondo le istruzioni che avete ricevute da noi" (II Tess.3:60); e con maggior precisione al 2:15 della medesima lettera; "Perciò, fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete apprese così dalla nostra parola come dalla nostra lettera".
     La "parola" quindi prima della "lettera"!
     Quando l'Apostolo scriveva - intorno al 53 - ai Galati, assai preoccupato che dei giudaizzanti si erano infiltrati in quella comunità: "Ma quand'anche io stesso o un angelo del cielo vi annunziasse un Vangelo diverso da quello da me predicato, sia scomunicato" (1:8), non alludeva a qualcuno dei quattro Vangeli, dei quali almeno tre non erano neppure ancora redatti, ma al suo insegnamento orale, che era anch'esso annunzio del Vangelo. Egli non aveva fatto che trasmettere (- paradidomi, da cui paradosis- tradizione in greco, e tradere in latino, da cui tradizione) quello che a sua volta egli aveva ricevuto: "Vi ho infatti trasmesso in primo luogo"..(I Cor.15:3).

     E' appunto di questa Tradizione - che non ha nulla a che vedere con la parola degli uomini -, trasmessa a viva voce da Cristo agli Apostoli e da questi parimenti a viva voce insegnata, che la Chiesa cattolica intende parlare e che i nostri fratelli evangelici irragionevolmente rigettano.
     Tale loro rifiuto appare ancor più ingiustificato se si pensa che Cristo non scrisse né ordinò di scrivere la sua dottrina, ma trasmise a viva voce il suo messaggio evangelico, tanto che S. Giovanni ha potuto affermare nel suo Vangelo: "Ci sono molte altre cose che ha fatto Gesù, le quali se fossero scritte ad una ad una, non so se il mondo stesso potrebbe contenere i libri che si dovrebbero scrivere" (21:25).

     Allorché gli Apostoli - dopo l'Ascensione - si sparsero tra le nazioni a predicarvi la parola di Dio, i Vangeli e gli altri scritti del Nuovo Testamento non esistevano ancora; si dovette aspettare dai venti ai sessant'anni prima che essi venissero tutti compilati.
     Anzi Paolo, Barnaba e undici dei dodici Apostoli erano già morti quando tra l'80 e il 100 Giovanni scrisse il suo Vangelo, nel quale - come sappiamo - si leggono cose che gli altri evangelisti non dicono ma che erano state predicate ovunque lo stesso, non certo per averle lette ma perchè apprese oralmente da Cristo. Da ciò risulta evidente che la parola di Dio trasmessa oralmente, cioè la Tradizione, ha preceduto nel tempo quella scritta, ossia il Nuovo Testamento, ed ha per conseguenza la stessa autorità! 
     Lo stesso elenco o Canone dei libri ispirati è alla Tradizione che noi possiamo attingerlo. I fratelli evangelici possono forse provare con la Bibbia che i loro 66 o 65 libri sacri siano ciascuno e in tutte le sue parti "parola di Dio? ". 

     Quanto ai tre passi biblici, citati nell'opuscolo, i primi due si riferiscono appunto alle tradizioni umane e quindi non riguardano affatto la Chiesa cattolica che dei libri sacri ha avuto sempre la massima venerazione. Il terzo ( ... se uno vi fa delle aggiunte... e se uno toglie qualcosa dalle parole di questo libro profetico, Dio toglierà la sua parte dell'albero della vita e dalla città santa..."(Apoc.22:18-19) riguarda chi falsifica l'Apocalisse. Estendendo tale minaccia in difesa di tutta la Scrittura, essa colpisce coloro che presero l'elenco dei libri ispirati dalle mani della Tradizione osando di toglierne arbitrariamente alcuni perchè non confacenti con le proprie opinioni e concezioni religiose.

Il Signore vi dia pace
Frà Tommaso Maria di Gesù
Frati minori rinnovati