6 febbraio 2016

Sette Beatitudini - Meditazioni sull’Apocalisse

Sette Beatitudini

Beato chi ascolta e mette in pratica

Continuiamo la nostra meditazione sull’Apocalisse richiamando sette versetti che costituiscono sette beatitudini.
La beatitudine è uno dei generi letterari caratteristici del Nuovo Testamento, ma lo si trova anche nell’Antico, ed ha un’importanza bella, profonda, basta pensare alle beatitudini del Vangelo di Matteo e alle due di Giovanni che abbiamo ricordato nella celebrazione Eucaristica.
Nell’Apocalisse ce ne sono sette; la prima è proprio all’inizio: «Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e mettono in pratica le cose che vi sono scritte. Perché il tempo è vicino» (Ap 1, 3).
Bisogna collocare questa beatitudine in un contesto liturgico: quando si dice Beato chi legge il riferimento immediato non è il lettore privato che in camera sua legge il libro dell’Apocalisse, ma è la lettura nell’assemblea cristiana, nella liturgia, perché sta scritto «Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole», c’è quindi un proclamatore e c’è un’assemblea che ascolta.
Naturalmente ascoltare non vuol dire ascoltare solo con gli orecchi, ma anche comprendere con la testa e cercare di aderire con il cuore. Infatti continua «beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e mettono in pratica le cose che vi sono scritte». Mettere in pratica è la traduzione del verbo «custodire», «conservare», dunque significa il compenetrarsi delle parole dell’Apocalisse, il vivere secondo quello che è scritto in questo libro.
Questa è la beatitudine della comunità cristiana, e non è strano, perché anche San Luca, nel Vangelo, dopo aver narrato la parabola del seminatore afferma:
««Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica (Lc 8, 21).
E più avanti, nel capitolo 11, c’è una beatitudine esplicita quando una donna si alza in mezzo alla folla e proclama:
«Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte! [Gesù] disse: Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11, 27-28).
Luca congiunge sempre queste due cose: ascoltare e osservare e anche l’Apocalisse fa questa unione.
Beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e mettono in pratica. Beato chi legge (il predicatore degli esercizi); beati coloro che ascoltano (voi) le parole di questa profezia, e mettono in pratica (voi, e anch’io spero) le cose che vi sono scritte. Il senso dell’Apocalisse sta in questa beatitudine
San Giovanni inoltre aggiunge una ragione: Perché il tempo è vicino. Il tempo della realizzazione di tutte le cose che abbiamo ascoltato non è così lontano da noi da non impegnarci. No! È vicino. Quella che abbiamo ascoltata è una parola che illumina il senso del tempo, il senso della nostra vita che ci pone di fronte al giudizio divino.
Allora è beata quella comunità che ricava da queste parole la regola della sua vita, vive secondo questa rivelazione del Signore, se ne lascia illuminare, guidare e correggere.

