2 febbraio 2016


di P. Ottavio De Bertolis

Quest’espressione è certamente molto bella: si potrebbe dire che è presente in tutte le Scritture, poiché il compimento della Rivelazione è proprio donarci un cuore nuovo. Lo Spirito Santo, profetizzato in Ezechiele, ne è l’Autore, insieme al Padre che ce lo promette (“toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne”) e al Figlio, che ce lo dona dalla croce (“spirò”, cioè, appunto, emise il suo spirito, come all’inizio della creazione per quella nuova creazione che è la Redenzione). Si può dire che tutta la Trinità desidera compiere in noi questa sua santissima volontà, e che la Chiesa stessa, e dunque ognuno di noi, dovrebbe esserne in qualche modo “segno e sacramento” in questo mondo. Cioè che la gente dovrebbe vedere in noi questo cuore nuovo per essere rigenerati anche loro in questo mistero: “verranno molti popoli e diranno: venite, saliamo al monte del Signore”. Una prospettiva bellissima, esaltante. Ma che cosa vuol dire? Intendo dire: che cosa vuol dire davvero, e non solo superficialmente. 
Uno potrebbe dire che avere un cuore nuovo, o “rinascere dall’alto” che è poi lo stesso, significa essere così completamente rinnovati da non conoscere più il male: un cuore nuovo, infatti, è un cuore che non conosce le ambiguità, le contraddizioni, le tenebre stesse che sono insite in noi. “Più fallace di ogni altra cosa è il cuore dell’uomo, e difficilmente guaribile”, dice la Scrittura. Dunque un cuore nuovo significa un cuore guarito, risanato. Finalmente liberato. L’idea è meravigliosa, ma certo non si è visto nessuno così trasfigurato. I sacramenti ci danno un cuore nuovo, ma certo che questo frutto non sembra essere così evidente: abbiamo ricevuto lo Spirito Santo nella cresima, ad esempio, e proprio lì noi diciamo – e deve essere pur vero in qualche modo – che si adempie la promessa di uno spirito nuovo in noi, e così il battesimo è quell’acqua pura che ci purifica dalle nostre sozzure e da tutti i nostri idoli, e così tutti i sacramenti, poiché non c’è uno solo di essi che non realizzi il dono dello Spirito santo, l’Autore del cuore nuovo. Ma pare di rimanere con uno spirito vecchio, un cuore vecchio, con le opere vecchie, non è vero? E allora, che cosa pensare? Dio ci ha ingannato? Le sue parole sono esagerate, un po’ iperboliche? In realtà non è vero? D’altra parte, al termine di questo incontro sul cuore nuovo, avremo noi quello di cui abbiamo parlato? Evidentemente non è in questo senso che si deve parlare di cuore nuovo. L’evidenza dei fatti è troppo forte. E allora, visto che la parola di Dio non può ingannare né ingannarsi, cerchiamo altri percorsi, per credere non in miti, ma nella sua verità. Semplicemente, per imparare a capire che cosa la Parola vuol dire sul serio. 
E allora possiamo pensare che un cuore nuovo significhi un cuore la cui giustizia sia superiore a quella degli scribi e dei farisei, secondo le parole stesse di Gesù. Possiamo pensare che con questo Gesù ci indichi un’osservanza più rigorosa, più attenta, più impegnata della legge evangelica, che è del resto la legge nuova, quella propria di un cuore nuovo. Se già scribi e farisei, secondo l’osservanza mosaica, dovevano osservare molte leggi e norme per compiacere il buon Dio, così noi. Un cuore nuovo potrebbe significare per alcuni passare dalla messa settimanale alla messa più frequente, quotidiana, in un certo senso passare dalla tiepidezza al fervore; da un Rosario, a tre; dai pasti normali ai frequenti digiuni. Sono esempi banali, e forse un poco paradossali, ma credo che tra i buoni fedeli non siano così rari. In fondo, è l’idea un po’ semplice che però ci è stata spesso inculcata: se faccio il minimo, tipo messa domenicale e confessione annuale, il Signore mi promuove con il sei, se faccio un po’ di più, col sette, fino al dieci se mi faccio prete o suora. In fondo, questa è la mentalità implicita quando sentiamo dire: faccio un percorso di fede, o gli esercizi spirituali, o anche mi sono iscritto all’AdP. Voglio cioè iniziare un cammino serio di vita cristiana per arrivare a essere un uomo nuovo, a vivere con un cuore nuovo. Il cuore nuovo è il premio di tutto ciò. E’ alla fine del percorso, come dopo tanti esami viene la laurea. Naturalmente, alla fine di tutti questi percorsi, da noi fatti con tanta onestà e sincerità e buona volontà, il cuore nuovo non è arrivato. Anzi, a dire il vero, abbiamo sperimentato tutti che siamo diventati peggio di prima. In realtà, non è che siamo peggio di prima: solo che proprio la bontà del nostro cammino di fede ha fatto emergere la verità di noi stessi, il cuore vecchio. E allora, a che gioco giochiamo? Questo cuore nuovo, che cos’è? Quando arriva? Devo aspettare l’altro mondo, i cieli nuovi e la terra nuova? Devo fare lo slalom quotidiano tra una miriade di devozioni, moltiplicare le osservanze e le opere buone? Insomma, questo cuore nuovo sembra come l’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. 

