13 giugno 2014

Ricchezza della Chiesa

“Il Papa vendendo uno dei suoi anelli sfamerebbe L’africa”,  “perché la Chiesa che è cosí ricca non destina tutti i suoi beni per aiutare i poveri?”, “il Papa veste Prada”…



Queste le provocazioni tragicomiche che circolano sul web, alimentate da alcuni media (i soliti noti) che montano ad arte la questione della “Chiesa ricca”, così come hanno fatto in modo strumentale e disonesto, e tuttora a cadenze alterne continuano a fare, sul tema ICI (ora IMU) e Chiesa Cattolica.

Si tratta in realtà di alcuni dei tanti luoghi comuni – a cui oramai siamo abituati – ampiamente diffusi da movimenti atei, materialistici e massonici, che spesso purtroppo fanno breccia anche nella mentalità degli stessi fedeli cristiani. Proprio ieri mi è capitato di parlare con una signora molto devota che dopo aver chiesto indicazione stradali per raggiungere una nota località mariana per prepararsi all’Indulgenza del “Perdono di Assisi”, ha concluso dicendo che “San Francesco sì che era un vero esempio cristiano, non i preti e le chiese che sono pieni di ricchezze”. Alla signora non ho avuto il tempo di dire che comunque un prete guadagna, sì e no, 800 euro al mese, e un vescovo tra gli 800 e i 1200 euro al mese (e di certo non li spendono per andare in vacanza alle Seychelles).

Ma mi rendo conto che tali luoghi comuni sono molto diffusi anche perchè favoriti da una certa ignoranza circa le reali proporzioni del problema.

Innanzitutto la Chiesa, come ogni altra istituzione, ha il diritto e la necessità di dotarsi di tutti i mezzi necessari allo svolgimento della sua missione, perciò non solo può ma deve possedere beni mobili e immobili ed ogni altro mezzo necessario alla sua vita e alla sua missione. La comunità ecclesiale, qualsiasi comunità, piccola o grande, ha una dimensione che non è solo spirituale ma anche fisica e sociale e perciò necessita di spazi di aggregazione, edifici, strutture di governo, mezzi assistenziali e caritativi di ogni genere, in tutti i settori, inclusi quelli della cultura e dell’arte che spesso sono fra i piú appariscenti. Ogni organismo se vuole svolgere una missione deve garantire anche il proprio sostentamento, in caso contrario, la sua prima opera sarebbe anche l’ultima.

L’ANELLO E LE SCARPE DEL PAPA

Faccio una breve parentesi riguardo al famoso “anello del Papa che sfamerebbe l’Africa”, e che “varrebbe milioni – qualcuno dice addirittura “miliardi” – di euro”.
Nulla di più falso e ridicolo. In realtà si tratta di semplice oro, ha la grandezza e dunque il valore di due fedi nuziali, viene usato come timbro per sigillare ogni documento ufficiale redatto dal Papa. Senza poi contare che alla morte del Papa viene rotto con un martelletto d’argento, rifuso e riutilizzato per il Pontefice successivo. Tecnicamente è sempre lo stesso da secoli. E non occorre essere cattolici per capire che un oggetto di tal valore non risolverebbe i problemi di una sola famiglia neppure per una settimana e che, onde evitare di urlare slogan tanto assurdi, basterebbe semplicemente informarsi, o almeno usare un pò di buon senso o quella razionalità laica che il Signore ha concesso a tutti.