Beato chi muore nel Signore

La seconda beatitudine si trova al capitolo 14: «Poi udii una voce dal cielo che diceva: Scrivi: Beati d’ora in poi, i morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono» (Ap 14, 13).
È una rivelazione che viene dal cielo – quindi ha un’importanza grande –, viene pronunciata da una voce misteriosa – che rappresenta il cielo, Dio stesso – e proclama beati i morti che muoiono nel Signore, che sono stati fedeli ai suoi comandamenti, che hanno conservato la fede in Lui, che sono stati fedeli fino alla morte. Hanno subito la persecuzione, la tribolazione, gli assalti della bestia, le sue seduzioni, ma a tutte queste realtà hanno saputo rispondere con fedeltà.
Beati i morti che muoiono nel Signore. Morire nel Signore è come un sigillo dell’esistenza cristiana […] a quel punto la vita è in qualche modo finita, completa, sigillata e se il sigillo è posto nella fedeltà, è il sigillo della morte nel Signore. Noi viviamo nel Signore e speriamo proprio di poter morire nel Signore. Se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore.
Viene poi aggiunto un avverbio strano: «Beati d’ora in poi, i morti che muoiono nel Signore».
D’ora in poi vuol dire dopo la risurrezione di Gesù Cristo, e significa che l’esperienza della Pasqua di Gesù ci fa vedere la vita e la morte in un modo nuovo.
La morte ha naturalmente un aspetto traumatico inevitabile, perché è un distacco, è una sofferenza, ma, dopo la Pasqua di Gesù, la morte ha una speranza infinitamente più grande.
C’è qualcosa di tenebroso, di misterioso nella morte, di fronte alla quale l’intelligenza dell’uomo deve in qualche modo dichiarare il suo fallimento. La filosofia, con tutte le sue riflessioni, e la scienza con tutte le sue tecniche, non riescono a dissipare l’oscurità della morte, a renderla chiara e luminosa da capirla tutta: non si comprende proprio niente, nella morte!
La risurrezione del Signore però mette nella realtà della morte una luce di speranza, una forza di abbandono. Morire vuole dire addormentarsi nel Signore e questo significa non avere più il dominio della propria vita, non poterla più gestire come pare e piace; vuol dire affidare questo dominio al Signore, non nelle mani del nulla e nemmeno di una forza negativa… è quindi un addormentarsi che mantiene un aspetto di fiducia e di speranza.
Nell’Apocalisse abbiamo contemplato Cristo come Agnello sgozzato, ma ritto in piedi, vivente, come un vittorioso. Proprio Lui, l’Agnello, che ha conosciuto la morte, che era morto, ora vive nei secoli; proprio Lui illumina per noi il mistero tragico della morte: Beati d’ora in poi, i morti che muoiono nel Signore, hanno un fondamento di speranza che prima mancava, non era noto.
A questa beatitudine viene data un’approvazione dallo Spirito:
«Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono». La testimonianza di Dio, lo Spirito, conferma dentro al nostro cuore che la speranza della risurrezione non è illusione, ma ha un fondamento solido, per cui la morte viene davvero percepita, fin nell’interno del nostro cuore, in questa prospettiva di speranza: un riposo dalle fatiche. L’Apocalisse intende la fine delle tribolazioni e della persecuzione; non la fine nel senso che è cancellato tutto; qualcosa rimane e oltrepassa il cancello della morte. Che cosa? Le loro opere.
Quello che ci segue dopo la risurrezione non è la nostra intelligenza: se abbiamo 140 di quoziente di intelligenza, quando saremo di là non servirà
Quello che passa di là non è la carriera: se abbiamo raggiunto gradi di chissà quale carriera, non varrà quando saremo di là.
Così non vale il conto in banca, che pure non oltrepasserà la morte perché starà di qua.
Passano solo le vostre opere buone, la carità – direbbe San Paolo. Tutto il resto, anche le cose belle, rimangono di qua, perché di là c’è una teologia migliore di quella che studiamo qui. La nostra teologia è caduca, rimane solo per un po’ poi sparisce; la carità no, è eterna perché è legata profondamente all’amore di Dio.
L’amore che noi doniamo agli altri non è altro che l’Amore di Dio stesso che ci trasforma e ci orienta verso gli altri in questa direzione. Proprio perché è un amore che viene da Dio è eterno, ci segue, ci accompagna.
La veste di lino splendente della sposa – che abbiamo visto – sono le opere che noi possiamo lasciare trasformare dal Signore dentro alla nostra vita.
La prima beatitudine quindi è quella dell’ascolto; la seconda è quella della morte, del morire. C’è una beatitudine paradossalmente anche nel morire proprio perché è un morire nel Signore, non cancella tutto, ma custodisce quel bene che il Signore ha operato in noi e attraverso di noi.

