9 agosto 2014

E' carne e sangue di quel Gesù incarnato

LXVI. - 1. Questo cibo è chiamato da noi Eucaristia, e a nessuno è lecito parteciparne, se non a chi crede che i nostri insegnamenti sono veri, si è purificato con il lavacro per la remissione dei peccati e la rigenerazione, e vive così come Cristo ha insegnato.

2. Infatti noi li prendiamo non come pane comune e bevanda comune; ma come Gesù Cristo, il nostro Salvatore incarnatosi, per la parola di Dio, prese carne e sangue per la nostra salvezza, così abbiamo appreso che anche quel nutrimento, consacrato con la preghiera che contiene la parola di Lui stesso e di cui si nutrono il nostro sangue e la nostra carne per trasformazione, è carne e sangue di quel Gesù incarnato. 
(Giustino Martire, prima apologia)

L’istituzione dell’Eucarestia è uno degli eventi centrali della fede cristiana. Raccontata in tutti e tre i Vangeli sinottici nell’episodio dell’Ultima Cena e spiegata in vari passi del Nuovo Testamento, divenne presto il centro della vita della Chiesa. Un segno distintivo di cui anche i pagani, seppur talvolta distorcendolo, erano a conoscenza. Per questo motivo troviamo molti scritti dei Padri della Chiesa a riguardo, scritti che significativamente non presentano quasi mai un contenuto polemico; segno che nei primi secoli del Cristianesimo si discuteva su tutto (ma proprio tutto) ma non sulla natura dell’Eucarestia. Solo quindici secoli dopo, con l’avvento della Riforma protestante, questo sacramento centrale fu messo in discussione e progressivamente svuotato del suo significato.

Partiamo, dunque, da uno dei passi che raccontano l’istituzione di questo sacramento:


Ora, mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo”.
Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati. (Matteo 26, 26 – 28)


Da notare che se volessimo applicare il metodo letterale in voga presso molti evangelici, la discussione si potrebbe concludere qui. Non si può infatti negare che il senso letterale sia piuttosto lapidario e non dia adito a dubbi. Viene usato il verbo essere: “è il mio corpo”. Non viene detto “in questo pane è presente il mio corpo” (è il senso spirituale su cui si basa la dottrina della consustanziazione elaborata da Lutero) o peggio “questo rappresenta il mio corpo”. Si potrebbe essere tentanti di dire che è scritto così e non si discute. Ma siccome questo non è il nostro metodo, una volta chiarito il senso letterale del passo (che pure è importante, beninteso) andiamo avanti con la riflessione.

La prima cosa da notare è la quasi assoluta coincidenza dei passi. Confrontando infatti il passo sopra citato con le versione date da Marco (14, 22 – 24), Luca (22, 19 – 20) e Paolo (1 Cor. 11, 24 – 26) si evince che le parole riportate sono esattamente le stesse, con sfumature di scarso rilievo. Viene riportato infatti sempre il verbo essere. Degna di nota anche la versione di san Paolo in cui, cosa piuttosto rara (se non erro), vengono riportate le parole di Gesù in modo diretto. Segno che quelle parole erano particolarmente importanti ed era quindi necessario conoscerle nel modo più fedele possibile. Ad ogni modo, questa coincidenza fra ben quattro versioni depone senza dubbio a sfavore di interpretazioni che cercano di sminuire quel verbo essere sostituendolo con interpretazioni simboliche. Mentre, infatti, si può dubitare delle parole che Gesù ha usato esattamente (e con quale ordine) in discorsi riportati diversamente dagli evangelisti (senza andare a discapito del significato), lo stesso non si può dire qui.  Infatti è ragionevole affermare, viste le fonti, che Gesù ha detto veramente “questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue”.