Seconda parentesi: le “fantomatiche scarpe del Papa”. Un articolo di Repubblica – pubblicato pochi mesi dopo l’elezione del Papa al soglio pontificio – titolava: “Il look di Papa Ratzinger: spuntano le scarpe Prada”. Questo era lo scoop a cui hanno abboccato decine e decine di anticlericali e la notizia si è trascinata negli anni. La leggenda è stata così confezionata: il Papa veste Prada, vive nel lusso, è servito e riverito mentre nel mondo c’è gente che muore di fame. Nel 2008 l’Osservatore Romano ha provato a smentirla, ottenendo pochi risultati purtroppo. Lo stesso l’Agenzia Ansa nel 2010. Di recente si è tornati sulla questione grazie ad una pagina Facebook dedicata proprio al Pontefice. Si riporta la notizia, come vi è scritto sul quotidiano del Vaticano, che è il sarto novarese Adriano Stefanelli a produrre le scarpe papali, rosse ad indicare il sangue del martirio, che fanno parte dell’abito del papa fin dal Medioevo e da allora sono indossate da ogni pontefice. Non sono Prada, non hanno alcun costo, visto che il Sig. Stefanelli le ha donate al Santo Padre e ha affermato: «Io le mie scarpe al Papa le regalo, perché a volte la passione paga più del denaro». (Qui l’articolo citato) [1].

LE PROPRIETÀ VATICANE

Ma torniamo alla questione da cui siamo partiti. Bisogna chiarire innanzitutto che il Papa non è ricco, che tutto ciò che gli viene attribuito non è suo, e che dopo la morte non lascia niente a nessuno e viene seppellito in una bara di legno grezzo, praticamente nudo, e con un velo di lino sul volto.

La maggior parte delle cosiddette “ricchezze” del Vaticano sono tesori che nell’arco della storia della Chiesa, sono stati donati da persone che hanno ricevuto delle grazie particolari e che il Vaticano non ha nessun diritto di vendere.

Due millenni di storia, di arte, di cultura, la Basilica di Pietro, la Cappella Sistina, la Pietà di Michelangelo, le stanze dei musei Vaticani sono patrimonio dell’umanità e sono solo gestite dalla Chiesa.

La Santa Sede è solo custode vigile e scrupolosa di una immensa quantità di opere d’arte in parte donate e in parte proprietà privata dei successori di S. Pietro, esposte in stanze degne di accogliere tanta bellezza e a disposizione di chiunque abbia desiderio di apprezzarle. Ma sono beni che il Papa pur volendo non potrebbe vendere, lo impedisce il diritto internazionale. Nulla è suo, ma gli è stato concesso di usarlo. La Chiesa non può farne ciò che desidera, ha il compito di conservare tali beni nel nome dello Stato italiano. In tutte le Nazioni esistono svariate misure per la difesa delle opere d’arte, perché lo Stato ha il dovere di preservarle nel tempo. E ricordo come i beni della Santa Sede facciano anche parte della storia culturale dell’Italia.
Con la stessa logica con cui chiediamo alla Chiesa di vendere i suoi beni per aiutare i bisognosi, potremmo chiedere allo Stato di vendere il Colosseo di Roma, o gli Uffizi di Firenze o la Mole Antonelliana di Torino o qualcuna delle tante opere d’arte che l’Italia possiede.

LA CARITÀ E LA CHIESA

Quanto alla carità verso i più deboli, sappiamo tutti come la dottrina cristiana e il Magistero insegnino da sempre l’importanza e il dovere primario per ogni cristiano di avere cura e attenzione particolare per i poveri, per gli emarginati, per i malati.. per tutti i tipi di povertà: economiche, spirituali, esistenziali (disperazioni, malattie, solitudini, sofferenze, dipendenze, schiavitù, oppressioni di ogni tipo). La carità cristiana è il cuore del messaggio evangelico!

La Chiesa è sempre stata in prima linea nell’aiutare concretamente i poveri di tutto il mondo, con le Caritas, le Missioni e le Opere Pie. Si pensi ai tantissimi missionari che nei Paesi più disparati del mondo, soprattutto in quelli più poveri, portano l’annuncio evangelico prodigandosi anche per sollevare le popolazioni dalla povertà, dall’emarginazione, dalla fame, dalle malattie, nonchè per l’educazione e la scolarizzazione dei ragazzi. Tutto questo, spesso, a rischio della propria vita.

Ma alla base di gran parte degli attacchi rivolti alla Chiesa sui beni e gli averi di sua proprietà, vi è un equivoco fondamentale dell’intera concezione scritturistica sulla ricchezza e sulla povertà.

