23 marzo 2014

La favola della falsa glossolalia

PREMESSA

la caratteristica del pentecostalismo è l’interesse per la glossolalia che consisterebbe nell’emettere una serie di suoni o di parole che non corrispondono a nessuna lingua conosciuta. (N.d.R. = Suoni inarticolati simili a quelli che fanno i bambini quando non sanno parlare = N.d.R.) /.../ La glossolalia si era affacciata occasionalmente, nel passato, in revival di predicatori come Dwight L. Moody e aveva avuto un ruolo in determinate fasi storiche (non proseguite, però, fino al nostro secolo) di nuovi movimenti religiosi come i mormoni o gli shakers” (Cesnur, LA SFIDA PENTECOSTALE, a cura di Massimo Introvigne, LDC, 1996, p. 28). Il pentecostalismo, come oggi lo conosciamo, è nato nel mondo protestante. All’inizio è stato molto osteggiato dalle stesse denominazioni protestanti. Alcuni suoi aspetti, come la glossolalia, sono stati chiaramente rifiutati da una parte del protestantesimo. Poi, pian piano, è dilagato nel mondo protestante, tanto che oggi, probabilmente, ne costituisce la denominazione più numerosa. Anche nel campo cattolico si è registrato, da parte di qualche vescovo, la proibizione, nella sua diocesi, di pregare in lingue ai gruppi del rinnovamento (cfr. Salvatore Cultrera, La Glossolalia, Edizioni Paoline, 1979, p. 13)

ALLE ORIGINI DEL PENTECOSTALISMO 

“Le sue origini si perdono nella leggenda ma risalgono a tre revival: 1) gli episodi di Topeka, nel Azusa Street, a Los Angeles, nel 1906; 3) e del Galles tra il 1904 e il 1908. Charles F. Parham (1873-1929) – un ex metodista – può essere considerato il padre del pentecostalismo. /.../ Il suo interesse principale si situava sul versante delle guarigioni miracolose. /.../ Aprì una scuola a Topeka. /.../ All’interno del movimento holiness, Parham insegnava il cosiddetto “battesimo dello spirito santo”. /.../ Secondo una certa mitologia sulle origini pentecostali, la prima studentessa di Topeka a ricevere il cosiddetto “dono delle lingue” (come prova del “battesimo dello spirito santo”) – Agnes Ozman (1870- 1937) – avrebbe iniziato a “parlare in lingue” nella prima notte di Capodanno del nuovo secolo, fra il 31 dicembre 1900 e il 1° gennaio 1901. /.../ Con un equivoco caratteristico dei primi anni del pentecostalismo, la “glossolalia” di Agnes Ozman, fu scambiata per xenoglossia, e Parham annunziò alla stampa che la sua allieva parlava in perfetto cinese (sic!). Quando in seguito altri allievi di Parham – che interpretavano il loro dono delle lingue come xenoglossia – cercarono di svolgere un’attività missionaria tra popolazioni asiatiche ed europee utilizzando le “lingue” che avevano “miracolosamente” ricevute, l’equivoco venne chiarito e nella sua grande maggioranza la corrente pentecostale riconobbe le proprie esperienze come glossolalia e non come xenoglossia” (Cesnur, LA SFIDA PENTECOSTALE, a cura di Massimo Introvigne, LDC, 1996, pp. 29-32).
Kansas, nel 1901; 2) di

RIFIUTO DELLA GLOSSOLALIA 

“Parham ebbe un grosso scontro con uno dei suoi discepoli l’afro-americano e battista William J. Seymour (1870-1922) col quale ruppe i rapporti. Seymour e Parham pur in dissenso, erano però d’accordo sul fatto che il dono delle lingue costituiva la prova iniziale e infallibile (sic!) che il fedele aveva ricevuto il “battesimo dello spirito santo”. Contro questa dottrina si andò organizzando la reazione di un’ampia parte del mondo holiness. La denominazione protestante chiamata “Pilar of Fire”, guidata dalla predicatrice Alma White (1867-1946) era contraria alla glossolalia e definì Seymour “un fachiro e un vagabondo”. Il “Los Angeles Times” del gruppo di Seymour e della sua glossolalia parlava di una “selvaggia Babele di lingue”. /.../ I gruppi del terzo protestantesimo come la Chiesa del nazareno, l’Esercito della Salvezza e la Chiesa di Dio con sede ad Anderson, nell’Indiana (da non confondersi con quella dello stesso nome con sede a Cleveland, nel Tennessee) rifiutavano invece la glossolalia, quando non la consideravano – come Alma White ed il suo movimento “Pillar of Fire” a cui abbiamo fatto cenno – semplicemente come opera del diavolo. (Cesnur, LA SFIDA PENTECOSTALE, a cura di Massimo Introvigne, LDC, 1996, pp. 32-34).
 “L’ordine di San Luca, fu fondato nel 1947 (con una partecipazione maggioritaria di fedeli di denominazioni della Comunione anglicana) allo scopo di riunire cristiani interessati alle guarigioni. Questo “ordine di San Luca”, nel 1963 si pronunciò contro la glossolalia” (CESNUR, idem, p. 61). “Nel 1960 il vescovo episcopaliano di Los Angeles (California) diffuse una lettera che vietava nella sua diocesi riunioni dove venisse “incoraggiata e praticata” la glossolalia” (CESNUR, idem, p. 62). “Le chiese ortodosse – in cui il rinnovamento carismatico si diffuse negli anni 1970 – consideravano il movimento “intrinsecamente protestante” spingendo talora i sacerdoti ortodossi che avevano ricevuto il “battesimo dello spirito” a rinunciare alla loro esperienza o ad abbandonare l’ortodossia” (CESNUR, idem, p. 65).

LA BENEDIZIONE DI TORONTO

In che razza di contesto pseudo-spirituale e con quale corredo di fenomeni sconcertanti si trova collocata questa “favola della glossolalia” emerge chiaramente nella cosiddetta benedizione (sic!) di Toronto: “Negli anni 1990 alcune comunità locali del movimento Vineyard si sono contraddistinte – e sono state spesso vivacemente criticate – per la presenza di nuovi fenomeni carismatici diversi dalla glossolalia, come una sorta di “ruggito” simile a quello di un leone, e soprattutto l’holy laughter (la “sacra risata”), un eccesso irrefrenabile di riso (accompagnati da un particolare fenomeno: il cosiddetto “riposo nello spirito”, un fenomeno dove si cade a terra all’indietro – senza che si verifichi normalmente un vero e proprio svenimento – peraltro ben noto alla tradizione pentecostale e carismatica). /.../ Altri piangono, ridono – spesso molto a lungo – danzano, parlano e cantano in lingue, talora ruggiscono come leoni. /.../ Vengono persone da ogni parte del mondo /.../ da Toronto ciascuno porta, poi, la “benedizione” (sic!) nella sua comunità di origine, dove spesso ricominciano gli stessi fenomeni” (Cesnur, LA SFIDA PENTECOSTALE, a cura di Massimo Introvigne, LDC, 1996, pp. 71-73). “Alla benedizione di Toronto si accompagnano soprattutto fenomeni estatici ed entusiastici, insieme al ben noto “riposo nello spirito”, in particolare: ridere e piangere, scuotersi con movimenti convulsi, gridare, brontolare, ammutolirsi, parlare in varie lingue, uno stato ebbro senza alcool, con idee chiare ma con una impossibilità nei movimenti motori e nel parlare” (idem, p. 87). E ancora: “il tremore, il rotolarsi, il fremere” (idem, p. 157). “Altre tremano o palpitano” (idem, p. 161) “Altri sperimentano strane scosse, altri gridano forte, sbraitano o latrano” (idem, p. 183). “... due giovani donne /.../ si contorcevano per terra, gridavano a squarciagola, si mettevano poi a ridacchiare” (idem, p. 186). “Attualmente sono fortemente influenzate dalla “benedizione di Toronto” diverse congregazioni carismatiche, tra cui comunità cattoliche, in Inghilterra e a Londra” (idem, p. 88). “I Pentecostali venivano definiti “pneumatici”, “tremolanti” per il loro agitarsi durante il culto; “rotolanti” perché alcuni, durante il loro rito rotolano sul pavimento. /.../ Il loro culto è sempre stato lo stesso, sin dall’inizio /.../ Alcuni durante il rito sussultavano e si agitavano convulsi /.../ colpi battuti nel legno, gemiti, urla /.../ si rotolavano a terra e incominciavano a parlare “lingue” /.../ invocano con alte grida lo spirito e durante queste invocazioni, cominciano ad agitarsi e a contorcersi, poi a tremare, a battere a terra i ginocchi simultaneamente, poi le parole diventano sconnesse, incomprensibili (Francesco Spadafora, Pentecostali e testimoni di geova, Editrice I.P.A.G. Rovigo, V edizione, 1980, pp. 59-81). “Tutte cose che fanno assomigliare il loro modo di comportarsi ad un fenomeno patologico più che religioso” (idem, p. 40). È veramente strana questa aberrante commistione tra protestantesimo e cattolicesimo: i pentecostali oltre ai descritti alterati movimenti convulsi, rumori, grida, ecc. attaccano la Chiesa Cattolica nel suo culto, nella sua dottrina e fanno propri tutti gli altri luoghi comuni del protestantesimo. Che legame ci può essere tra le due realtà? Chi ha interesse a questo grottesco matrimonio?