IL MEMORIALE

A questo punto la domanda è: esiste davvero qualcosa che induca a interpretare in senso simbolico quel verbo essere? E, se sì, perchè usarlo allora esponendosi ad un così plateale fraintendimento? I tentativi di dare risposta affermativa a questa domanda sono svariati. Qui cercheremo di vedere i più importanti e diffusi. C’è chi insiste sul valore di memoriale indicato dallo stesso Gesù in alcune versioni dell’Ultima Cena (compresa quella di Paolo). Questa obiezione può sembrare importante a chi non conosce il linguaggio biblico. Per noi oggi il concetto di memoria è piuttosto usurato, essendosene spesso fatto abuso con la conseguenza di farlo scadere in vuota retorica. Per questo noi tendiamo a concepire la memoria come il ricordo di qualcosa di lontano, che non ci coinvolge più direttamente. Ma non è questo il significato biblico. Basti pensare al valore memoriale della Pasqua ebraica, a cui Gesù collega consapevolmente la sua Pasqua. Per gli Ebrei di oggi come per quelli di ieri, celebrarela Pasqua non è ricordare un evento passato: è riviverlo. E riviverlo non nel senso sentimentale dell’ immedesimazione, come ancora potremmo equivocare, ma nel senso letterale di prendere parte a quell’evento che si ripresenta. Quindi il valore di memoriale che Gesù attribuisce all’Eucarestia non induce a favore di una interpretazione simbolica. Anzi, il memoriale è una potente manifestazione divina e non un “ricordino” simbolico.


UN MODO DI DIRE?

Altri fanno notare che in altri passi Gesù usa parole simili:


 In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore (Giov. 10, 7).

Gli disse Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me (Giov. 14, 6).


La differenza però è sostanziale e non è difficile da cogliere. Prima di tutto il contesto è completamente diverso, queste sono parole pronunciate in normali discorsi. Niente a che vedere con la solennità dei passi che abbiamo visto sopra e, soprattutto, Gesù non identifica nessuna porta o via con se stesso. Il fatto che qui Cristo usi espressioni simboliche è dimostrato anche dall’importanza  loro attribuita. Infatti, in nessun passo la salvezza viene subordinata al riconoscimento di Gesù come una porta o una via. Non così, invece, per il pane e il vino. In maniera particolare, in un passo molto illuminante di Giovanni:


In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita.

I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”.
Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.
Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.
Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me.
Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.
Queste cose disse Gesù, insegnando nella sinagoga a Cafarnao.
Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: “Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?”.
Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: “Questo vi scandalizza?
E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?
È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita.
Ma vi sono alcuni tra voi che non credono. Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito.
E continuò: “Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio”.
Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.
Disse allora Gesù ai Dodici: “Forse anche voi volete andarvene?”

(Giov. 6, 47-67)


Si tratta di un passo lungo ma che vale la pena di essere letto per intero. La prima reazione dei Giudei indica che il tono tenuto da Gesù non dà spazio a simbolismi di sorta. Sembra proprio che Gesù parli di carne e sangue in senso materiale e la risposta che ricevono lo conferma. Infatti in poche righe la coppia di termini carne-sangue ricorre per ben quattro volte ed è sempre accompagnata dai verbi “mangiare” e “bere”. Non è proprio la risposta di chi vuol chiarire di stare parlando per simboli o di essenze spirituali. Ma l’evangelista, non contento, ci offre anche la reazione della cerchia dei discepoli. Reazione anche questa negativa che, se fosse dovuta ad un malinteso, Gesù sarebbe tenuto a chiarire. Infatti le Scritture dicono che Cristo spiegava tutto ai suoi in maniera diretta (vd. Matteo 13, 10-13). Se ai Giudei avesse parlato in maniera simbolica, come con l’uso di parabole, in questo secondo momento “privato” dovremmo trovare il chiarimento: il significato spiegato in maniera diretta. Invece sembra che non vi sia nulla da aggiungere, per questo molti discepoli mormorano e si tirano indietro. Alcuni vanno dicendo che l’espressione “mangiare la carne e bere il sangue” sia comune nel contesto semitico ad indicare l’accettazione di una dottrina. Eppure non la pensa così il Vangelo, infatti quello che Gesù vuole dire non lo capisce nessuno: non lo capiscono i farisei, i discepoli lo definiscono un linguaggio “duro”, gli apostoli nella risposta che danno fanno intendere di non capire nemmeno loro ma che comunque si fidano. Il sospetto è che si stia parlando di cannibalismo, perciò quei discepoli se ne vanno. Perchè Gesù non gli dice che quello è solo un modo di dire, un’espressione simbolica che non ha nulla a che vedere con la materialità del suo corpo e del suo sangue. Cristo li lascia andare perchè non si fidano di lui, non sanno intendere il significato spirituale delle sue parole. Ma, attenzione, spirituale non vuol dire simbolico nè ci deve spingere al rifiuto del miracolo eucaristico. Ogni miracolo, infatti, è spirituale ma ha anche un aspetto materiale; ad esempio le guarigioni operate da Gesù sono materiali, ma presuppongono la fede che è spirituale.