Basterebbe leggere alcuni dei tanti versetti, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, in cui il Signore non chiede che il culto gli venga dato in estrema povertà, tutt’altro… (Vedi qui alcuni esempi) [2].

Nel distacco dalle cose materiali di questo mondo possiamo elevarci a Dio. Se siamo capaci di distaccare il cuore dalle nostre ricchezze, ci sarà più facile glorificare il Signore cercando di rendere degna e bella la Sua casa. Gli oggetti preziosi custoditi dalla Chiesa e nelle chiese è chiaro che non servono a Dio, ma il loro splendore serve per richiamare noi, per ricordare che stiamo facendo gli atti più grandi e più sublimi di culto. Sono un segno della nostra fede, della nostra riconoscenza a Dio che ci ha resi partecipi di beni così grandi. Non teniamo gli oggetti preziosi nelle casseforti perché i ladri non li rubino, ma li usiamo anche per dare a Dio il massimo splendore nel culto.

Nel Vangelo non c’è condanna per la ricchezza in sè. Il noto passo del Vangelo di Matteo in cui Cristo ammonisce: “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli” (Mt. 19, 24) deve essere letto sistematicamente con l’insieme dei suoi precetti e dei suoi insegnamenti.

“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt. 5,3), riproposizione in chiave affermativa di Matteo 4,4: “Non di solo pane vivrà l’uomo”.
Cristo ha voluto, cioè, evidenziare il carattere spirituale dell’uomo, che cioè questo non è mera corporeità, non deve limitarsi al solo aspetto materiale dell’esistenza. Il Vangelo non fornisce dottrine economiche, materiali, ma insegnamenti teologici, morali e spirituali.

Per l’autentico pensiero cristiano, la ricchezza, la proprietà, gli averi, non sono dei mali in sè stessi.

Gesù indossava una tunica preziosa (che i soldati che lo crocifissero si giocarono a sorte) e un mantello con le frange (Mt 9,20-22), dunque vestiva abiti signorili; non disdegnò il profumo di nardo purissimo di gran valore, amava i banchetti e riposarsi dall’amico ricco.

Giuseppe, il padre putativo di Gesù, apparteneva alla classe media o agiata ed era – come attestano antiche fonti cristiane – padroncino di una piccola impresa di teknoi, di lavoratori del legno. L’infanzia e la giovinezza di Gesù, dunque, non sono quelle di un povero indigente.

Alle nozze di Cana, invitato a cena a casa di uomini importanti, finito il vino, Gesù non ha detto “avete bevuto abbastanza e dovreste pensare ai poveri che non hanno vino”, ma ha onorato la festa e il matrimonio (compiendo fra l’altro il suo primo miracolo).

Gesù stesso nei Vangeli ci dice che veniva accusato dai farisei di essere “un mangione e un beone” solo perché, nella loro visione distorta, si contrapponeva al Battista che viveva di stenti.

Gesù ha lodato la donna che ha rotto per lui un vasetto di nardo genuino di gran valore. E ai commensali che si sdegnano per lo spreco di quel profumo così prezioso per Lui anzichè vendere quest’olio a più di trecento denari e darli ai poveri, Egli risponde: “Lasciatela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona; i poveri infatti li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete sempre. Essa ha fatto ciò ch’era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il Vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto” (Mc 14,3-9).
Un denaro era la paga giornaliera di un operaio; trecento denari la paga quasi di un anno. Gesù non l’ha rimproverata, anzi l’ha lodata. E’ venuto incontro all’esigenza del nostro animo di manifestare anche con segni permanenti il nostro affetto verso di Lui.

Gesù dunque non demonizza il denaro, dice che bisogna essere liberi dal denaro, non diventarne schiavi. Il denaro di per sé non è un male, e può essere usato per fare il bene.
Quello da cui Gesù ci mette in guardia è l’atteggiamento di morbosità, l’attaccamento al denaro, l’avidità, la schiavitù della ricchezza, la cupidigia nel perseguirla e l’ostinazione nel possederla, che soffocano il seme della vita e rischiano di sostituire i doni ricevuti a Dio stesso.