FALSIFICAZIONE DEL DONO DELLE LINGUE

1) UNICO CARISMA, NON DUE 

Innanzitutto sia S. Luca negli Atti degli Apostoli, sia S.Marco nel capitolo finale del suo Vangelo, sia indicare un unico carisma: il parlare in lingue (“lalein glossais” o anche “lalein glossei”). In tutto il N.T. le parole usate per indicare il “parlare in lingue” sono le stesse e medesime in tutti i diversi autori e in tutti i diversi contesti, ad indicare che si tratta di un unico e medesimo carisma. Marco 16,17: “glossais lalesusin kainais” – “parleranno lingue nuove”. At 2, 4: “lalein eterais glossais”- cominciarono “a parlare in altre lingue”. At 2,6: “idia dialektolalunton” – ciascuno li udiva “parlare nella propria lingua”. At 2,8: “akuomen ekastos te idia dialekto emon” – “ciascuno di noi li sente parlare nella propria lingua nativa”. Nella Pentecoste il riferimento addirittura al “dialekto”, al proprio idioma, alla propria lingua nativa, è così esplicito che non è più possibile dubitare sulla vera natura di questo carisma. Le stesse parole, il medesimo vocabolario, è utilizzato da San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi, così che è impossibile parlare di un “carisma di pentecoste” (parole straniere vere) che sarebbe diverso da un “carisma paolino” (rumori sconclusionati). 1 Cor 12,30: “pantes glossais lalusin” – “tutti parlano in lingue?”. 1 Cor 14,2: “glosse lalon”- “parlante in lingua”. 1 Cor 14,4: “lalon glosse”- chi “parla in lingue”. 1 Cor 14,5: “lalein glossais”- “parliate in lingue” /.../ “lalon glossais”- “il parlante in lingua”. 1 Cor 14,6: “glossais lalon”-“in lingue parlando”. 1 Cor 14, 13: “lalon glosse”-“il parlante in lingua”. 1 Cor 14,18: “glossais lalò”- “in lingue parlo” /.../ “logous en glosse”- “parole in lingue”. 1 Cor 14,23: “lalosin glossais”-“parlino in lingue”. 1 Cor 14,26: “glossan ekei”- “un discorso in lingua”. 1 Cor 14,27: “glosse tis lalei”-“in lingua qualcuno parli” (Nuo testamento Interlineare, Greco, Latino, Italiano, San Paolo, 2003). La distinzione tra glossolalia e xenoglossia o xenolalia è stata inventata di sana pianta dal pentecostalismo-carismatico solo per giustificare a tutti i costi la falsificazione di questo carisma operata artificialmente in questi gruppi. Nella Sacra Scrittura si parla solo ed esclusivamente di glossolalia, cioè di parlare in lingue e questo sia per il mattino di Pentecoste, sia per indicare quello che accadeva nella comunità di Corinto.

Pur di conservare questa invenzione stravagante si arriva persino a falsificare la Sacra Scrittura. 16 paesi diversi li sentissero parlare la loro lingua nativa, come chiaramente attestano gli Atti, sarebbe solo un fatto leggendario aggiunto da S. Luca ispirandosi “allo stile dell’epopea, per cantare in modo degno l’origine divina della Chiesa. Del resto di questo evento storico S. Luca non era stato testimone e forse non fu in grado di raggiungere testimonianze fedeli a distanza di tanto tempo. Su questa “glossolalia”, o presunta tale, si tornerà in seguito, - insiste il Cultrera quando bisognerà distinguere glossolalia da xenolalia o xenoglassia e si avanzeranno fondati dubbi contro un miracoloso dono di parlare lingue straniere non apprese per facilitare l’evangelizzazione di popoli nuovi” (cfr. Glossolalia, Edizioni Paoline, Roma, 1979, pp. 26- 27 e p. 29 ). Qui, addirittura, il vero carisma viene considerato falso e l’inesistente invenzione dei gruppi pentecostali, viene ritenuta l’unica vera! Questo “mondo alla rovescia” viene ulteriormente confermato dal Cultrera, quando, senza un riscontro concreto, si avventura in una sconcertante interpretazione secondo la quale a Pentecoste gli Apostoli avrebbero, emesso i “rumori” inarticolati che si manifestano nei gruppi carismatici di oggi. Cessati questi rumori e urla pseudo-carismatici, il Cultrera fornisce la “ciliegina sulla torta” spiegando che: “All’uscita del Cenacolo il popolo circostante, attratto dal rumore del vento gagliardo, crede di riconoscere nei suoni di lode e di gioia degli Apostoli parole della propria lingua” (cfr. Glossolalia, ed.cit., pp. 27-28).
Così Salvatore Cultrera arriva addirittura ad affermare, nel caso della Pentecoste, che il fatto che gli Apostoli parlassero lingue straniere mai studiate e che persone appartenenti almeno a
Questa assurda e immotivata interpretazione è ribadita, poche pagine più avanti, dal Cultrera: “Le parole inintelligibili, anche se scambiate per parole della propria lingua dai vari popoli suonavano lode per le grandezze che il Signore si degnava compiere” (idem, p. 31). Il tutto è concluso da un farneticante “rodeo” linguistico a cui vengono sottoposti i due verbi usati da S. Luca: “lalein” e “apophthenghesthai”. Ma il Cultrera, senza accorgersene, contraddice se stesso: se infatti lui stesso riconosce che il verbo “apophthenghesthai” ha come radice ultima è il verbo “phemì” che significa: dire, comunicare, esprimere, nel senso della funzione sociale del linguaggio (S. Girolamo nella Volgata l’aveva reso col verbo latino “eloqui”. Ora,”loquor”, è parlare, comunicare solennemente) proprio l’uso di questo secondo verbo esclude che il parlare in lingue fosse costituito solo da suoni inarticolati, cioè da rumori che non hanno lo scopo di una comunicazione; esclude cioè che non si trattasse di linguaggi, di lingue vere per comunicare tra uomini! Con un altro “rodeo” linguistico il Cultrera collega poi il verbo “apophthenghesthai” col verbo “megalynein” (magnificare, lodare, esaltare) che in At 10,46-48 ha la disavventura di trovarsi dopo il verbo lalein (“li sentivano parlare in lingue e glorificare Dio” ) ed egli arbitrariamente conclude che questo deve significare che il parlare consiste solo nel “parlare per lodare o magnificare” (cfr. Glossolalia, ed.cit., p. 34). Come se non bastasse si affanna, ancora, a ribadire che questo parlare non è “dire”, “comunicare”, ma è un emettere suoni senza comunicare messaggi e contenuti ad altri, non si tratta, cioè di linguaggi socialmente convenzionali” (op.cit., p.35). Il Cultrera poi sbaglia quando afferma che S. Paolo avrebbe confessato di non conoscere la lingua dei Licaoni. Il Cultrera, per questo, cita At 14,11: ma tutti possono controllare che in quel passo degli Atti non esiste nessuna confessione di S. Paolo!