          Per capire che cosa significhi un cuore nuovo, vorrei partire da due pagine del Vangelo, che ci fanno contemplare il Cuore di Cristo, poiché è indubbio che il cuore nuovo sia in Lui, sia Lui stesso: soltanto Lui può dire in verità di amare il Signore suo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, soltanto nell’uomo Gesù si adempie la Scrittura del Deuteronomio ora ricordata, la preghiera quotidiana del buon ebreo. E Gesù era ebreo, la cosa non va dimenticata, ed era anche uomo: Lui stesso è il compimento delle profezie che annunciano il cuore nuovo.
La prima pagina che vorrei ricordare è il ritrovamento di Gesù al tempo. Qui Gesù è dodicenne: diventa bar-mitzvà, figlio dell’alleanza, può leggere le scritture nella sinagoga. Diventa adulto. Vorrei sottolineare la sua età: dodicenne, l’età in cui il bambino si apre alla comprensione del mondo, e di se stesso nel mondo, la pubertà, la maturità affettiva, l’inizio della vita vera da adulto, anche dal punto di vista fisico. L’uomo, l’ebreo, Gesù scopre una relazione con Dio che va al di là di quello stabilito dalla sua stessa tradizione religiosa, dalla Rivelazione per come l’aveva conosciuta. L’Antico Testamento declina il rapporto tra l’uomo e Dio nella forma dell’obbedienza, del servizio, e il codice di comportamento è, appunto, la legge, l’alleanza di Mosè. La legge diventa quindi il mezzo attraverso il quale si stabilisce la relazione con Dio. Beato l’uomo che cammina nella legge del Signore, dice il primo salmo, e innumerevoli sono i punti nei quali si esalta e si celebra la Legge. Dio è il Signore della Legge, colui che l’ha posta, è “normale” pensare che un buon fedele debba obbedire alla Legge, mettere in pratica i comandamenti. Così la sua famiglia, Giuseppe e Maria, da buoni ebrei osservanti, compiono il loro pellegrinaggio annuale a Gerusalemme, insieme a tutta la carovana di parenti e amici. E Gesù con loro, impara ad osservare la Legge del Signore.
 Ma questo è ancora, appunto, il “cuore vecchio”; la novità cominciamo a intravvederla nella risposta data da Gesù alla Madre: devo essere nelle cose del Padre mio. Tutti i Vangeli, specialmente quello di Giovanni, mostrano l’intima relazione tra Gesù e Dio, il Padre suo, ma qui è come riassunta e condensata. Innanzi tutto, lo chiama padre; e chiamare uno padre significa avere la percezione di sé come figlio. Gesù, che dice di non chiamare nessuno padre sulla terra, chiama Dio così, mostrando che solo a Dio conviene davvero questo nome. Ricordate Giovanni: Ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro. Del resto, la preghiera stessa di Gesù, che ci insegna: Padre nostro. Così ascende al Padre suo e nostro, Dio suo e nostro, allargando a noi quel rapporto con Dio che vive Lui, le modalità di quella relazione che Lui stesso, e solo Lui, vive con il Padre. Paolo dirà la stessa cosa dicendo che siamo “figli adottivi”, cioè non per natura, come il Figlio, come Gesù. Ma possiamo considerarci così, anche se sembra strano. La stranezza è appunto la novità di questo.