Beato chi è vigilante

La terza beatitudine la incontriamo nel capitolo 16, tra la descrizione delle coppe, cioè degli ultimi flagelli, degli ultimi castighi:
«Ecco, io vengo come un ladro. Beato chi è vigilante e conserva le sue vesti per non andar nudo e lasciar vedere le sue vergogne» (Ap 16, 15).
Essa ha il suo fondamento nel Vangelo di Matteo ma si possono leggere tutti i brani ad esso paralleli:
«Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi state pronti, perché nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà» (Mt 24, 42-44).
L’esistenza cristiana è un’esistenza di vigilanza: è l’opposto di chi si addormenta, cioè di chi si lascia sommergere così tanto dalle cose e dalle esperienze da perdere la lucidità, la consapevolezza di quello che è, e di dove và.
Quando uno è ubriaco non si rende più conto esattamente del chi è, di dove è, dove sta andando. L’opposto del vigilare è l’addormentarsi o il diventare ubriachi.
La sobrietà e la vigilanza invece significano questo: pur vivendo quotidianamente le cose del mondo voi avete la mente e il cuore rivolto oltre le cose, rivolto alla venuta del Signore.
Sobrio, vigilante vuole dire anche che la nostra vita non si definisce solo con le cose che ci circondano, ma si definisce nel Signore che verrà.
Proprio perché dobbiamo essere vigilanti dobbiamo conservare le vesti per non andar nudo. Le vesti rappresentano le virtù, i comportamenti, le opere che scaturiscono dalla grazia del Signore. Dobbiamo quindi essere rivestiti di questa veste bianca e splendente che è la coerenza con il Vangelo, che è l’obbedienza al Signore, che è il fare quotidianamente la sua volontà.
Beato chi è invitato al banchetto di nozze
La quarta beatitudine è quella che conosciamo meglio: «Allora l’angelo mi disse: «Scrivi: Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell’Agnello!» (Ap 19, 9.).
Fa parte di quel canto di trionfo che precede l’annuncio immediato delle nozze dell’Agnello, e siccome la comunità cristiana è invitata a queste nozze escatologiche, è beata.
Nella concezione dell’Apocalisse – come abbiamo già ricordato – la storia umana termina nelle nozze, nell’intimità, nella comunione piena tra Dio e gli uomini. Il segno di queste nozze è il banchetto dell’Agnello con la sua sposa. Beati, allora coloro che sono invitati a queste nozze.
Sono le nozze della Gerusalemme celeste, ma possiamo dire che è il banchetto dell’Eucaristia. Giovanni, nel libro dell’Apocalisse, non si riferisce direttamente a questa, ma semplicemente al banchetto escatologico; l’Eucaristia è per noi l’anticipo della fine dei tempi; l’Eucaristia – dicono i teologi – è il tempo contratto cioè sintetizzato, riassunto.
C’è una antifona famosa di San Tommaso: «O sacro convito in cui viene assunto Cristo; si fa memoria della sua Passione, l’anima è ripiena di grazie e a noi viene dato il pegno della vita futura».
Comprende tutto il tempo: si fa memoria della sua passione, il passato è qui, nella passione del Signore; la mente viene riempita di grazia nel presente, ed è la comunione che facciamo; ci viene dato il pegno della gloria futura. La gloria futura è la comunione piena degli uomini tra di loro e con Dio. Che cosa è la comunione che facciamo, se non appunto l’unione nostra con il Signore, con Dio in Gesù Cristo?
Allora nell’Eucaristia c’è questa sintesi della storia; la storia del mondo è tutta lì, passato, presente e futuro. Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell’Agnello!
Il riposo dei giusti, non sarà allora solo un riposo, ma anche la partecipazione alla gioia del banchetto delle nozze dell’Agnello, quindi un riposo gioioso, di comunione tra noi e con il Signore.
A invitarci è Cristo stesso, quello che ha guadagnato, che ha imbandito questo banchetto di nozze con il dono della Sua vita; gli invitati sono i chiamati dal Signore.
Uniamo questo discorso con il precedente: morire vuole dire riposare nel Signore; morire vuol dire presentarsi davanti al Signore, con la ricchezza delle opere che abbiamo compiuto, che la grazia di Dio ha compiuto in noi; morire vuol dire partecipare al banchetto delle nozze dell’Agnello; quindi non è solo un riposo dalle tribolazioni ma anche l’inizio della comunione piena con il Signore. Di questo inizio abbiamo già una caparra, un pegno nell’Eucaristia.