ANALISI DI 1 Cor 12-14

A) S. Paolo nella prima lettera ai Corinzi sia nel vocabolario usato, sia nelle istruzioni che dà su questo dono, si riferisce ad un unico carisma: parlare con il dono delle lingue: a) “Ad un altro le varietà delle lingue; ad un altro, infine, l’interpretazione delle lingue” (1 Cor 12,10); b) “Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?” (1 Cor 12,30); c) “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna” (1 Cor 13,1); d) “Chi parla con il dono delle lingue non parla agli uomini, ma a Dio, giacché nessuno comprende, mentre egli dice per ispirazione cose misteriose. Chi profetizza, invece, parla agli uomini per la loro edificazione. Chi parla con il dono delle lingue edifica se stesso, chi profetizza edifica l’assemblea. Vorrei vedervi tutti parlare con il dono delle lingue, ma preferisco che abbiate il dono della profezia; in realtà è più grande colui che profetizza di colui che parla con il dono delle lingue, a meno che egli anche non interpreti, perché l’assemblea ne riceva edificazione” (1 Cor 14,2-5). Se si trattasse solo di “suoni inarticolati”, di puri “rumori” senza un messaggio o una comunicazione, che esprimerebbero solo il “sentimento” che in quel momento si prova per Dio, o anche se si trattasse solo di “gemiti inesprimibili” (Rom 8,26) non ci sarebbe proprio niente da interpretare, perché l’assemblea ne riceva edificazione. Se i gemiti sono inesprimibili non si vede come si possano, invece, esprimere; se si tratta solo di un sentimento non si vede che cosa si dovrebbe tradurre. Un interprete, serve solo quando qualcuno parla un linguaggio che comunica un messaggio in una lingua che chi ascolta non conosce. Padre Michele Vassallo, cade evidentemente, in contraddizione, quando afferma: “Chi prega in lingue non parla agli uomini ma a Dio”... È una preghiera che non richiede interpretazione” (cfr. Le riunioni di preghiera, ed. S. Michele, 1992, pp. 149-150). Invece S. Paolo pur precisando che chi parla con il dono delle lingue, non parla agli uomini, ma a Dio, afferma che se c’è qualcuno che interpreta quello che si dice con il dono delle lingue, edifica l’assemblea. Il passo di 1 Cor 14,2 è strumentalizzato dai pentecostali-carismatici per sostenere l’esistenza di questo presunto carisma. Si tratta di un unico passo a cui si appellano e che viene estrapolato dal contesto. Bisogna, invece, far scaturire l’interpretazione del carisma dall’insieme dei passi che riguardano questo tema del dono delle lingue, confrontati con le testimonianze dei Padri della Chiesa, del Magistero e della vita dei Santi. Dopo aver individuato bene la natura di questo carisma, alla luce di tutte le testimonianze qualificate che possediamo, si interpreta anche il singolo passo, senza cadere in false letture.
B)Nel mondo vi sono chissà quante varietà di lingue e nulla è senza un proprio linguaggio; ma se io non conosco il valore del suono, sono come uno straniero per colui che mi parla, e chi mi parla sarà uno straniero per me... Perciò chi parla con il dono delle lingue, preghi di poterle interpretare” (1 Cor 14,10-11.13). L’espressione “nel mondo vi sono varietà di lingue”, (che si riferisce chiaramente a linguaggi umani, a lingue vere per comunicare tra gli uomini, come il francese, il tedesco, il cinese, ecc.), è la stessa espressione usata da S. Paolo in 1 Cor 12,10: “Ad un altro le varietà delle lingue; ad un altro infine l’interpretazione delle lingue”. Cirillo di Gerusalemme nelle sue “Catechesi” espone il Simbolo della fede. Le catechesi sedicesima e diciassettesima sono dedicate allo Spirito Santo e sono dettate a Gerusalemme proprio dopo la lettura della Prima Lettera ai Corinzi. Cirillo parla dei doni dello Spirito Santo e li enumera (cfr. Catechesi, Città Nuova Editrice, Roma, 1993, p. 356 - Cat. 16,12). La catechesi diciassettesima raccoglie le testimonianze del Nuovo Testamento per spiegare la dottrina sullo Spirito Santo: mai Cirillo riferisce di questo presunto carisma inventato dai gruppi pentecostali-carismatici, ma sempre la spiegazione che egli dà del dono delle lingue è che esso consiste nel parlare lingue straniere mai apprese a scuola. “Lo Spirito Santo li fece parlare in molte lingue. Essi cominciarono a parlare in altre lingue /.../ Pietro e Andrea che erano Galilei - dice Cirillo - parlavano come persiani o medi; Giovanni e gli altri Apostoli si esprimevano in tutte le lingue parlate dai pagani /.../ Tra i maestri potremmo trovarne uno così bravo da riuscire su due piedi a insegnare lingue mai apprese? Tanti anni di impegno negli studi grammaticali e nelle altre discipline hanno loro insegnato a parlare correttamente soltanto il greco, e neppure tutti lo parlano con pari perfezione /.../ Lo Spirito Santo, invece, insegna tutte in una volta tante lingue quante essi non riescono ad apprendere nel corso di una vita intera. /.../ Che differenza tra l’ignoranza della loro vita precedente e l’inaudita capacità repentinamente acquisita di parlare lingue diverse! (op.cit. pp. 388-389 - Cat. 17,16). “Il dono dello Spirito riscattò la confusio- ne delle lingue a Babele (cfr. At 2,6; Gen 11,7-9)” (op.cit. p. 389 - Cat. 17,17). La Liturgia delle Ore riporta un altro brano delle “Catechesi” di San Cirillo da Gerusalemme ( Cat. 18,27 ) dove il dono delle lingue è chiaramente indicato essere costituito dai generi di linguaggi umani, non “suoni” senza significato o “rumori” inarticolati: “Dio... nella Chiesa Cattolica, pose anzitutto gli Apostoli, in secondo luogo i profeti, in terzo luogo i dottori, poi le autorità, infine i doni delle guarigioni, gli aiuti, i governi, i generi di linguaggio ( cfr. 1 Cor 12,28 ), e ogni specie di virtù” (cfr. Liturgia delle Ore, Vol. III, Ufficio delle Letture, Giovedì, 17a settimana del Tempo ordinario, 2a lettura, p. 536). I Padri della Chiesa costituiscono un indispensabile punto di riferimento per l’esperienza cristiana in quanto sono testimoni profondi e autorevoli della più immediata tradizione apostolica e partecipi direttamente della vita della comunità cristiana; in essi la tematica pastorale, dottrinale, spirituale è ricchissima. In tutti i Padri della Chiesa, dove è affrontato il tema del dono delle lingue, esso è sempre spiegato come capacità, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, di parlare lingue mai apprese a scuola. S. Ireneo di Lione: “Nella Chiesa udimmo molti fratelli, aventi doni profetici, che parlavano mediante lo spirito in tutte le lingue” (Adv. Haer. Libro V, cap. 6; Pg 7, 1137). “Tanto Origene quanto Ireneo interpretano il parlare in lingue, come capacità di parlare lingue sconosciute /.../ parlare una lingua straniera senza averla appresa, per puro dono dello Spirito” (Giuseppe D’Amore, Spirito e carismi, Ed. Vocazioniste, 1989, p. 21 e p. 26).

1 Cor 14,18-19

“Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue molto più di tutti voi; ma in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue” (1 Cor 14,18-19). S. Paolo dice di parlare con il dono delle lingue più di quanto lo facciano i fedeli di Corinto, ma non dice di parlare tutte le lingue dei popoli dove andrà ad evangelizzare. I doni dello Spirito, infatti, agiscono sotto l’ispirazione dello Spirito Santo: il dono delle lingue, come gli altri doni, è un dono che lo Spirito Santo “aziona” quando vuole, dove vuole e come vuole, quando e dove lo ritiene opportuno e come lo ritiene opportuno, per l’utilità comune. Quindi non è posseduto umanamente, né l’uomo può decidere lui, quando usarlo e se usarlo. Se qualcuno si illudesse invece di poterlo azionare “a comando”, così come posso usare il mio braccio e la mia mano quando voglio, si sbaglia grandemente e se, apparentemente lo fa, è perché si tratta di una costruzione solo umana, con la quale si cerca di “scimmiottare” artificiosamente il vero dono dello Spirito. Quei “carismatici” che aprono la bocca e presumono di parlare in lingue quando vogliono, stiano sicuri che esercitano un falso carisma, un carisma che è “costruzione delle mani dell’uomo”, (Sal 115,4) (Sal 135,5) si tratta, cioè, di una costruzione artificiale fatta utilizzando solo le proprie capacità naturali con le quali si scimmiotta il vero carisma. Gli Apostoli agivano sotto l’azione della Signoria dello Spirito Santo e persino se evangelizzare o no e dove evangelizzare, era deciso dallo Spirito Santo (cfr. At 16,6-7). Pur possedendo quel carisma, è lo Spirito Santo che “soffia” dove vuole e come vuole (Gv 3,8) e decide di donare quella o un’altra lingua, in una circostanza oppure in un’altra circostanza, un salmo o un discorso in lingue, un intervento breve o lungo, ma questo non può essere deciso dal glossolalo stesso, che non è “padrone” delle manifestazioni dello Spirito né può pretenderle ma, invece, è sottoposto alla varietà e alla novità delle iniziative dello Spirito Santo. Coloro che pensano di usare questo presunto carisma “a comando”, oppure che ripetono sempre, monotonamente, la stessa frase in lingue e spesso sempre negli stessi momenti degli incontri, sono schiavi di una illusione, di un idolo creato con le loro mani.