Forse non siamo abituati a rifletterci, perché naturalmente sappiamo che Gesù è anche Dio; però dobbiamo ricordare che è ugualmente anche uomo, e nella sua umanità vediamo appunto quell’umanità nuova che Dio Padre ha voluto creare. Gesù infatti è il nuovo Adamo, come Maria è la nuova Eva. Qui la parola umanità non significa l’insieme di tutti gli uomini, ma l’essere uomo di ciascuno. Ecco perché sottolineo che l’uomo Gesù scopre che il rapporto con Dio non è mediato dalla legge, ma dall’amore. Dio non è innanzi tutto “colui che pone le regole”, e dunque colui che le tutela con la sua onnipotenza, e che quindi giudica la loro osservanza. Ribadisco che, per un ebreo quale Gesù era, tutto questo non è affatto scontato, ma un capovolgimento delle cose, una bestemmia rispetto a tutto quello che Mosè si era sforzato di insegnare, e non per nulla Gesù morirà con la pena riservata ai bestemmiatori. Giovanni dirà che la legge è stata data per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. L’evangelista sottolinea che la legge è una grazia; un dono grande infatti è la conoscenza della legge del Signore, ma questa, dirà Paolo, non può giustificarci, cioè renderci giusti, perché al contrario mostra la nostra incapacità ad osservare quel che prescrive, a fare quel che comanda e ad evitare quel che vieta. Così, come sapete, dalla Legge non sarà mai giustificato nessuno. Abbiamo ricevuto una nuova grazia al posto di quella vecchia: l’amore con il quale Dio ha amato Gesù, lo ha dato anche a noi. Dio Padre di Gesù è l’Autore e l’ideatore di tutto questo, e Gesù lo ha realizzato: donandocelo, ne è rimasto senza: Getsemani, l’abbandono sulla Croce. 
Gesù scopre che Dio si può chiamare padre perché lo è; anzi, lo è solo Lui, tanto che è bene non chiamare nessuno padre su questa terra, perché potremmo fare confusione. Per l’uomo infatti il padre è la figura dell’autorità: così è dal padre che impariamo le regole, è il padre che tiene la disciplina quando i figli sono ancora piccoli, cioè quando non sono adulti. Disgraziatamente il padre per gli uomini, sia esso il padre naturale o il padre superiore o il padre spirituale o il capufficio, spesso diventa un padrone che impedisce di crescere: così Paolo osserva che la legge è necessaria, ma è come un pedagogo, noi diremo una maestra, ma le maestre vanno bene fino a quando si è bambini. Quando siamo adulti, non abbiamo più bisogno della maestra, e così Gesù dirà di non chiamare nessuno neanche maestro, perché Uno solo lo è davvero, e così nemmeno della legge, perché diventiamo liberi: la Legge è infatti una regola che ci tiene vincolati, in un tipo di minorità spirituale che va oltre l’età anagrafica. Così il rischio per le persone pie è di osservare le regole, ma senza averne introiettato il significato, cioè senza essere cresciuti; ci si può limitare ad una sterile osservanza senza avere imparato ad amare. Così erano i farisei, appunto, ottime persone, ma incapaci di compassione, così era la Sinagoga, simboleggiata da Simeone ed Anna: avanzati negli anni, vecchi come il testamento o alleanza di cui vivevano, ma sterili, senza figli, senza futuro. 
Gesù è venuto a svellere alla radice la possibilità di tutto questo, proprio perché Lui è il cuore nuovo, l’uomo nuovo che ci dona un modo nuovo di rapportarci a Dio. Scopre che tutti gli aggettivi che nei profeti, nei salmi e nella legge di Mosè si trovano riferiti a Dio si possono sintetizzare in un solo sostantivo: papà. Perché il papà libera, salva, dà la vita, protegge, difende, solleva, e tutto quanto è narrato nell’Antico testamento. Gesù lo capisce per sé, come riferito a Lui stesso, e in ciò mi pare scorgere l’emergere nella sua coscienza della stessa filiazione divina, della sua vera natura, di chi Lui era davvero, e non a caso avviene da dodicenne. L’età in cui si scopre l’amore Lui scopre il vero amore della sua vita, Lui scopre il Padre per cui vive, che mostrerà in tutto ciò che dice, in tutto ciò che fa, nella sua stessa divina persona, nel suo corpo fisico. In Cristo si adempie quel che Giovanni insegna: noi amiamo perché Lui ci ha amato per primo. Grande verità, anche psicologica: un bambino impara ad amare se ha scoperto di essere amato, cioè di valere agli occhi di qualcuno. Così se non siamo stati amati, cioè se ci siamo sentiti, in tutto o in parte, un peso, per il padre ( o la madre), se ci siamo sentiti solo oggetti di proiezioni dei desideri dei nostri genitori, cioè se non ci siamo sentiti accolti per quel che eravamo, senza se e senza ma, non impareremo ad amare, che è accogliere gli altri senza se e senza ma, così come sono e non come dovrebbero essere. Quest’esperienza tra gli uomini è abbastanza rara, e per questo gli uomini fanno fatica ad amare: preferiscono mettere regole, la qual cosa garantisce la possibilità di una giusta convivenza, ma tra estranei, non tra fratelli. Perciò Dio è intervenuto, e questa è la redenzione, il mostrarci qualcosa che non ci aspettavamo, e che ci può anche parere ingiusta: così il Dio di Gesù Cristo è molto diverso da quello degli uomini, per quanto gli uomini, i filosofi, i giuristi, i teologi e i moralisti siano importanti. Ma anche loro, se vogliono sapere qualcosa di vero su Dio, devono guardare Gesù, e non i loro ragionamenti: chi vede me vede il Padre. Così Pietro fu rimproverato perché non pensava secondo Dio, ma secondo gli uomini. 