Beato chi prende parte alla prima risurrezione

Quinta beatitudine – capitolo 20: «Beati e santi coloro che prendono parte alla prima risurrezione. Su di loro non ha potere la seconda morte, ma saranno sacerdoti di Dio e del Cristo e regneranno con lui per mille anni» (Ap 20, 6).
(È il famoso millennio che ha fatto tanto tribolare gli interpreti, che dà da fare anche oggi ai testimoni di Geova i quali su questo millennio ricamano molto…. ma ora non ci interessa).
San Giovanni distingue due risurrezioni: la seconda è quella finale dei cieli nuovi e terra nuova, ma prima di questa ce n’è una che si lega alla Pasqua del Signore, che è la trasformazione della storia operata dalla Pasqua del Signore.
Gesù Cristo è risorto, ma non solo Lui! Con la sua risurrezione crea delle cose nuove: il Battesimo ci fa rinascere, la vita cristiana è una nascita nuova e vuol dire che qualche cosa muore e qualche cosa risorge.
Quando San Paolo presenta la teologia del Battesimo dice: «O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6, 3-4.).
C’è una prima risurrezione che si lega all’esperienza della Pasqua di Gesù, allora beati e santi coloro che prendon parte alla prima risurrezione, allora beati voi che siete risorti con Cristo nel Battesimo, che avete preso parte a questo misterioso e straordinario rinnovamento del mondo.
Su di loro non ha potere la seconda morte. La prima morte è la morte fisica, quella al termine della nostra vita; la seconda è la morte eterna, è la dannazione; quindi non ha potere su di loro, su quelli che hanno preso parte alla prima Risurrezione, sui rinati, sui redenti.
Di conseguenza beati voi, perché è vero che dovrete sperimentare la morte naturale, ma non la seconda morte; questa ormai è stata sciolta, per quanto vi riguarda, a motivo del vostro battesimo, della vostra adesione a Cristo, e sarete sacerdoti di Dio e del Cristo e regnerete con lui per mille anni.
Dunque la vita cristiani vi rende un popolo sacerdotale, vi pone davanti a Dio nella possibilità di accostarvi a Lui con l’offerta della vostra vita. Avete accesso a Dio, non siete costretti a stare lontani, potete camminare fino verso il Santo dei Santi, fino dove c’è la presenza di Dio con l’offerta della vostra vita.
E regneranno con lui per mille anni, (questo naturalmente è un termine simbolico come molti dei numeri che troviamo nel libro dell’Apocalisse), significa che la regalità che voi esercitate – perché oltre ad essere un popolo sacerdotale voi siete un popolo regale – attraversa tutta la storia. La Chiesa dei redenti è una Chiesa regale, non è schiava del mondo, ma padrona, non è condizionabile da parte del mondo perché ha il Signore dentro di sé, ha la Parola di Dio come luce, quindi il mondo non la può sedurre, né trascinare dentro ad uno stile di vita antievangelico. Si intende, naturalmente la Chiesa nel suo complesso come mistero, perché tutte le nostre fragilità purtroppo ce le portiamo dietro, ma dobbiamo avere questa immagine della chiesa Santa, della sovranità.
Abbiamo la possibilità di regnare con Cristo per tutta la storia; essa non ci blocca, non ci può impedire di amare e di servire il Signore.
* * *

Domanda di una suora:

Da quanto ha detto, sembra che con il Battesimo noi siamo salvi dalla seconda morte, ma noi dopo il Battesimo possiamo opporci.

Risposta

È vero; rimane la possibilità dell’uomo di rifiutare, ma il discorso è che nel Battesimo c’è per voi – da parte di Dio – la volontà della vostra salvezza; avviene in qualche modo quello che dice San Paolo nella lettera ai Romani:
«Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati» (Rm 8, 28-30).
Si può obiettare dicendo che noi siamo chiamati, ma non siamo ancora glorificati; il progetto di Dio non è la sola chiamata, ma è la chiamata e la gloria insieme. Quando siete stati battezzati Dio vi ha fatti suoi figli per l’eternità; non c’è forza mondana che sia in grado di togliervi questo.
È vero che potete ripudiare il vostro battesimo, questo sta nella libertà dell’uomo, ma nel battesimo come vi è stato dato secondo la volontà di Dio, c’è la gloria.
Dio, per quanto lo riguarda, ha già deciso la vostra gloria. Voi potete dire di no perché la libertà ve la mantenete e Dio non ve la toglie, ma Lui ha già deciso la vostra gloria; non ha solo deciso l’inizio del cammino, ha deciso anche la fine, quindi, per quanto lo riguarda vi porterà fino alla gloria, se voi non siete così ostinati da rifiutare il Suo cammino.
Questo è sicuro. Non abbiamo la sicurezza di andare in paradiso, ma abbiamo la sicurezza che Dio vuole che ci andiamo, anzi che Dio ha operato tutto perché ci andiamo e allora si tratta di lasciarci guidare, portare, condurre, salvare, glorificare da Lui; si tratta di lasciare che l’opera del Signore si compia nella nostra vita.