1 Cor 14,21-22

Sono false, dunque, le argomentazioni del Cultrera che prima sbaglia, seguendo Origene, ad attribuire a S. Paolo di parlare col dono delle lingue più di tutti i fedeli di Corinto, non di parlare tutte le lingue! Infine sbaglia nel presentare il fatto che “risulta dai documenti storici che S. Pietro si serviva di interpreti per il greco e il latino” (cfr. Glossolalia, ed.cit., p. 62) come una prova contro il fatto che il dono delle lingue consiste nel parlare lingue straniere mai apprese a scuola, perché ancora non ha compreso che il dono delle lingue agisce solo sotto ispirazione dello Spirito Santo, per cui se non c’è questa ispirazione, il dono rimane passivo, inerte, inutilizzato. È lo Spirito Santo che “soffia” quando vuole e dove vuole ed è lo Spirito Santo a decidere se “ispirare” oppure non ispirare il dono delle lingue; ed è sempre lo Spirito Santo che decide quale lingua ispirare, quando lo ritiene opportuno, in obbedienza ai disegni di Dio che solo lo Spirito conosce. È il glossolalo che dipende dallo Spirito Santo e dalle sue ispirazioni e non il contrario! Proprio perché possiede il vero dono delle lingue, non conosce, perché non l’ha mai studiata o imparata umanamente, la lingua in cui si esprime quando parla in lingua! Pur possedendo il dono delle lingue il glossolalo inoltre resta dipendente solo dall’azione dello Spirito Santo. La stessa dipendenza dallo Spirito Santo si ha anche per gli altri doni: anche colui che è profeta non è sempre ispirato e deve “attendere” che lo Spirito “soffi” per profetizzare e può profetizzare solo quello che lo Spirito decide di comunicare. Il profeta Natan, quando Davide gli dice che vuole costruire una casa per l’arca di Dio, risponde al Re: “Và, fà quanto hai in mente di fare, perché il Signore è con te”. Ma quella stessa notte questa parola del Signore fu rivolta a Natan: “Và e riferisci al mio servo Davide... “Io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere...  Egli edificherà una casa al mio nome” (2 Sam 7,3-5.12-13). Anche nella vita di tutti i santi il dono dello Spirito entra in azione quando lo Spirito decide e dove lo Spirito decide e sempre se e quando lo Spirito Santo lo ritiene opportuno per l’utilità comune, secondo i disegni di Dio.
h) “Sta scritto nella Legge: Parlerò a questo popolo in altre lingue e con labbra di stranieri, ma neanche così mi ascolteranno, dice il Signore (Is 28,11-12). Quindi le lingue non sono un segno per i credenti, mentre la profezia non è per i non credenti ma per i credenti” (1 Cor 14,21-22).Settimio Cipriani così commenta questi versetti: “La Bibbia stessa presenta il “parlare in lingue” più come un segno di punizione che di benedizione (vv. 21-22). Il passo biblico riportato (Is 28,11-12) preannunzia l’invasione della Giudea da parte di Sennacherib con i suoi Assiri, parlanti una lingua forestiera, per punire gli increduli e “infedeli” Ebrei. Interpretando il passo in senso accomodato, S. Paolo conclude dicendo che il dono delle lingue è “un segno di sfavore per sudditi disobbedienti che non meritano doni più elevanti” (P. Bonsirven), invece la profezia è sempre stata data come pegno e segno di favore ai buoni” (Le lettere di S. Paolo, ed.cit., nota 20-22, pp. 212-213). S. Paolo sta fornendo ai Corinzi le argomentazioni per comprendere la gerarchia dei carismi e considerarli ognuno nel loro giusto valore. La citazione del profeta Isaia si riferisce chiaramente a lingue straniere, a linguaggi stranieri e S. Paolo nel v. 22, contro l’esaltazione indebita che i Corinzi, evidentemente, facevano della glossolalia, dice che invece, la glossolalia è un segno che Dio usa per richiamare Israele dalle sue infedeltà, per richiamare gli infedeli e farli tornare alla fede: il testo della Neo-Vulgata, infatti, parla solo di fidelibus e diinfedelibus ed è quindi in concordanza e continuità col passo di Isaia utilizzato da S. Paolo. I Corinzi, dunque, sbagliano a dare tanta importanza al dono delle lingue, anzi, dovrebbero meditare sul significato di questo segno che Dio dà loro e operare una revisione del loro rapporto con Dio e con i fratelli. Ricordiamo, infatti, che nella comunità di Corinto, S. Paolo deve intervenire per correggere molti abusi: ci sono divisioni e si formano “partiti” (1 Cor 1,10-13); si trascura la centralità del mistero della Croce (1 Cor 1,17-31); c’è tra di loro invidia e discordia perché sono ancora carnali e non sono uomini spirituali (1 Cor 3,1-4); si sente parlare tra di loro di una immoralità tale che non si riscontra neanche tra i pagani, al punto che c’è un caso di incesto (1 Cor 5,1-13); litigano fra di loro e poi si appellano, per risolvere queste questioni, a tribunali pagani (1 Cor 6,1-11); S. Paolo deve esortarli a fuggire la fornicazione (1 Cor 6,12-20); le loro riunioni si svolgono per il peggio, e quando si mangia, uno ha fame ed un altro è ubriaco (1 Cor 1l,17.20-22); molti mangiano e bevono il corpo e il sangue del Signore in modo indegno oppure senza riconoscere il corpo e sangue del Signore e per questo vi sono tra loro molti ammalati ed infermi e un buon numero sono morti (1 Cor 11,27- 30) e infine ci sono gli abusi nell’uso dei carismi (1 Cor 12-14).

1 Cor 14, 23-25

1) “Se pertanto quando si raduna insieme l’assemblea, tutti si mettessero a parlare in lingue, qualora entrassero dei semplici ascoltatori (in greco, idiotai ) o degli infedeli (in greco, apistoi), non direbbero forse che siete dei pazzi? Se invece tutti si mettono a profetare ed entrasse un infedele o un semplice ascoltatore, verrebbe giudicato da tutti, i segreti del suo cuore diventeranno manifesti ed egli cadendo con la faccia a terra adorerebbe Dio, proclamando che “veramente Dio è in mezzo a voi” (1 Cor 14,23-25). Siccome Dio “non è un Dio di disordine, ma di pace (v. 33) tutto si deve svolgere in ordine armonico in maniera da edificare. S. Paolo esclude, dunque, quell’accozzaglia di carismi, quel concentramento simultaneo di carismi, per cui tutti, contemporaneamente, si mettono ad esercitare i carismi creando così un frastuono e un disordine che non viene da Dio ma è abuso umano, abuso che spesso, appunto, caratterizza gli incontri dei gruppi carismatici. Sia per il dono delle lingue, sia per la profezia parlino, dice S. Paolo, in due o al massimo in tre e ciascuno per turno; per il dono delle lingue dopo cideve essere uno che interpreti, altrimenti il glossolalo taccia; per la profezia dopo che i profeti parlano, gli altri giudichino. Se a un altro che sta seduto viene fatta una rivelazione, il primo taccia: infatti uno alla volta possono tutti profetare (1 Cor 14,27-33).

1 Cor 14, 37-40 

Prima di terminare l’Apostolo ricorda che: “Se qualcuno crede di essere profeta o spirituale, riconosca che ciò che vi scrivo è comando del Signore; se qualcuno non lo riconosce, neppure lui è riconosciuto. Cosicché, fratelli miei, desiderate pure ardentemente di profetare e non vogliate impedire di parlare in lingue; tutto però avvenga decorosamente e con ordine” (1 Cor 14,37-40). Settimio Cipriani così commenta questo ultimo passo: “L’apostolo ricorda che tutto quanto ha detto deriva dal Signore (v. 37); nessuno perciò si ribelli, perché in tal maniera dimostrerebbe di non essere veramente carismatico e Iddio lo “ignorerebbe” (v. 38). Il distintivo dei veri carismatici è l’ordine e l’obbedienza. “Niente tanto edifica, commenta S. Giovanni Crisostomo, quanto il decoro, la pace, il retto ordine, la carità e questo vale non solo per le cose spirituali, ma per tutte” (cfr. Settimio Cipriani, Le lettere di S. Paolo, ed.cit., nota 37-40, pp.215-216).

VERE LINGUE STRANIERE

Secondo Settimio Cipriani, S. Ireneo è l’ultimo scrittore a darci testimonianza che il fenomeno si verificava, in alcune Chiese, ancora al suo tempo e S. Ireneo riferisce: “Nella Chiesa udimmo molti fratelli, aventi doni profetici, che parlavano mediante lo Spirito in tutte le lingue” (Adversus haereses, libro V, cap. 6). L’espressione di S. Ireneo indica, chiaramente, che si tratta di lingue straniere, non apprese attraverso lo studio, proferite sotto l’azione dello Spirito. Infatti, anche “per moltissimi esegeti” (Sickenberger, Knabenbauer, Cornely, Prat, Fonck, Spicq, Sales, Jacono, Gachter, ecc.) - il parlare con il dono delle lingue - si tratta di vera locuzione in lingue sconosciute, come avvenne nel giorno di Pentecoste (At 2,4 ss.); per altri, invece, (Rohr, Gutjahr, Allo, Huby, Lyonnet, ecc.) si tratterebbe di uno stato particolare di entusiasmo e di esaltazione prodotto dallo Spirito Santo, durante il quale il carismatico incominciava ad improvvisare lodi al Signore in un linguaggio concitato, fatto di parole spezzate, di cui era impossibile seguire il filo logico: parole ebraiche, aramaiche, ecc. potevano per di più facilmente intramezzarsi al greco corrente, dato il cosmopolitismo della popolazione di Corinto” (cfr. Settimio Cipriani, Le lettere di S. Paolo, ed.cit., note 37-40, p. 216). Si noti che anche per coloro che inclinano per la spiegazione del linguaggio concitato, si tratta, comunque, di emettere sempre parole di lingue straniere non apprese attraverso lo studio! Mai, dunque, si ritrova né nella Sacra Scrittura, né nei Padri e, vedremo, mai neanche nella vita dei santi questo rocambolesco, fantomatico e falso carisma che si produce negli incontri del Rinnovamento. La Tradizione della Chiesa lo ignora. I maestri dello Spirito ricordando l’insegnamento della preghiera da parte di Gesù, insegnano che il Signore Gesù non ha mai detto di pregare in maniera “pre-concettuale e non oggettiva”, “con suoni senza significato, che non corrispondono ad una realtà oggettiva”, “con borbottii fatti di suoni inintellegibili”, “con un linguaggio indecifrabile e incomprensibile”, con "rumori sconclusionati". Il falso carisma importato acriticamente dal mondo protestante, che essi chiamano glossolalia è solo una caricatura grottesca della vera glossolalia. Si tratta di un chiaro falso e di una clamorosa frode, incompatibile e inesistente nella Tradizione della Chiesa.