Si citava, all’inizio, l’istituzione dell’Eucarestia secondo san Paolo. Ancora più importanti i passi immediatamente successivi, in cui l’apostolo fornisce anche una spiegazione del sacramento:


Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore.
Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice;
perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna.

(1 Cor. 11, 26 – 29)


Molti evangelici intendono questo passo come un semplice invito a fare della “santa cena” un’occasione per un esame di coscienza. Chiaramente, però, il significato è ben più profondo. Prima di tutto, san Paolo ammonisce dal considerare l’Eucarestia come un semplice rito. Inoltre, ribadisce la presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nel pane e nel vino. Non si parla di un simbolismo, nè di una presenza vagamente spirituale o mistica. Altrimenti avrebbe detto che Cristo è semplicemente presente nelle specie eucaristiche, invece parla proprio del corpo e del sangue. Corpo e sangue che, per i credenti, non sono delle sembianze che Dio ha preso come suppellettili ma una realtà materiale in tutto simile a quella degli altri uomini. Il Cristo risorto, nei Vangeli, non è un fantasma ma un uomo fisicamente presente, con una materialità trasfigurata ma ancora umana. Parlare quindi di corpo e sangue di Cristo vuol dire, per forza di cose, fare riferimento a una realtà materiale. Quindi quello che avviene al pane e al vino consacrati è un miracolo che, come gli altri, ha delle conseguenze fisiche. Una realtà materiale, infatti, non può manifestarsi solo in modo spirituale. Come questo possa avvenire è senza dubbio un mistero che la ragione può solo scalfire ma che, a ben vedere, non è più incredibile dell’Incarnazione stessa.

Per questo la consustanziazione è una teoria che non regge. Inoltre, nel contesto delle Scritture, non ha molto senso. Infatti, Cristo è sempre spiritualmente presente e in particolare dove sono riuniti due o tre cristiani (Matteo 18, 20). Sarebbe stato davvero esagerato istituire un sacramento, col trambusto che abbiamo visto, per una cosa del genere. Dandogli poi una tale importanza da indicarlo addirittura come strumento di salvezza privilegiato e legandolo, in un modo così solenne, all’istituzione della Nuova Alleanza. Particolarmente paradossale è questa concezione per gli evangelici. Proprio loro che aborriscono riti e mediazioni di sorta, si vedono costretti a considerare la “santa cena” come un rito che permette loro di entrare in comunione con Dio! Un rito a cui bisogna accedere degnamente, altrimenti si va incontro a nientedimeno che la condanna divina. Sembra proprio una di quelle fosche descrizioni degli oscuri “riti religiosi” che si incontrano spesso in rete negli ambienti protestanti. Possibile che Dio si sia fatto uomo per poi limitarsi ad istituire un rito? Possibile, ancora, che la salvezza sia subordinata al riconoscimento di un determinato simbolismo? Sono contraddizioni evidenti, per cui non stupisce l’imbarazzo con cui spesso il tema viene trattato (o abilmente glissato). In molte chiese evangeliche, si ricorre addirittura allo stratagemma di fare quante meno “sante cene” è possibile e di privarle di una ricorrenza periodica. Per non farne un “rito”, appunto. Solo che la ricorrenza periodica è una caratteristica facoltativa di un rito, per cui la  “santa cena” – anche se celebrata una volta all’anno – un rito resta.