I SANTI

Nella Vita del santo Curato d’Ars si legge che viveva poverissimamente. Aveva licenziato la perpetua, perché per cibo si cucinava ogni settimana una pignatta di patate.
Ma per quanto riguardava il culto a Dio voleva che fosse sempre al meglio. Era convinto che il culto esterno dev’essere un richiamo per il culto interno, oltre che un grande atto di amore.

San Francesco è vissuto poverissimo, ma anche lui voleva che i vasi sacri fossero preziosi.

Ecco che cosa si legge nelle Fonti francescane: “Vi prego, più che se riguardasse me stesso, che, quando vi sembrerà conveniente e utile, supplichiate umilmente i chierici di venerare sopra ogni cosa il santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo e i santi nomi e le parole di lui scritte che consacrano il corpo. I calici, i corporali, gli ornamenti dell’altare e tutto ciò che serve al sacrificio, devono essere preziosi. E se in qualche luogo trovassero il santissimo corpo del Signore collocato in modo miserevole, venga da essi posto e custodito in un luogo prezioso, secondo le disposizioni della Chiesa, e sia portato con grande venerazione e amministrato agli altri con discrezione” (Fonti francescane n. 240-244).

“Ardeva di amore in tutte le fibre del suo essere verso il sacramento del Corpo del Signore, preso da stupore oltre ogni misura per tanta benevola degnazione e generosissima carità. Riteneva grave segno di disprezzo non ascoltare ogni giorno la Messa, anche se unica, se il tempo lo permetteva. Si comunicava spesso e con tanta devozione da rendere devoti anche gli altri. Infatti, essendo colmo di reverenza per questo venerando sacramento, offriva il sacrificio di tutte le sue membra, e quando riceveva l’agnello immolato, immolava lo spirito in quel fuoco, che ardeva sempre sull’altare del suo cuore. Per questo amava la Francia, perché era devota del Corpo del Signore, e desiderava morire in essa per la venerazione che aveva dei sacri misteri.
Un giorno volle mandare i frati per il mondo con pissidi preziose, perché riponessero in luogo il più degno possibile il prezzo della redenzione, ovunque lo vedesse conservato con poco decoro” (da Tommaso da Celano, Memoriale, comunemente detto Vita seconda, 201: Fonti francescane n. 789).

“Francesco sentiva tanta riverenza e devozione verso il corpo di Cristo, che avrebbe voluto scrivere nella regola che i frati ne avessero ardente cura e sollecitudine nelle regioni in cui dimoravano, ed esortassero con insistenza chierici e sacerdoti a collocare l’Eucaristia in luogo conveniente e onorevole. Se gli ecclesiastici trascuravano questo dovere, voleva che se lo accollassero i frati. Anzi, una volta ebbe l’intenzione di mandare, in soste le regioni, alcuni frati forniti di pissidi, affine di riporvi con onore il corpo di Cristo, dovunque lo avessero trovato custodito in modo sconveniente. Volle inoltre che altri frati percorressero tutte le regioni della cristianità, muniti di belli e buoni ferri per far ostie” (Fonti francescane n. 1635).

Va chiarito comunque che, a dispetto di ciò che comunemente si crede, “San Francesco sposò la povertà per sé e per l’ordine da lui fondato non per criticare i beni temporali di Roma e dare vita ad una anti-Chiesa ma per abbandonarsi totalmente alla Provvidenza, per fuggire ogni sicurezza mondana, ogni desiderio materiale. Non chiese mai che tutta la cristianità seguisse il suo esempio, sapeva che la specificità del suo ordine rientrava in un superiore equilibrio in cui ogni espressione della fede in Cristo, nel rispetto dei dogmi, è legittima. È una cosa difficile da far entrare in testa agli anticlericali, ma il cattolicesimo non è un’ideologia, bensì una realtà viva e grande al punto da potersi contraddire al suo interno: c’è posto per le sobrie cappelle romaniche dai muri grigi come per il fasto degli appartamenti Borgia e delle cattedrali barocche. Se la povertà simboleggia l’umile nascita di Gesù in una stalla, gli ori richiamano la sua gloriosa resurrezione e lo splendore del paradiso celeste. San Francesco non ebbe la pretesa di sostituirsi al Papa, di essere più cristiano di lui, anzi esercitò sempre la più decisa obbedienza alle decisioni del trono di Pietro” [3].