2) PADRI E SCRITTORI ECCLESIASTICI

A) SAN MASSIMO IL CONFESSORE (circa 580-662), monaco e teologo, accenna a questi doni elargiti dal Signore nella sua trionfale ascesa al Padre. “Ecco allora che il Signore, ascendese al cielo /.../ Gesù, tornando oggi ad assidersi alla destra del Padre, ha elargito doni ai discepoli; non certo talenti d’oro o d’argento, ma i doni celesti dello Spirito. Tra tutti i doni e grazie gli Apostoli ebbero quello di parlare diverse lingue, cosicché un uomo di razza ebraica poté proclamare la gloria del Cristo nella feconda loquela greca o romana; gli orecchi dei forestieri, che non avrebbero potuto intenderla nella lingua ebraica, conobbero nella propria lingua la redenzione del genere umano».
B) L’AMBROSIASTER - un autore patristico del IV sec. d.C. - ha scritto un “Commento alla Prima Lettera ai Corinzi” (pubblicato nella Collana Testi Patristici, Città Nuova Editrice, volume n° 78). Commentando 1 Cor 14,10 egli dice: “Molti sono i generi di lingue. Eppure (tutti) hanno il significato delle proprie parole, per essere compresi” (p. 190). Infine in 1 Cor 14,11, S. Paolo dice letteralmente: “Se io non conosco il senso della voce, sarò barbaro per colui che parla, e chi parla sarà barbaro per me”. Settimio Cipriani così commenta questo versetto: “Dal versetto 11 risulterebbe che si parla di lingue umane /.../ Per i Greci e per i Romani era “barbaro” (v. 11 ) chi parlava una lingua straniera, da loro non intesa; altrettanto capiterà al glossolalo nel confronto dei suoi ascoltatori, e viceversa (cfr. Le Lettere di S. Paolo, Cittadella Editrice, 1971, nota 10-11, pp. 210-211). La nota della Bibbia di Gerusalemme a questo versetto 1l dice: “Straniero = alla lettera “barbaro”: colui che non comprendeva il greco”. L’Ambrosiaster commentando il passo di 1 Cor 12,28 dice: “È dono di Dio sapere molte lingue” (p. 179). Ma il suo contributo più illuminante lo fornisce quando commentando proprio il passo di 1 Cor 14,14: “Quando prego con il dono dellelingue, il mio spirito prega, ma la mia intelligenza rimane senza frutto. Che farà dunque? Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l’intelligenza. Altrimenti se tu benedici soltanto con lo spirito, colui che assiste come non iniziato come potrebbe dire l’ Amen al tuo ringraziamento, dal momento che non capisce quello che dici? Tu puoi fare un bel ringraziamento, ma l’altro non viene edificato” (1 Cor 14,14-17). Egli spiega così questo passo: “E’ chiaro che il nostro animo ignora quel che dice se parla in una lingua che non conosce, come suole accadere per i Latini allettati a cantare in Greco, col suono delle parole, pur ignorando cosa essi dicono. Lo Spirito, che è dato nel Battesimo, sa cosa prega l’animo, quando parla o supplica in una lingua a lui ignota; ma la mente, che è l’animo, rimane senza frutto” (cfr. idem, pp. 190-191). Settimio Cipriani così commenta lo stesso passo: “Neppure il glossolalo, dunque, riceve tutto il vantaggio possibile dal suo carisma: in-fatti, anche se con la punta della sua anima egli conosce e sperimenta di essere investito dallo “Spirito”, la sua capacità logica e discorsiva (“mente”) non sa però ricavarne alcun tessuto di idee da comunicare agli altri...come chi recitasse il Breviario congiunto con lo “spirito” a Dio, senza però comprendere niente di quanto dice” (cfr. Settimio Cipriani, Le Lettere di S. Paolo, ed.cit., nota 12-17, p. 211). Per questo motivo S. Paolo pochi versetti prima aveva detto: “Perciò colui che parla in lingue, preghi di poterle interpretare”; ottenuta attraverso la preghiera la grazia di poter interpretare quanto detto col dono delle lingue allora, e solo allora “Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con la mente; salmeggerò con lo spirito, ma salmeggerò anche con la mente. Altrimenti, se tu rendi grazie in spirito, come potrà colui che occupa il posto del semplice (ascoltatore) dire “Amen” al tuo ringraziamento? Egli infatti non sa cosa dici”. Settimio Cipriani bene ha tradotto il versetto 15: “salmeggerò con lo spirito ma salmeggerò anche con la mente” che è la perfetta traduzione della Neo-Vulgata: “Orabo spiritu, orabo et mente; psallam spiritu, psallam et mente”. Questa traduzione è confermata dallo stesso S. Paolo che nel riassunto finale dice: “Che fare, dunque, fratelli? Quando vi radunate ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle. Ma tutto si faccia per l’edificazione” (1 Cor 14,26). S. Ireneo di Lione, padre della dogmatica cattolica, è l’ultimo scrittore a darci testimonianza che il fenomeno (quello autentico)si verificava ancora al suo tempo (cfr. Adversus haereses, V, 6,1). In seguito scomparve ogni traccia. Dai Padri della Chiesa, all’Ambrosiaster Tommaso d’Aquino il dono delle lingue è sempre stato interpretato come la capacità, sotto l’azione dello Spirito Santo, di parlare lingue straniere senza averle mai apprese attraverso lo studio. Per “lingue” si intende il linguaggio particolare di un popolo, di una nazione, un linguaggio finalizzato alla comunicazione sociale, cioè linguaggi comunque chiari e intelligibili. È il vero dono delle lingue posseduto da S. Vincenzo Ferreri (1350-1419) da S. Ludovico Bertrando (1522-1581), da S. Francesco Solano (1549-1610) da San Padre Pio da Pietrelcina (1887-1968), mai è stato confuso, come fanno i nostri carismatici, con “suoni inarticolati, con rumori senza significato, una specie di suoni pre-concettuali e pre-razionali coniati e usati a caso, a somiglianza del linguaggio che usano i bambini” (cfr. Salvatore Cutrera, La Glossolalia, Edizioni Paoline, 1979, pp. 68-87). Si tratterebbe dunque di una sconcertante regressione infantile, di un ritorno a stadi immaturi addirittura attribuiti allo Spirito Santo. Questa “favola” costituisce una rottura con tutta la tradizione cattolica perché mai nella vita dei Santi e delle Sante cattoliche, in qualsiasi epoca, si è mai osservato o ritrovato un tale contorto fenomeno.