Domanda:

Però quelli che non hanno il Battesimo sono figli di Dio ugualmente.

Risposta:

È un altro discorso e sono pienamente d’accordo. Che Dio poi voglia anche la salvezza dei non battezzati non c’è dubbio; ma quello che voglio dire è che, per quanto ci riguarda, il Battesimo per noi è questo.
Noi – secondo Baltasar – dobbiamo sperare nella salvezza per tutti gli uomini; questo è un precetto questo per il cristiano che non può desiderare di escludere qualcuno. San Paolo, nella lettera a Timoteo dice:
«Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tm 2, 4), quindi su questo non c’è dubbio.

Beato chi custodisce

Sesta beatitudine: «Ecco, io verrò presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro» (Ap 22, 7).
Questa beatitudine si collega alla prima. Non dice più «Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia» perché la lettura è già stata fatta.
All’inizio degli esercizi potevamo dire beato colui che predica e coloro che ascoltano, adesso ho predicato, voi avete ascoltato, perciò beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro, quindi beati voi se custodite nel vostro cuore le parole dell’Apocalisse (non le mie che contano poco), e le osservate attraverso la vostra vita.

Beato chi lava le sue vesti

Ultima beatitudine: «Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte della città» (Ap 22, 14).
È questa chiaramente un’allusione al battesimo: ripensate all’immagine degli eletti che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’agnello. Hanno già ricevuto la loro purificazione per il sangue dell’agnello, ma questa purificazione persiste, devono continuamente lavare le vesti, nel senso del trasformare continuamente la loro vita in una vita battesimale. Bisogna che il battesimo diventi l’anima, la regola dei nostri comportamenti, delle nostre scelte.
A questi viene fatta allora la promessa: avranno parte all’albero della vita – quindi avranno parte del paradiso, (si fa riferimento all’albero della vita che ritroviamo nel libro della Genesi (cfr. Gen 2, 9) da cui l’uomo è stato escluso a motivo del peccato) e potranno entrare per le porte della città quindi pensate al battesimo come porta d’accesso alla comunità del Signore, come ingresso nella Gerusalemme celeste: si tratta di poter partecipare alla redenzione operata da Cristo.