LA DIDACHÈ E LA DOMENICA

Preoccupazioni, queste, che certo non avevano i primi Cristiani. Esatto, proprio quella talvolta mitizzata prima comunità cristiana celebrava ogni Domenica l’Eucarestia e lo faceva alla lettera. Ce ne informa la Didachè, antichissimo testo cristiano (probabilmente risalente al primo secolo) tenuto molto in considerazione – talvolta in modo paradossale – dagli stessi protestanti. I capitoli dedicati all’Eucarestia sono ben tre, già questo la dice lunga per uno scritto così breve, e hanno contenuti talvolta sconvolgenti. Leggiamo:


Capitolo quattordicesimo

La santificazione della Domenica.Nel giorno del Signore poi radunatevi, spezzate il pane e rendete grazie dopo aver confessato i vostri peccati, affinché il vostro sacrificio sia puro Ognuno che ha una lite col suo compagno, non si raduni con voi finché non si siano riconciliati, affinché non sia profanato il vostro sacrificio. Questo è infatti il sacrificio voluto dal Signore:in ogni luogo e in ogni tempo sia offerto a me un sacrificio mondo, poiché io sono un re grande, dice il Signore, ed il mio nome è di ammirazione tra i popoli.


Quindi, i primi cristiani santificavano la Domenica (e – ricordo – santificare le feste è uno dei comandamenti) col sacrificio eucaristico. Se già l’idea che la cosiddetta “santa cena” possa santificare qualcosa è in grado di far storcere il naso a qualcuno, con la definizione di sacrificio andiamo proprio nello scandaloso. Infatti, insieme alla transustaziazione, Lutero depennò anche il valore di sacrificio della Messa cattolica, ritenendolo incompatibile col perfetto e irripetibile sacrificio di Cristo. Non aveva pensato che Cristo, nella sua potenza, può ripresentare il suo sacrificio quando vuole, senza chiedere il permesso a nessuno. Velleità teologiche che, comunque, i primi cristiani non avevano ed, essendo appunto i primi cristiani, non si può ricorrere nemmeno alla tiritera degli oscuri dogmi semi-pagani inventati dai Concili nel corso dei secoli. La Didachè ci consegna semplicemente il Cristianesimo delle origini così com’era, senza le fantasiose sovrastrutture che – queste sì – nel corso di secoli le sono state costruite sopra e che hanno finito con l’imporsi nell’immaginario collettivo. Ma se il Sacrificio di Cristo si ripresenta nell’Eucarestia, vuol dire che si manifestano anche Corpo e Sangue dell’agnello sacrificale. Ma le sorprese non finiscono qui, ci sono ancora da leggere i capitoli nono e decimo:


Capitolo nono

La celebrazione dell’Eucaristia.

Per quanto riguarda l’Eucaristia rendete grazie così:

Dapprima per il calice:

Ti rendiamo grazie, o Padre nostro, per la santa vite di David tuo servo, che ci hai rivelato per mezzo di Gesù tuo figlio; a te gloria nei secoli.

Poi, allo spezzare del pane:

Ti rendiamo grazie, o Padre nostro, per la vita e per la scienza che ci hai rivelato per mezzo di Gesù, tuo figlio; gloria a Te nei secoli.

Come questo pane fu dapprima grano sparso sui monti e poscia raccolto divenne uno, così si raduna la tua Chiesa dai confini della terra nel tuo regno:

poiché tua è la gloria ed il potere per Gesù Cristo nei secoli.

Nessuno poi mangi o beva della vostra Eucaristia, se non quelli che abbiano ricevuto il battesimo nel nome del Signore.

Poiché a questo riguardo il Signore disse: non date ciò che è santo ai cani.

Capitolo decimo


Ringraziamento dopo la Comunione.

Dopo esservi saziati, dite grazie così:

Ti ringraziamo, Padre Santo, per il tuo sacro nome, che hai scolpito nei nostri cuori e per la scienza e la fede e l’immortalità che ci hai rivelato per mezzo di Gesù, tuo figlio; a te gloria nei secoli.

Ricordati, o Signore della tua Chiesa; liberala da ogni male e rendila perfetta nel tuo amore; raccoglila dai quattro venti, quella che tu hai santificato, nel tuo regno che le hai preparato; poiché tuo è il potere e la gloria nei secoli.