FALSA GLOSSOLALIA 

3) FAVOLE PENTECOSTALI

Questo falso carisma, prodotto negli incontri del Rinnovamento, è ben fotografato e descritto, nei loro scritti. Si tratterebbe di una presunta “lingua spontanea, personale, coniata liberamente e a caso dal glossolalo” (cfr. Glossolalia, ed.cit., p. 68); sarebbe un presunto “linguaggio preconcettuale, prefazionale /.../ non è perciò lingua vera e propria./.../ Assomiglia al linguaggio che a volte usano i bambini per esprimersi, prima che abbiano imparato la lingua materna” (cfr. Glossolalia, ed.cit., p. 75); consisterebbe in “suoni articolati, non codificati da strutture convenzionali, ma usati “a caso”, in un parlare non privo, a volte, di analogie con una lingua vera e propria, per esprimere a Dio lode e azione di grazie” (cfr. Glossolalia, ed.cit., p. 87).
P. Robert Faricy. SJ, si prende la responsabilità di affermare: “Quando parlo o canto in lingue, le sillabe che uso non stanno a significare pensieri o idee, non rappresentano un concetto particolare, non hanno un contenuto specifico. Quando faccio uso del dono delle lingue, balbetto, dico, canto sillabe prive di senso. Pregando in lingue, ordinariamente non si fa uso di un linguaggio vero e proprio, pur avendone il suono. Studiosi di idiomi antichi e moderni hanno registrato su nastro alcune preghiere in lingue di migliaia di persone, hanno analizzato ciò che era stato raccolto ma non hanno trovato alcuna struttura idiomatica non solo di linguaggi conosciuti, ma perfino di un qualsiasi linguaggio possibile. È dunque più simile alla danza o alla gestualità. /.../ è un tipo di preghiera “superiore” (sic!)”. Prima dice giustamente che “Non si può acquisire il dono delle lingue”, ma poi si contraddice quando afferma: “Bisogna arrendersi, consegnarsi allo Spirito Santo. Come? Semplicemente andando in un luogo dove si può star soli, forse inginocchiarsi, sollevare le mani e chiedere al Signore quel dono; poi, “consegnarsi” allo Spirito e iniziare dicendo o cantando, per sbloccarsi, alcune sillabe senza senso, come un bimbo che balbetti alla propria madre; (sic!) infine, lasciar fluire le “parole” come lo Spirito guida. /.../ Se si desidera cantare, sarà utile cominciare su una nota: penserà poi lo Spirito a darne altre (sic!). /.../ A volte può essere di grande aiuto, all’inizio, cercar di imitare la preghiera in lingue della persona con cui si prega; una volta preso l’avvio, (sic!) si pregherà o si canterà da soli”. Inoltre afferma: “Per ricevere il dono delle lingue, non occorre essere pentecostali o “carismatici”. Se i Mussulmani possono cantare in lingue al Cairo, non c’è ragione per cui i Cristiani non possano pregare o cantare al Signore in lingue in ogni parte del mondo” (da «Alleluia”, gennaio-aprile 1989). A noi questo tecnica di avviare il dono delle lingue come si avvia la motocicletta “all’americana”, appare chiaramente solo come un ridicolo imbroglio. E poi insiste: “Parlare in lingue non significa usare la struttura di una lingua reale, ma è piuttosto un balbettare a Dio, un tipo di preghiera come quella di un infante che non può ancora parlare, ma emette suoni privi di significato preciso. /.../ Lo scopo della lode, non è quello di comunicare dei messaggi di significati precisi./.../ Dove la lode trascende i concetti, il dono delle lingue comincia. /.../ Il contenuto della preghiera in lingue non è concettuale. Sembra venire dalle regioni subcoscienti o precoscienti della psiche, dalle regioni al centro di noi stessi ma al di sotto del livello della coscienza. /.../ Malgrado il fatto che non sia strutturata come una lingua reale, la preghiera in lingue può contenere l’essenziale di un linguaggio. /.../ La preghiera in lingue è un 1inguaggio” come la musica, la danza, e la pittura; sono tutte 1inguaggi”. /.../ il contenuto della preghiera in lingue sembra provenire dal subcosciente /.../ Si deve spiegare che, per cominciare a pregare in lingue, basta balbettare suoni senza senso, come un “insensato” o un infante che non sa parlare, (sic!) nello stesso tempo, guardare il Signore, lasciando a lui di trasformare questi suoni in preghiera di lode” (da “Alleluja”, marzo-aprile 1979). Non c’è niente di tutto questo nella Bibbia, specialmente dove si parla di glossolalia. Come si può constatare è stata costruita artificialmente “una favola”, inventata di sana pianta, secondo la quale lo Spirito farebbe emettere suoni a caso, uno pseudo linguaggio pre-concettuale e prefazionale, non-oggettivo, un linguaggio indecifrabile e incomprensibile, che assomiglierebbe a quello usato dai bambini prima che abbiano imparato la lingua materna: siamo di fronte ad una regressione, dunque, a stadi di sviluppo immaturi, ad un vero e proprio infantilismo antropologico: lo Spirito farebbe retrocedere l’uomo agli stadi immaturi infantili perché così si garantirebbe la semplicità spirituale! Insomma l’immaturità psicofisica sarebbe il segreto o la chiave d’ingresso, per la santità! Si tratta, evidentemente, di un falso, di una frode.
Lo Spirito eleva l’uomo, la grazia lo porta a livelli soprannaturali non raggiungibili dall’uomo con le sole sue forze, ma lo Spirito, quando agisce, non scompagina l’uomo, non riduce l’uomo, non lo fa retrocedere a stadi di incapacità funzionale già superati dal normale sviluppo neuro-fisiologico: i bambini parlano nel modo loro tipico perché hanno un uso ancora immaturo delle loro facoltà, non sono ancora padroni delle loro facoltà; per cui con questo falso carisma, in questi gruppi, si propone un regresso ad una condizione psico-fisica imperfetta, che indica una insufficienza, una impotenza. I bambini, se balbettano, dicono mezze parole, mezze frasi oppure frasi sconnesse è perché non hanno ancora sviluppato pienamente le loro potenzialità: non consiste in questo la loro semplicità! Quel loro stadio di sviluppo della facoltà comunicativa corrisponde solo ad una immaturità e incompletezza funzionale: è veramente sciocco pensare che questo corrisponda, di per sé, ad una condizione di semplicità perché, allora, quando acquistiamo l’uso normale e completo della parola diventeremmo tutti... complicati e superbi!!! A parte poi l’aberrante indicazione, già sottolineata, che si potrebbe avviare il dono delle lingue come si avvia “all’americana” la motocicletta: il soggetto potrebbe lui cominciare a fare un pò di rumori, a emettere suoni a caso, e poi arriverebbe il dono dello spirito!!! Siamo proprio al grottesco, alla falsificazione completa e, ci sia consentito, al ridicolo. L’aberrante posizione descritta è sostenuta, perfettamente in linea con le posizioni del Rinnovamento, dal P. Salvador Carrello Alday in un libricino curato da P. Michele Vassallo, in cui, a proposito di questo falso carisma si raggiungono toni grotteschi e ridicoli. Dopo aver detto che esistono tre doni di lingue (sic!), due infusi e uno acquisito: il primo è quello descritto in At 2,4-11; il secondo è quello descritto da S. Paolo in 1 Cor 14,2.28 (la differenza fra questi doni è che “il primo di usa per parlare di Dio alle persone, mentre il secondo si usa per parlare prima con Dio e, solo in un secondo momento, alle persone” (cfr. Rinnovamento cristiano nello Spirito Santo, Edizioni S. Michele, 2a ed. riveduta e corretta, pp. 104-105); l’autore in questione si lascia andare ad una farneticante spiegazione: “Il terzo dono abbiamo detto che è quello acquisito ed è quello descritto in Mt 18,3b-4: “...se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino sarà il più grande nel regno dei cieli”. Le parole “se non vi convertirete” stanno ad indicare che questo cambio deve avvenire mediante uno sforzo personale, il quale ci deve riportare alla condizione di “fanciullo”. Ci chiediamo: come parlano i fanciulli? Usano parole ricercate e belle frasi? Quando parlano ai genitori, come parlano? I genitori si aspettano dai loro bambini delle belle espressioni... I fanciulli... si esprimono nel modo più facile ed innocente che possa esistere. La mamma e il papà sono le uniche persone che possono intendere il linguaggio del loro bambino quando comincia a parlare...Nelle riunioni di preghiera si osservano spesso persone che con le mani tese verso il cielo pronunciano mezze parole o solo “suoni”; quello è il gesto del bambino che vuol manifestare tutto il suo amore verso il padre ma non ha parole per esprimerglielo. Quei gesti, quei suoni, sono dardi di amore ardente che scaturiscono dal cuore del figlio per penetrare nel cuore del nostro padre” (op.cit., pp.106-107). È veramente sconcertante affermare che questo presunto terzo dono delle lingue è quello descritto in Mt 18,3b-4! È ben altra la semplicità di spirito di cui parla Gesù e quando dice che bisogna diventare piccoli come i bambini non intende, certamente, proporre una regressione fisica agli stati infantili, anche solo limitata al linguaggio. La sciocca motivazione proposta assomiglia ad un altro errore simile già commesso, nella lunga storia della Chiesa, da parte di un gruppo di persone evidentemente, immature: durante una fase del Medio-Evo un gruppo di persone, riunite in comunità, avendo letto nel Vangelo che bisognava diventare come i bambini per entrare nel regno dei cieli, scesero in cortile e si misero a fare il girotondo!
Ripetiamo che questa regressione all’incapacità linguistica tipica dei fanciulli non ha niente a che vedere col vero dono delle lingue, ma è solo una costruzione umana, artificiale; è “’opera delle mani dell’uomo” (cfr. Sal 115,4; 2 Re 19,18), “si sono fatti idoli di loro invenzione” (Os 13,2) con cui si tenta di scimmiottare il vero carisma delle lingue! Inoltre dietro l’esaltazione dell’irrazionale e dell’emozionale c’è il vecchio pregiudizio antirazionale del protestantesimo (Lutero diceva che la ragione è la prostituta dell’anima e la concubina dello spirito) e quindi viene veicolata e proposta un’antropologia deficiente e/o falsata.