IL PAPA IN AFRICA

Poco fa accennavo alla bufala totalmente inventata dell’ ”anello papale che sfamerebbe l’Africa”.
Vorrei fare anche una piccola riflessione sulla realtà dell’Africa e dei problemi che l’affliggono. La situazione in Africa – come in altre parti del mondo sottosviluppato – è molto complessa e di non facile soluzione a causa di innumerevoli ragioni che riguardano anche chi governa quei paesi e persino chi aiuta quei paesi. Non basta inviare soldi per risolvere i problemi in quelle zone.

I loro governanti spesso hanno interesse a che tutto rimanga così per controllare meglio il territorio. Ci sono poi alcune multinazionali che sfruttano le risorse naturali del continente. Per non parlare degli organismi internazionali (vedi ONU e Unione Europea) che “ricattano” i paesi dell’Africa imponendo politiche disumane di controllo delle nascite (come sterilizzazioni, aborto, contraccezione, ecc.) in cambio degli aiuti.

Tutte questioni trattate, e anche coraggiosamente denunciate, una per una, da Papa Benedetto XVI quando si è recato in Africa qualche anno fa. Stranamente di quel viaggio si ricorda solo la famosa frase sui preservativi strappatagli maliziosamemte dai giornalisti in aereo, ma non si ricorda invece il fatto che il Papa era andato lì ad illustrare e presentare un importantissimo documento promulgato per la Seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi: l’Instrumentum laboris, un documento molto denso, frutto di quattordici anni di lavoro della Chiesa per studiare e capire l’Africa, a partire dall’esortazione apostolica di Papa Giovanni Paolo II Ecclesia in Africa del 1995, che dopo il Primo Sinodo per l’Africa aveva esortato a uno studio più approfondito della situazione religiosa e sociale del continente africano.

Un documento salutato dai media africani come uno dei più importanti testi sull’Africa mai apparsi, tanto più se lo si legge – come Benedetto XVI ha invitato a fare – insieme con i discorsi del Papa in Camerun e Angola, che lo illustrano e lo completano [4].

I media italiani ed europei hanno invece completamente ignorato questo importante documento. E purtroppo questo silenzio da parte della stampa occidentale dimostra o almeno fa sospettare fortemente che all’Occidente interessa ben poco della situazione in cui versano questi fratelli.

E le continue ed infondate accuse verso la Chiesa oscurano purtroppo quello che di grande essa fa ogni giorno (giustamente nel silenzio e senza megafoni) proprio a favore dei più deboli.

Infine vorrei ricordare che la Chiesa con la C maiuscola è la comunità dei battezzati. Ogni battezzato è incorporato alla Chiesa che è il Corpo mistico di Gesù Cristo. Invece di condannare il mondo ecclesiale, ognuno di noi dovrebbe interrogarsi su ciò che fa di buono per migliorare le sorti di questo mondo e del terzo mondo. Ogni battezzato ha il dovere di contribuire al bene della comunità. Dunque, riguardo all’aiuto al prossimo – per quanto ci è possibile e ognuno nel suo piccolo – siamo tutti interpellati, nessuno escluso.

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Note:

[1] Il Papa veste Prada? NO, era una bufala

[2] Cosa significa “povertà” nella Parola di Dio (Amici Domenicani); Perché la Chiesa ha accumulato, nel corso degli anni, notevoli ricchezze ben visibili anche nell’abbigliamento del Santo Padre? (Amici Domenicani).

[3] Luca Negri, La vita di S. Franceso secondo Emma Bonino, La Bussola Quotidiana, 14.09.11

[4] Massimo Introvigne, Il Papa e la sua Africa, Cesnur.

Leggi anche:

San Francesco: “I calici non siano di materiale vile, ma prezioso…”

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