Così è molto umana l’idea di Dio dell’Antico testamento: non che le sue innumerevoli pagine non siano magnifiche, e non mostrino concetti più ampi e profondi, ma è innegabile che comunque Dio è l’Autore della Legge. Dunque è a causa sua che ci sono giusti ed empi, puri e impuri, ebrei e pagani, vicini e lontani: la legge infatti è un confine. Non crea comunione, sottolinea la proprietà di ciascuno. Così non saremo mai vicini in base alla legge: non a Dio, perché mostra solo la nostra incapacità di osservarla, non tra di noi, perché in base ad essa ci sono i vicini e i lontani, i giusti e gli empi, i cattolici e i pagani, o laici, e tra i cattolici ci sono quelli fedeli e quelli meno fedeli, eccetera eccetera. In fondo, si odia in nome di Dio, cioè della legge. Che è un controsenso, la vera bestemmia. Gesù togliendo la legge, cioè superandola, ha oltrepassato tutto questo. Ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani, siete divenuti i vicini, grazie al sangue di Cristo: Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, facendo la pace, per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, distruggendo in se stesso l’inimicizia. Il colpo di lancia, il Cuore di Cristo: da tutti inferto, per tutti apre la compassione di Dio. 

La seconda pagina che vorrei riprendere è quella del battesimo di Gesù, che in fondo facciamo fatica a capire: perché un battesimo per il Cristo? Questa difficoltà è comprensibile solo quando confondiamo il nostro Battesimo con quello del Battista. In ogni caso, Gesù da che cosa doveva essere purificato o lavato? Chiaramente, da niente: e allora perché si fa battezzare? 
Per comprendere il senso di tutto questo dobbiamo innanzitutto comprendere come Gesù si mescola con la folla di peccatori che stanno attorno e accanto a Lui: condivide con noi perfino la penitenza, il nostro bisogno di ritornare a Dio. Come a otto giorni condivide la fede del suo popolo facendosi circoncidere, entrando così nell’alleanza di Abramo, Lui che era prima di Abramo, così entra nel bisogno di tutto di ritornare a Dio. Lui che è Dio è anche vero uomo: in quanto vero uomo, prende su di sé il bisogno dell’uomo di ritornare a Dio. Lui lo riconduce: Lui è il capo che porta tutto il suo corpo alla perfezione, dirà san Paolo. Colui che non ha conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore: questo è certamente vero in Getsemani, dove sperimentò l’abbandono e la lontananza di Dio, frutti amari propri del peccato, ma è anticipato nel battesimo. Dobbiamo infatti ricordare che nella Passione è scritto, per così dire a lettere grandi, anzi cubitali, quel che è già scritto prima, nella vita pubblica e in tutta la sua vita, ma a lettere più piccole, quasi minuscole. 
Ma il senso più profondo del Battesimo sta nella rivelazione della Trinità, del rapporto cioè che unisce il Padre al Figlio, e il Figlio al Padre. L’immagine stupenda dei cieli che si aprono mostra il disvelarsi del mistero di Dio, quel mistero che a noi resta sempre chiuso, come i cieli appunto sono chiusi: quei cieli sono anche la coscienza stessa di Gesù come uomo, che si apre a un’esperienza unica. Dio infatti si rivela a Lui come Abbà, padre, ponendo in lui la sua compiacenza. Dio si compiace di Gesù, che si comprende non come sue servo, parola tipica dell’Antico Testamento, come Mosè o i profeti, la lode più grande per un uomo di Dio, ma come figlio. Gesù scopre che Dio si compiace in Lui, è contento di Lui: Dio non gli dà una legge, ma solamente la sua gioia, il suo essere contento di Lui. Naturalmente uno potrebbe dire che è logico, essendo Lui Dio come Dio stesso. Ma il punto qualificante è che quel che Lui è lo dona appunto a noi. Quello Spirito che scende sul Figlio è lo stesso Spirito che scende su di noi: qui trovano compimento le profezie antiche, Ezechiele che abbiamo ricordato e anche molti altri, perché Lui dona a noi quello Spirito, cioè la possibilità stessa a noi di dire, per partecipazione e non per natura, Abbà, padre, a Dio. 