VERA GLOSSOLALIA

IL VERO DONO DELLE LINGUE

A) Il dono delle lingue consiste nel parlare lingue sconosciute al soggetto: consiste nel parlare lingue straniere senza averle apprese attraverso lo studio, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, e per lingue si intende il linguaggio particolare di un popolo: si tratta, cioè, sempre di linguaggi umani con il loro preciso significato e con le caratteristiche tipiche del linguaggio umano finalizzato alla comunicazione sociale. Il dono delle lingue dipende dall’azione dello Spirito, per cui il glossolalo non è “padrone” del dono, non può azionarlo “a comando”, né può pretendere costantemente le stesse manifestazioni dello Spirito: lo Spirito Santo “aziona” questo dono delle lingue quando vuole, dove vuole, come vuole e in chi vuole, quando e dove lo ritiene opportuno per l’utilità comune a seconda dei progetti di Dio; per cui, ad esempio, se oggi Mario, sotto l’azione dello Spirito Santo ha parlato in una lingua straniera questo non significa che domani la parlerà di nuovo; oppure può accadere che dopodomani ne parlerà altre diverse, ma è solo lo Spirito Santo che deciderà se parlerà in lingue, quali lingue parlerà, in che misura, in che modo, quando e dove parlerà in lingue: come gli Apostoli vivevano sotto la Signoria dello Spirito Santo, così, ogni cristiano deve accogliere ogni giorno i doni che quel giorno lo Spirito dispensa per quel giorno. Nessuno deve pretendere di avere il “monopolio” del carisma, nessuno può presumere di usare questo dono, quando vuole e dove vuole, come chi apre e chiude una porta quando vuole perché ne ha le chiavi. Qui le chiavi le ha solo lo Spirito Santo, non il glossolalo. Anche nel caso in cui il dono costituisce un abito, bisogna ricordare che l’abito rende solo lo spirito dell’uomo docile a seguire le mozioni dello Spirito Santo, ma se non c’è la mozione dello Spirito, tutto tace e rimane fermo.
B) Il dono delle lingue costituisce un unico carisma: lo stesso dono delle lingue, sempre sotto l’azione dello Spirito Santo, una volta può rivolgersi direttamente agli uomini per annunciare “le grandi opere di Dio” - come a Pentecoste - un’altra volta può rivolgersi prima a Dio, per parlare con Dio e poi, secondariamente, se c’è chi interpreta oppure se il glossolalo stesso ha ottenuto, attraverso la preghiera, di poter anche interpretare, si rivolge anche ag1i uomini - come avveniva nella comunità di Corinto. È lo stesso, unico carisma che una volta viene usato come in At 2,1-11 e un’altra volta è usato come è descritto in 1 Cor 12-14.
C) “La glossolalia o dono delle lingue - dice ANTONIO ROYO MARIN - consiste ordinariamente in una conoscenza infusa di idiomi stranieri senza nessun previo studio o esercizio. Il prodigio si verifica in colui che parla o in coloro che ascoltano, secondo che si parla o si intende in lingua fino allora sconosciuta. Alle volte, però, il miracolo assume un carattere ancora più meraviglioso: mentre l’oratore si esprime in un idioma straniero, gli uditori lo ascoltano nel loro linguaggio completamente differente; oppure quello che è ancora più prodigioso, uomini di diverse nazioni ascoltano, ciascuno nel proprio idioma, quello che l’oratore va dicendo in un solo idioma completamente diverso. Questa glossolalia raggiunse la sua manifestazione più clamorosa nel giorno di Pentecoste quando gli Apostoli cominciarono a magnificare in diverse lingue le grandezze di Dio (At 2,4)” (Teologia della perfezione cristiana, Ed. Paoline, 1987, pp.1047-1048).

D) S. TOMMASO D’AQUINO

S. Tommaso D’Aquino nella Summa Theologiae dedica un’intera questione al dono delle lingue che - egli dice - consiste nel parlare lingue straniere senza averle apprese: coloro a cui Gesù aveva detto “andate e ammaestrate tutte le genti” col dono delle lingue non avevano bisogno di essere istruiti dagli altri per poter parlare e intendere quello che gli altri dicevano... inoltre non avrebbero potuto trovare, facilmente, da principio interpreti fedeli... perciò, era necessario che Dio provvedesse loro col dono delle lingue: cosicché come la diversità delle lingue era cominciata quando i popoli si erano abbandonati all’idolatria; così fu dato un rimedio a questa diversità col dono delle lingue, quando i popoli stavano per essere richiamati al culto del vero Dio... Come si legge nella Scrittura, “la manifestazione dello Spirito è concessa per una utilità” (1 Cor 12,7)... Sebbene fosse possibile l’una o l’altra soluzione e cioè che venissero compresi da tutti parlando una sola lingua, oppure che parlassero tutte le lingue; tuttavia era più conveniente che essi stessi parlassero tutte le lingue... Cristo personalmente doveva predicare ad una sola nazione, cioè ai Giudei. Perciò sebbene Egli senza dubbio conoscesse perfettamente tutte le lingue, tuttavia non era necessario che le parlasse. Ecco perché, come scrive S. Agostino (Super Ioan., tract.32) “pur ricevendosi anche oggi lo Spirito Santo, nessuno parla più le lingue di tutte le genti; perché ormai tutte codeste lingue le parla la Chiesa, dalla quale chi è escluso non lo riceve lo Spirito Santo” (S. Th. II-II, p. 176, a.1). S.Tommaso, inoltre, indicando i motivi per cui la profezia è superiore al dono delle lingue, continua ad esplicitare la natura del dono delle lingue: “Il dono della profezia è superiore al dono delle lingue per tre motivi.
Primo perché il dono delle lingue serve a proferire voci diverse, che sono i segni di qualche verità intelligibile... il dono della profezia consiste nella illuminazione stessa della mente per conoscere le verità di ordine intellettivo...così la profezia è superiore al dono delle lingue considerato in se stesso.
Secondo, il dono della profezia implica la conoscenza delle cose: la quale è più nobile della conoscenza delle parole che spetta, invece, al dono delle lingue. Terzo il dono della profezia è più utile... all’edificazione della Chiesa. Così la perfezione dell’opera dello Spirito Santo non solo richiede l’infusione nell’anima del lume profetico, ma anche la glossolalia esterna, per proferire i vari segni del linguaggio... La rivelazione profetica può estendersi a tutti gli oggetti della conoscenza soprannaturale... Invece il dono delle lingue abbraccia una conoscenza particolare, cioè quella del linguaggio umano... L’interpretazione delle lingue, nell’elenco paolino, è ricordata dopo il dono delle lingue perché essa si estende all’interpretazione dei vari generi di lingue” (S. Th. II-II, q. 176, a.2). “Poiché lo Spirito Santo non fa mancare niente di quanto giova al bene della Chiesa, ha provveduto ai membri di essa anche per questo: non solo facendo sì che parlassero in modo da poter essere compresi da genti diverse, mediante il dono delle lingue; ma che parlassero con efficacia, mediante il carisma “della parola” (S. Th. II-II, p.177, a.l). Insieme a S. Tommaso, ci sono tanti altri che interpretano il dono delle lingue come capacità di parlare vere lingue straniere sconosciute (cfr. Giuseppe D’Amore, Spirito e carismi, Ed. Vocazioniste, 1989, p. 56). Per coloro che vivono nell’illusione che solo oggi ci si interessa dei carismi bisogna ricordare che S. Tommaso (1225-1274), nella Summa theologiae, oltre a trattare tutto l’organismo soprannaturale dell’uomo, ha dedicato otto questioni (S. Th. II-II, pp. 171-178) alle grazie carismatiche, comprese la parola di sapienza, la parola di scienza e il carisma della parola, la cui conoscenza è presentata da alcuni come fosse una esc1usività o una novità del Rinnovamento! È consigliabile prima documentarsi e formarsi alla scuola di veri, santi, grandi e seri maestri dello Spirito per evitare il ridicolo in cui cade certa stampa e certa prassi di questi gruppi.