Venga la grazia e passi questo mondo; osanna al Dio di David; se qualcuno è santo si accosti; se qualcuno non lo è, faccia penitenza;

Maran atha; Così sia.

Ai profeti poi che rendano grazie come vogliono.


Che dire? Provate ad applicare gli schemi ideologici che tanto vanno di moda. Avrete senza dubbio dei cristiani che, ingannati da secoli di oscurantismo, non solo si danno a dei “riti” ma addirittura credono che siano veicolo della Grazia. Da qui l’importanza di seguire un pur semplice schema e il divieto agli estranei di partecipare. Inutile dire che, neanche qui, si parla di simboli e affini. Poi – come se non bastasse – l’autore dellaDidachè viene addirittura a dirci come si deve rendere grazie, con quali esatte parole (eccezion fatta per i profeti). Si tratta di una Chiesa conscia della sua universalità e unità, elemento fondamentale che ha bisogno di segni tangibili come l’Eucarestia e non certo di buoni sentimenti. Viene quasi voglia di dire che, allora, la prima comunità cristiana era quanto di peggio si possa trovare oggi in una chiesa: pretese di universalità, Grazia veicolata da “riti” a ricorrenza periodica, preghiere con parole “a memoria”. Non proprio quella comunità di “puri” (in senso protestante). E non crediate che la Didachè possa essere confinata ad un’esperienza particolare che potrebbe non valere come testimonianza generale. Essa, infatti, fu un testo notissimo e grandemente apprezzato ed usato anche dai Padri della Chiesa. Tanto che alcuni inserivano la Didachè nel novero degli scritti neotestamentari.


L’EUCARESTIA NELLA TRADIZIONE

Come già accennato, ci sono molti scritti dei Padri della Chiesa che trattano dell’argomento. dopo la Didachè, una delle testimonianze più antiche è senza dubbio quella di san Giustino martire (II secolo). Il quale, nella Prima apologia a favore dei cristiani, ci conferma la santificazione della Domenica con 

l’Eucarestia in cui


 quel cibo che, trasformato, alimenta i nostri corpi e il nostro sangue, è la carne e il sangue di Gesù fatto uomo.


Particolarmente interessanti, poi, queste pagine che san Gaudenzio di Brescia (IV-V secolo) ha dedicato all’Eucarestia. Una volta chiarito che i segni del pane e del vino diventano effettivamente il Corpo e il Sangue di Cristo, spiega che non è certo una cosa impossibile per chi “produce il pane dalla terra” per cui “dal pane produce sacramentalmente il suo corpo, poiché lo ha promesso e lo può fare”.


Sant’Ilario di Poitiers, invece, nel De Trinitate insiste sull’aspetto della comunione fra Cristo e il fedele, di cui l’Eucarestia è il mezzo imprescindibile e garanzia anche della comunione dei santi. Per questo scrive che


Noi siamo in lui per la sua nascita nel corpo. Egli poi è ancora in noi per l’azione misteriosa dei sacramenti è [...]Nessuno sarà in lui, se non colui nel quale egli stesso verrà, poiché il Signore assume in sé solo la carne di colui che riceverà la sua.


Riferimenti come questi, che non lasciano dubbi sulla concezione dell’Eucarestia da parte dei cristiani dei primi secoli, sono innumerevoli. Per ultimo riporto questo passo molto bello di sant’Ambrogio (insieme agli altri citati, non certo l’ultimo arrivato…):

 

Tu forse dirai: “Questo è il mio solito pane”; ma io ti rispondo, che è certamente pane prima della consacrazione, però dopo diviene carne di Cristo” (De Sacram., 4, 4).


La Domenica, con l’Eucarestia come fondamento, era quindi il centro della vita cristiana. Per questo i cristiani di Abitene subirono il martirio, nel IV secolo, dicendo che “sine Dominico non possumus”. Ovvero “senza la Domenicanon possiamo vivere”, oggi qualcuno direbbe che quegli illusi riponevano le loro speranze in un “rito” invece che in Dio. A riprova che il Cristianesimo delle origini era quanto di più lontano da certe realtà del Cristianesimo “alternativo” che dicono – evidentemente senza alcuna cognizione di causa – di rifarsi alla Chiesa originaria.