Perché Dio si rivela a noi come Padre di Gesù e Padre nostro, Dio suo e Dio nostro. Il che significa che Dio si compiace di me: in questa sua compiacenza c’è la totalità del suo “eccomi” a me, prima ancora che del mio “eccomi” a Lui. Compiacendosi in Gesù, Dio si compiace nell’uomo, in ogni uomo e in tutti gli uomini. Questa è la remissione dei peccati, che non è dunque, come ingenuamente ci raffiguriamo, una specie di cancellatura alla lavagna del buon Dio delle nostre piccole marachelle, ma la vicinanza definitiva e totale, senza se e senza ma, di Dio a noi. 
E perciò Gesù risponde il suo “eccomi” a Lui, quell’eccome che abbiamo visto in lui dodicenne: si può dire eccomi non per dovere, come noi facciamo spesso, perché è giusto, perché è doveroso, o semplicemente perché ce lo comanda uno che ci può costringere o punire. Si può dire “eccomi” per la gioia di essere amati, e con quella totalità e libertà che nasce dall’amore e che conduce all’amore. Ecco perché lo Spirito che scende su Gesù lo consacra, lo unge appunto per la sua missione: il suo battesimo è la sua consacrazione per la missione che va a compiere. Per loro consacro me stesso, dirà nella sua Passione, ma prima di quella era già scritta, a lettere piccole, nel suo battesimo, e nel ritrovamento al tempio. E prima ancora, fin dall’inizio. 
Gesù ci rende partecipi di questa consacrazione, ci apre la possibilità di conoscere, amare e volere noi stessi come Dio, il Padre, ci conosce, ci ama e ci vuole: e questo è precisamente quel cuore nuovo che è venuto a portarci, un cuore libero dalla paura di Dio, ma anche dalla paura o diffidenza o rancore verso noi stessi, per quel che siamo o per quello che non riusciamo ad essere. Se il Padre stesso si compiace di noi, noi possiamo amarci come Lui ci ama. E’ questa l’esperienza fondamentale della vita di ognuno di noi, la risposta al bisogno di essere amati, che è ciò che più profondamente cerchiamo. E questo non ci è dato per crogiolarci, o solo per consolarci. Di qui infatti nasce la capacità di amare: come dicevo prima, Giovanni sapientemente ci insegna che “noi amiamo perché Lui ci ha amato per primo”. Infatti di qui “se lui ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri”: di nuovo, non per un dovere, un imperativo morale, ma semplicemente perché chi sa di essere perdonato e accolto così come è da chi è più grande di Lui, perdona e accoglie anche lui quelli che sa che sono come lui. E’ il senso di tante parole di Gesù: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, o della parabola dei due servi ai quali il padrone condonò uno diecimila talenti e l’altro cento denari. 
Possiamo conoscerci e amarci noi stessi, e gli uni gli altri, come Lui ci conosce e ci ama: chi vede Gesù vede il Padre. Nello sguardo compassionevole di Gesù sulla croce, in quel mare di meschinità e di profonda ingiustizia in cui il Figlio è stato buttato fuori, può riconoscere qualcosa di più grande e di più bello. Possiamo amare umilmente noi stessi, e tutti gli altri, in quello stesso sguardo di Gesù su di noi. Lo stesso sguardo che ebbe su Pietro quando lo fissò, dopo che il gallo ebbe cantato. In fondo proprio qui sta la santità, quella che Lui è venuto a portarci: nell’abbandonare ogni ostilità, ogni inimicizia, verso Dio, visto come nemico o estraneo o in qualche modo potenzialmente pericoloso, verso noi stessi, perché non siamo o riusciamo a fare o abbiamo fatto quel che avremmo voluto o dovuto, verso gli altri, perché sono quello che sono. Sopra la tempesta dei nostri conflitti scendono le parole del perdono di Gesù. E questa è la nostra pace, il cuore nuovo, l’uomo nuovo che Lui è venuto a portare. 