Un cammino di speranza

Abbiamo visto le sette beatitudini che potrebbero darci insieme il senso dell’Apocalisse.
Abbiamo detto varie volte che l’Apocalisse si presenta come un grande invito alla speranza.
Che cosa possiamo sperare? Abbiamo cercato la risposta nel capitolo 21 del libro dove notate che praticamente tutte le immagini che Giovanni adopera sono immagini dall’Antico Testamento: l’immagine della città, della tenda, della comunione di Dio con gli uomini, delle nozze dell’Agnello… quindi non fa altro che riprendere l’attesa profetica, soprattutto della seconda parte del profeta Isaia, ma un po’ di tutti i profeti.
Allora nasce una domanda: se Giovanni riprende l’Antico Testamento che cosa c’è di nuovo? Siamo nella condizione degli Ebrei? No c’è una cosa nuova, e grossa.
Faccio una piccola parentesi che fa parte della cultura: gli esperti distinguono alcune concezioni diverse della storia:
I greci avevano una concezione ciclica della storia: per loro era un cammino che ritorna su se stesso, così come la natura ripete gli stessi cicli, per cui la terra gira intorno al sole per 365 giorni, poi si ritrova al punto esatto di partenza e inizia un altro ciclo. Per i greci «non c’è niente di nuovo sotto il sole» (Qo 1, 9b ).
Per gli ebrei invece la storia è un cammino che ha un traguardo, quindi è una strada con una meta.
Quando il Signore chiama Abramo e gli dice di andarsene dalla sua terra verso una che Lui gli indicherà, Abramo se ne parte come gli aveva detto il Signore. Abramo quindi cammina, ma ha un traguardo, ha una meta che è la promessa di Dio, è questa promessa che lo ha messo in moto. Non si muove per la voglia di muoversi, ma perché gli è arrivata la parola di Dio che gli ha detto di andare verso quella meta, quel traguardo. È la promessa di Dio che lo fa partire.
La Chiesa, il popolo di Dio, si muove perché Dio ha messo davanti una promessa e deve camminare verso di lei. Tutta la concezione della storia ebraica è così.
Il cristiano, come l’ebreo, cammina verso un traguardo, ma noi cristiani abbiamo già visto questo traguardo in Gesù Cristo. Il traguardo è già entrato nella storia del mondo, il compimento è qui. Non lo aspettiamo tra 347 anni; lo aspettiamo per 347 anni o meglio per quando Dio vorrà; lo aspettiamo, è ancora futuro, ma è già presente, è già entrato nella nostra storia, lo abbiamo visto.
Il contenuto della nostra speranza non è ignoto, è Gesù Cristo. Noi speriamo in un mondo trasformato in Gesù Cristo. Ma quel Gesù Cristo che è la meta del mondo noi lo abbiamo già conosciuto.
Questo è il motivo per cui San Giovanni scrive: «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1 Gv 3, 1a).
Quindi non diventeremo Figli di Dio, ma lo siamo già.
«Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3, 2.).
Noi siamo figli di Dio, ma lo splendore del nostro essere suoi figli non è ancora rivelato del tutto: continuiamo a sperimentare la fragilità e la miseria della condizione mondana, quindi aspettiamo la rivelazione dei figli di Dio, la aspettiamo assieme a tutta la creazione «che geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» (Rm 8, 22). Aspettiamo quindi, ma quello che aspettiamo lo siamo già, il paradiso non sarà altro che la manifestazione di quella grazia che è già entrata nella nostra vita.
Voi siete figli, ma non è ancora rivelata la vostra identità di figli, non è ancora manifestata pienamente.
Pensate allora alle espressioni del vangelo di Giovanni:
«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna» (Gv 6, 54). Ha la vita, non ce l’avrà. Naturalmente dovrà riceverla, ma ce l’ha già.
«Chi crede nel Figlio ha la vita eterna» (Gv 3, 36a), cioè l’esperienza cristiana è già un anticipo del traguardo, della fine.
Questa è la differenza rispetto all’Antico Testamento.
Come nell’Antico Testamento noi aspettiamo la rivelazione di Dio, ma diversamente dall’Antico Testamento, noi questa rivelazione l’abbiamo già vista in Gesù Cristo.
Questo è il motivo per cui molte immagini dell’Apocalisse sono a due facce, perché sembra che descrivano il paradiso e nello stesso tempo la Chiesa attuale.
Nel capitolo 14 si parlava dei centoquarantaquattromila che recano sulla fronte il nome dell’Agnello, che cantano un cantico nuovo, che non sono contaminati con donne, che seguono l’Agnello dovunque va…. questa grande immagine a che cosa si riferisce? Alla Chiesa trionfante o alla Chiesa militante? Alla Chiesa del Paradiso o alla Chiesa sulla terra?
A tutte e due. È la Chiesa del Paradiso, trionfante, ma è anche la Chiesa attuale che porta i lineamenti di quella, perché il futuro è entrato nel presente. Non viviamo solo della speranza futura, ma viviamo di questa speranza realizzata oggi.
* * *
Domanda:
Diceva che la Gerusalemme celeste non è il traguardo del cammino dell’uomo, ma è un dono della grazia di Dio. Però questo cammino della storia, dove sono congiunti l’impegno dell’uomo e la grazia di Dio, lo si può definire un cammino progressivo verso la Gerusalemme celeste?

Risposta:

Si può definire così purché per progressivo non si intenda il modo geometrico e preciso di procedere. È un andare avanti sì, ma ci sono dei ritorni.
Non è che nel 1995 siamo più vicini alla Gerusalemme celeste che nel 1921. Dal punto di vista dell’opera di Dio non è che al progredire si aggiunga sempre qualche cosa: delle volte si aggiunge, delle volte si toglie; delle volte si sbaglia strada e si torna indietro ecc., quindi quello della storia umana è un cammino piuttosto tortuoso, non lineare. Io non sono sicuro che oggi nel mondo ci sia una quantità di carità più grande di quella di dieci anni fa; di questo non ho la garanzia. Debbo vivere nel cammino verso il futuro e lasciare a Dio di fare i bilanci perché non mi posso illudere di essere migliore dei miei padri.
I materiali di cui è fatta la Gerusalemme celeste siamo noi, con la nostra vita; la Gerusalemme celeste è grazia di Dio che prende quel materiale che siamo riusciti a costruire noi stessi, sempre con la Sua grazia.
La vita che viviamo sulla terra è straordinariamente importante per la costruzione della Gerusalemme celeste perché costituisce il materiale, le pietre, di cui la Gerusalemme celeste è costruita.
Ci possiamo porre allora l’ultima domanda: se questo è quello che noi speriamo, che cosa dobbiamo fare?
La risposta che dà tutto il Nuovo Testamento è: dobbiamo vivere alla luce di questa speranza, alla luce del futuro. Noi siamo, dice la prima lettera ai Tessalonicesi, figli della luce. Quello che Dio ci ha promesso ci plasma, ci deve costruire, per cui io spero nella Gerusalemme celeste, allora cammino verso di essa; siccome io spero in una comunione piena degli uomini con Dio e tra di loro, quello che debbo realizzare è questa comunione.
La Gerusalemme celeste è la regola del nostro comportamento, è quello che dobbiamo cercare di costruire sapendo che non arriveremo a lei con le nostre forze, siamo infatti consapevoli di tutti i limiti che segnano la nostra vita e la storia degli uomini, però è lì che il Signore ci chiama. Essa è la nostra speranza effettiva, concreta, perché la garanzia della speranza ci è data in Gesù Cristo, nella Parola di Dio, nella Chiesa, e ci è data in modo particolarissimo in Maria.

Maria, segno di perfetta speranza

Maria è praticamente presente in tutta l’Apocalisse, anche se non se ne parla direttamente, se si esclude il capitolo 12 dove si cita «una donna vestita di sole» (Ap 12, 1a) che gli esegeti vorrebbero riferire in prime istanza alla comunità del popolo di Dio.
Però proprio perché si parla della Chiesa e della Chiesa perfetta, senza macchia, né ruga, si parla esattamente di Maria, infatti nella fede cristiana Essa è la realizzazione perfetta della Chiesa, è come la sua punta di diamante, è il frutto pieno della redenzione. Quello che Cristo ha compiuto lo compie in tutta la Chiesa, ma lo compie in modo perfetto in Maria, in modo che Lei sia per noi un segno di perfetta speranza, cioè la garanzia che anche ad una persona umana – perché Lei è persona umana – il dono della redenzione è fatto in modo pieno, senza ostacoli o ombre o riserve.
Di conseguenza, tutto quello che abbiamo letto della Chiesa perfetta lo vediamo realizzato in Maria, come donna vestita di sole, come comunità trasfigurata dalla gloria del Signore, che è pienamente glorificata in questo e sta davanti a noi come segno di perfetta speranza.
* * *
Se volete riassumere le cose che dobbiamo fare, le potreste sintetizzare in due termini che sono importanti nell’Apocalisse: la costanza e la testimonianza.
La costanza è la capacità di portare il peso del tempo, quindi di rimanere fedeli, di perseverare in mezzo alle tribolazioni in modo che non diminuiscano il fervore.
Credo che di costanza ne abbiamo un bisogno immenso, perché tipica dell’uomo è l’incostanza. Prendere delle decisioni che durino per tutta la vita sembra impossibile all’uomo di oggi.
La costanza vuol proprio dire questo: un dono è irrevocabile. Ci sarà da lottare, da faticare, ma bisogna cercare di rimanere in questa scelta di dono e di amore.
La testimonianza è fondamentale nella vita della Chiesa; essa è nel mondo non per sé, ma per il mondo intero, che deve viverla. Il vero testimone – lo abbiamo detto – è Gesù Cristo, si tratta di vivere dilatando la testimonianza di Gesù Cristo nella nostra vita, nella nostra esperienza.
A conclusione vi leggo l’epilogo del libro dell’Apocalisse:
«Dichiaro a chiunque ascolta le parole profetiche di questo libro: a chi vi aggiungerà qualche cosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; e chi toglierà qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro. Colui che attesta queste cose dice: «Sì, verrò presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù. La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Amen!» (Ap 22, 18-21).

http://www.cistercensi.info/monari/1995/m19950708a.htm