E di qui nasce anche il nostro “sì”, o “eccomi” a quel che Dio vuole fare di noi: ci vogliamo come Dio ci vuole, cioè non solo facciamo pace con noi stessi perché Lui si rivela a noi padre che di noi si compiace, e ci amiamo come Lui ci ama, ma anche, proprio per questo, ci fidiamo di Lui, offrendo a Dio non cose, azioni, osservanze, come l’antica legge chiedeva, ma noi stessi, la nostra vita. Che è molto di più. Per questo Gesù dice che non è venuto ad abolire la legge, ma a dare compimento. Il cuore nuovo compie opere nuove, le quali non sono un “fare di più”, ma un amare di più. Che ci porta a scegliere e desiderare per noi quel che Gesù ha scelto e desiderato. Essere servi. Bella parola, ma che pochi vogliono sul serio, perché noi in realtà vorremmo piuttosto essere serviti.
 E così Gesù nel battesimo, pieno dello Spirito di Dio, conosce, comprende e desidera per sé quello che ha conosciuto piacere a Dio: lo vediamo nelle righe seguenti, dove, condotto dallo Spirito, affronta il demonio. 

Un cuore nuovo è appunto un cuore che, liberato dalla paura di Dio, di se stesso e degli altri, sceglie e desidera per sé quel che Cristo stesso ha scelto e desiderato, di vivere appunto in questa libertà. E’ il senso delle parole di Paolo: “non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito di figli adottivi per mezzo del quale gridiamo Abbà, Padre”. La scoperta della paternità di Dio, una paternità diversa da tutte le altre, è anche la scoperta della fraternità, di un modo di vivere i rapporti umani non da nemici, ma da persone che, anche se non si sono scelte, appunto come i fratelli che non si scelgono ma si trovano, possono stare insieme perché messi l’uno accanto all’altro da un terzo, che li costituisce tali, cioè fratelli, proprio perché Lui è padre. Il che significa che ognuno sperimenta che, come lui stesso è stato accolto così come è da Dio, può lui a sua volta accogliere gli altri così come sono. Insomma, la misericordia che abbiamo riconosciuto ci rende misericordiosi, attiva in noi un modo diverso di vivere. Ecco perché le parole di Giovanni: “Abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” non sono affatto ovvie, e men che meno per un ebreo, una persona religiosa dominata dalla legge, perché gli sarebbe venuto molto più semplice riconoscere e credere alla Legge del Signore, cioè al dovere e quindi alla colpa. 
Un cuore nuovo, mosso dallo Spirito, vive in se stesso quel che Gesù ha vissuto e compreso. Così Gesù nel deserto rifiuta la prospettiva di salvare il mondo mediante il suo successo personale. Così il Figlio dell’uomo deve soffrire ed essere consegnato agli empi. Sono persuaso che il demonio non avrebbe avuto niente da eccepire se Gesù avesse voluto salvare il mondo, ma solo gli obiettasse almeno di salvaguardare la sua dignità. Se sei figlio di Dio è giusto che tutti ti riconoscano come tale, che tu riceva la lode dovuta, che i tuoi successi confermino che sei mandato da Lui. In fondo, è umano pensare che Dio assista e sostenga, donando vittoria e grandezza, chi lo serve. E chi lo ha servito con tutto il cuore, l’anima e le forze se non Gesù stesso? E’ la domanda degli empi. “Se è figlio di Dio, Lui lo salverà”. Perché per l’Antico testamento il Messia è uno che vince, non uno che perde. E se ci pensiamo, tutto questo ha una profonda logica, anche religiosa. Orbene, Gesù ci mette davanti una strada diversa: essere ultimi, anziché primi, anche se avremmo tutte le ragioni per pretendere di essere tali. La strada che Lui propone è quella dell’umiltà, che non significa altro che rinunciare a quel che di diritto ci spetterebbe. L’umiltà infatti non è il semplice servizio: tanti vogliono servire, ma pochi sono disposti a non vedersi riconoscere nemmeno quanto fatto, il loro stesso generoso servizio. In fondo, chi di noi è disposto a non ricevere nemmeno un grazie? 
«Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». Sono parole a noi molto familiari, diventate quasi degli slogan nel mondo ecclesiastico; le cantiamo nelle liturgie e ci sentiamo buoni quando le diciamo. E così anche per queste accade, come del resto per le altre parole, che più sono ripetute e meno si comprendono in quel che dicono o intendono dire davvero, cioè sul serio, e se ne sente meno il vero mordente. Con il risultato che tutti diciamo che, se comandiamo, è per servire, e che tutto quel che facciamo è, appunto, per servire, o che il servizio è la stessa polare del nostro agire di ogni giorno. Ma servire chi? Cristo Signore o noi stessi, i nostri progetti, le nostre ambizioni, i nostri propositi? Serviamo gli altri, o ci serviamo degli altri? Serviamo Dio, o usiamo Lui per i nostri scopi? Viviamo, lavoriamo, ci impegnamo ad maiorem Dei gloriam, o ad maiorem mei gloriam? 
Ci si dimentica spesso che essere ultimo, vuol dire, appunto, essere ultimo: cioè che ti passano davanti tutti, ma proprio tutti. Il che significa: non solo quelli bravi, quelli che meritano di passarti 
avanti, quelli ai quali tu sei disposto a cedere volentieri il posto, ma anche quelli che non lo meritano, gli incapaci, i mediocri, i raccomandati. Noi non siamo così spocchiosi o arroganti da volere occupare il primo posto, siamo ben disposti a riconoscere che altri se lo meritano di più. E fin qui va bene, è giusto. Ma non possiamo stravolgere la realtà in modo tale da persuaderci che il nostro posto sarebbe proprio l’ultimo: questo sì che fa problema. Essere ultimo, cioè in secondo ordine, rispetto a chi non si merita affatto di essere primo? Devo essere il servitore anche di questi? Ultimo anche rispetto a questi? 
Di più: ti passano davanti i disonesti, quelli dei quali si parla nella prima lettura, che mettono alla prova l’onestà del giusto con violenze di vario genere, fisiche, morali o psicologiche. Forse che tutto questo non è moneta corrente nella vita di ogni giorno? Forse che non ci è già successo, o abbiamo visto accadere a qualcuno, in qualche modo, di essere stati condannati ad una morte infame? In senso morale, naturalmente, non necessariamente fisico: morti, cioè tolti di mezzo, messi da parte, sorpassati da persone senza scrupoli. E, per giunta, privi di quell’onore, di quella lode, di quel riconoscimento che sarebbe stato giusto che ci venisse dato. Quante volte le persone oneste e capaci, quelle che appunto la scrittura chiama «giusti», sperimentano questo. Allora, vale la pena continuare in una rettitudine che nessuno apprezza? E che Dio sembra non ricompensare, almeno sul momento? 
E’ vero quel che dice Giacomo, nella sua lettera: «uccidete, siete invidiosi e non riuscite ad ottenere; combattete e fate guerra». Sembra una cronaca di qualche ufficio o di molti lavori quotidiani in molti ambienti: uccidere, infatti, significa mors tua vita mea, anche quando non giunge alla morte fisica, cioè abbassare te per innalzare me, appunto per invidia, cioè perché penso che quello che hai tu in realtà spetti a me, e che mi sia stato rubato per qualche ingiusto motivo. Ti penso come un rivale, un nemico, della mia carriera, del mio ruolo, dei miei affetti, anche se non lo sei. Pochi si confessano d’invidia, e generalmente è mal compresa: in realtà essa è una delle molle più potenti delle azioni degli uomini, disgraziatamente, e consiste nel ritenere che un altro abbia quello che devo avere io, e che lo abbia ingiustamente, cioè che lo abbia rubato, e che sarebbe giusto riprenderglielo. Per questo molte volte la vita assomiglia ad una guerra di tutti contro tutti, per l’affermazione di se stessi. La soluzione è l’eliminazione: se Caino riteneva che Abele fosse gradito a Dio, questo significa che doveva ammazzarlo, per restare solo lui. Cioè lui, solo. Se abbiamo il coraggio di fare una volta sola un vero esame di coscienza, vedremmo chiaramente come l’invidia sia una delle radici più profonde dello spirito di rivalità che appesta la nostra vita. Ed è determinata dalla percezione di un’ingiustizia. O da un senso di inferiorità, che può pacificarsi solo nel non avere confronti, o nel confrontarsi solo con chi vale meno. In questo senso, i due discepoli del Vangelo discutevano di chi fosse il più grande. Cioè, è ovvio, io. 
In realtà, capiamo quindi che le letture di queste domeniche ci pongono davanti ad un problema profondissimo, e non solo teorico: come mi pongo davanti all’ingiustizia, alla rivalità, alla guerra che mi viene fatta. E per questo la risposta data da Gesù appare così assurda: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno». Tanto più che, come sappiamo sarà ucciso proprio per invidia, per l’entusiasmo e il seguito che aveva: il suo successo faceva sfigurare gli altri, appunto gli scribi e i farisei, che si trovavano così non solo con un concorrente, ma con uno che minava i fondamenti di quello che insegnavano con i suoi discorsi e le sue parole. Ma allora perché ti consegni? Perché non fai valere le tue ragioni? Oppure, visto che sono obiettivamente più forti di te, perché non smussi gli angoli di quel che dici, e trovi con loro un modo di convivere? Magari c’è spazio per te e per loro, e, come si suol dire, se non puoi avere uno come amico, fattelo alleato: potresti diventare un rabbino anche tu, con un’interpretazione originale e interessante della Parola di Dio, proprio come loro, anzi, meglio di loro. E così morire a novant’anni nel tuo letto, anziché tirare tanto la corda, che poi tu stesso capisci come va a finire. Perché i più forti sono loro. 
Gesù, ponendo davanti ai discepoli un bambino, si identifica con lui: come un bambino non ha nessuno che lo difenda, perché è piccolo e debole, e la sua vita dipenda da un padre, che lo accolga, lo tuteli, lo nutra, lo difenda, così si fa Lui con Dio, Padre suo. E così dirà «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito», poiché chi si affida, perché può solo affidarsi, è il bambino. Il figlio dell’uomo, appunto. E così il Figlio di Dio. 
Gesù non respinge l’ingiustizia, l’invidia, l’iniquità: la accoglie in sé, fisicamente: altrove dice «estinguendo in se stesso l’inimicizia». L’immagine fisica è il colpo di lancia che trafigge il suo petto: quel colpo dice l’iniquità del mondo, tutti i giusti schiacciati, dal giusto Abele ai poveri cristi feriti in tutta la storia. La loro vicenda umana è riassunta nel Giusto, l’unico tale, ucciso da noi sulla croce: secondo le sue parole, il soccorso gli verrà, e infatti gli è venuto. Dal Padre: la risurrezione, i cieli nuovi e la terra nuova, che sono non solo nell’aldilà, ma anche nell’al di qua, quel modo di vivere da figli di Dio, nella verità e nella giustizia della fede, in quella«sapienza che viene dall’alto», e non dal mondo, e ben diversa dalla sua furberia, che è «pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti», della quale abbiamo letto in Giacomo, quella che è chiamata anche «vita eterna», quella che è veramente vita e che si può vivere fin da subito. 
Noi possiamo rinunciare ad avere le cose che ci spetterebbero, la lode che ci spetterebbe, i riconoscimenti che meriteremmo, non perché siamo dei superuomini, o perché possiamo dimostrare agli altri che si può vivere senza molte delle cose che la gente considera necessarie, ma perché Gesù ci basta. Dio solo basta, diceva santa Teresa, e imparare e farcelo bastare è tutta la vita spirituale. Gli adulti hanno bisogno di tante cose; al bambino basta un papà. Il punto è che noi non siamo più bambini: diventarlo di nuovo, questa è la fatica. Quella fiducia in Dio, quell’abbandono a Lui, la stessa preghiera fiduciosa è un dono dell’infanzia, che di solito non le sopravvive: una volta usciti dall’infanzia, bisogna faticare molto per rientrarvi, come dopo una lunga notte sorge una nuova aurora. E così forse è inevitabile attraversare la notte oscura del buio dell’umana ingiustizia, del freddo dell’ostilità immeritata, della stessa preghiera che sembra inascoltata, per vedere sorgere una nuova luce, quando, finalmente fatti poveri, Dio solo ci basta. Per questo, credo, il salmo dice: «corrodi come tarlo i suoi tesori». Dio, anche servendosi dell’umana ingiustizia, ci insegna quel che a noi sembra impensabile: la beatitudine di essere, appunto, servi e non padroni, ultimi, e non primi. Ma poiché essere ultimi può sembrare un parolone troppo grosso, accontentiamoci almeno di essere secondi, se già siamo primi, o terzi, se ora secondi a qualcuno: accontentiamoci almeno di un passo indietro. 

E così siamo arrivati alla fine, che è poi un riassunto: abbiamo infatti iniziato osservando che un cuore nuovo è un cuore di figlio, e non di straniero, ospite o schiavo o dipendente del buon Dio. Vivere questo significa appunto ritornare bambini, cioè, appunto, essere figli. E ai figli basta il Padre, come al Figlio è bastato Lui. La spiritualità del sacro Cuore ci conduce a questo. Rivelandoci Gesù, ci rivela il Padre, e la Trinità stessa. Dio in noi e noi in Lui, il mistero dell’inabitazione divina: la mistica diventa vita di ogni giorno.