E) UN PÒ DI STORIA

A Pentecoste viene restaurata, per l’intervento di Dio, quell’unità perduta a Babele per colpa della superbia degli uomini; la perdita dell’unità si era tradotta nella perdita dell’unità della lingua e nella nascita di molti linguaggi per cui gli uomini non comprendevano più l’uno la lingua dell’altro: il testo di Gen II,1-9 si riferisce chiaramente a idiomi diversi, lingue con parole diverse. Nella Pentecoste, presentata da Luca come un anti-Bebele, il recupero dell’unità è accompagnato dal dono opposto a quello della confusione delle lingue di Babele: gli Apostoli parlano lingue straniere non studiate o apprese prima e così sono compresi da tutti. “Luca, infatti, interpreta nella sua redazione delle “Fonti” il dono delle lingue come linguaggi chiari ed intelligibili” (cfr. Vincenzo Scippa, La glossolalia del Nuovo Testamento, M. D’Auria Editore, Napoli, p.2). “Per il Dupont, al mattino di Pentecoste, l’universalità della Chiesa trova la sua espressione concreta nel dono che permette agli Apostoli di parlare in altre lingue nel linguaggio particolare di ciascuno dei popoli, ai quali essi davano loro testimonianza” (cfr. Vincenzo Scippa, op.cit., p. 8). “Dice ancora il Godet: dal sec. III fino ai tempi moderni, l’idea che regnava nella Chiesa è stata che il dono delle lingue era la facoltà di predicare il vangelo a popoli diversi, a ciascuno nella sua lingua, senza averla appresa. Questo dono doveva spiegare tra l’altro, all’inizio - la rapida propagazione del Vangelo” (cfr. Vincenzo Scippa, op.cit., p.l0). Già al tempo di S. Giovanni Crisostomo (ca. 347-407) il dono delle lingue non era più presente, almeno come è descritto in 1 Cor 12-14. S. Giovanni Crisostomo commentando 1 Cor 12,1 dice: “Il passo tutto intero è molto oscuro. Questa oscurità proviene dalla nostra ignoranza di ciò che aveva luogo allora, ma non arrivò più ai giorni nostri” (Homilia XIX in I Cor., Patrologia Greca, ed. Migne, LXI, 239). In altra parte, pure si lamenta che “i carismi sono da tempo scomparsi” (Sulla II Epistola ai Tessalonicesi 4; PG 62:485) e che “Ai nostri giorni la chiesa assomiglia ad una signora decaduta che conserva i vani simboli della sua passata grandezza” (Sulla I Epistola ai Corinti 36; PG 61: 312-313). Severo di Antiochia (ca. 465-538), come S. Giovanni Crisostomo, riconosce che “nell’età apostolica numerosi carismi vennero distribuiti ai credenti, e quelli che ricevettero il battesimo degli apostoli ribevettero anche molti doni” (De Oratione 25; Patrologia orientalis, 38:447) (Le citazioni di S. Giovanni Crisostomo e Severo di Antiochia sono riportate in un opuscolo stampato dal Rinnovamento: Ravvivare la fiamma dello Spirito, a cura di Kilian Mc Donnell, Gorge T. Montagne, RnS, 1992, pp. 18-19). “Nei secoli posteriori, osserva uno storico, nulla ci fu nei movimenti spirituali, cristiani o pseudocristiani, che possa identificarsi con la glossolalia descritta da S. Paolo” (cfr. Salvatore Cultrera, Glossolalia, ed.cit., p.21).

F) LO SCOPO DI QUESTO DONO

l vero dono delle lingue fu elargito con più frequenza all’inizio della Chiesa solo perché era necessario agevolare e rendere rapida la diffusione della Chiesa (come sostengono S. Agostino e soprattutto S. Gregorio Magno) in seguito, ordinariamente, lo ritroviamo nella vita di alcuni santi, ma solo quando, dove, come e in che misura lo Spirito Santo ha deciso di “ispirarlo”, e solo quando lo ha ritenuto opportuno o non opportuno, per l’utilità comune, a seconda dei disegni di Dio. Lo Spirito Santo solo quando è necessario e dove è necessario, secondo i progetti di Dio, “soffia” e realizza i piani del Padre: quello che è ingenuo e antiscritturistico è la pretesa di alcuni che lo Spirito Santo agisca come una macchinetta che stampa sempre lo stesso disegno, come la falsa pretesa dei protestanti pentecostali secondo la quale ogni volta che viene effuso lo Spirito Santo si ha il dono delle lingue, negando così la libertà e la gratuità dello Spirito. Per capire meglio l’affermazione di S. Agostino: “Pur ricevendo si anche oggi lo Spirito Santo, nessuno parla più le lingue di tutte le genti (come accadeva frequentemente all’inizio della Chiesa); perché ormai tutte queste lingue le parla la Chiesa” basterà ricordare quanto S. Giovanni della Croce dice a proposito dello “stile di Dio”: “Egli, in via ordinaria, non dice né fa quanto può essere attuato dall’abi-
lità e dal consiglio umano” (Salita del Monte Carmelo, Libro 2, cap. 22, par. 13).
Una volta quindi che la Chiesa si è diffusa in tutte le nazioni e i suoi membri hanno appreso le lingue dei popoli per cui la Chiesa, di fatto, parlava o poteva parlare tutte le lingue dei popoli, il carisma delle lingue, ordinariamente non è stato più elargito con la frequenza con cui veniva donato all’inizio della Chiesa. Il Concilio Vaticano II in un passo dedicato al giorno di Pentecoste sembra proprio avere sullo “sfondo” della sua affermazione la frase di S. Agostino: “Nel giorno di Pentecoste lo Spirito Santo si effuse sui discepoli, per rimanere con loro in eterno, la Chiesa fu manifestata pubblicamente alla moltitudine, ebbe inizio attraverso la predicazione la diffusione del Vangelo in mezzo alle genti, e infine fu prefigurata l’unione dei popoli nell’universalità della fede attraverso la Chiesa della Nuova Alleanza, che parla tutte le lingue e tutte le lingue nell’amore intende e comprende, superando così la dispersione babelica” (Ad Gentes, n. 4).
Nel piccolo libro, già citato, di P. Salvador Carrello Alday, egli riconosce che il giorno di Pentecoste: “Lo Spirito Santo volle dare agli Apostoli un carisma speciale “il dono di parlare in lingue straniere” affinché, grazie ad esso, potessero proclamare davanti ai popoli di tutte le nazioni le grandezze che Dio aveva operato in Gesù” (cfr. Rinnovamento cristiano nello Spirito Santo, ed.cit., p. 48). “Questo fenomeno era il carisma chiamato xenoglassia (N.d.R. = abbiamo già visto che questa distinzione tra xenoglassia e glossolalia è stata inventata solo ai nostri giorni = N.d.R.) “il parlare in lingue straniere” in maniera intelligibile. Questo carisma invitava a pensare che l’unione dell’umanità, disgregata in altri tempi (torre di Babele - Gen 11,1-9) poteva essere restaurata adesso, mediante la predicazione del Vangelo” (cfr. op.cit., p. 32). Una ragione in più per ritenere che il dono delle lingue serve per superare la barriera dei diversi idiomi parlati dagli uomini, consentendo di capire nella propria lingua, il Vangelo annunciato in una lingua straniera che non si conosce. Dopo questo riconoscimento, però, l’autore in questione si lascia andare ad una affermazione falsa, non contenuta nel racconto di Pentecoste: “Oltre la xenoglassia, si manifestò anche il dono delle lingue o glossolalia, della quale parleranno gli Atti (10,46; 19,6) e in 1 Cor 14. Così si spiega la burla di quelli che dicevano “sono pieni di vino nuovo” (cfr. At 2,13). Gli Apostoli, posseduti dallo Spirito, parlavano in uno stato d’esaltazione estatica simile a quella degli antichi profeti (cfr. Nm 11,25-29; 1 Sam 10,56; 1 Re 22,20) (cfr. op.cit., p. 32).

G) TECNICA SOLO UMANA

Il P. Salvator Carrello non solo introduce un elemento falso, perché a Pentecoste il testo lucano parla solo del “dono di parlare lingue straniere” e non dei rumori o suoni inarticolati come fanno i bambini quando non sanno parlare; ma fa anche una valutazione su cui neanche all’interno del Rinnovamento c’è accordo:1) alcuni dicono, come il P. Carello, che questo falso carisma, chiamato in questi gruppi glossolalia e che consisterebbe nel parlare come i bambini prima che hanno appreso la lingua materna, esprimendo mezze parole o solo suoni (cfr. op.cit., p. 106), sarebbe un carisma estatico, altri, invece, dicono che sarebbe non estatico. Tra gli autori che sostengono che non ha carattere estatico si leggono delle vere e proprie aberrazioni che niente hanno a che vedere con una sana spiritualità cristiana. Si leggano, ad esempio, gli sconcertanti e fuorvianti consigli dati da don Serafino Falvo, per praticare questo presunto carisma: “Si cominci a glorificare il Signore ad alta voce, con parole spontanee ed improvvisate, senza preoccuparsi della forma... Dopo qualche minuto smettere di pregare nella propria lingua, e sforzarsi di cavare fuori dalla gola delle articolazioni senza significato (sic!). È a questo punto che lo Spirito Santo potrebbe intervenire dando il suo proprio linguaggio... Non c’è da meravigliarsi se da principio si fa fatica a pronunciare quelle strane articolazioni... Chi nonostante tutti gli sforzi non riesce a ricavarci nulla, non deve perdersi di coraggio. Il dono è lì, basta saperlo tirare fuori, con pazienza e perseveranza, ma soprattutto senza preoccupazione” (cfr. Il risveglio dei carismi, ed. Paoline, pp. 74-76). “Il dono delle lingue, una volta ricevuto, rimane sempre a nostra disposizione per poterlo usare in privato e in pubblico sempre che lo vogliamo” (cfr. L’ora dello Spirito Santo, Ed. Paoline, p. 155). È talmente stravolgente quello che viene proposto che non ha bisogno di commenti. Vincenzo Scippa fa osservare: “Tutto quanto sopra descritto /.../ non sa di tecniche trascendentali? /.../ Il parlare di “suggerimenti pratici” per ottenere il donodelle lingue e l’insistere su un certo meccanismo mortifica lo Spirito. Non c’è niente di tutto questo nella Bibbia, specialmente dove si parla di glossolalia” (cfr. La glossolalia nel Nuovo Testamento, ed.cit., p. 203).
Lo stesso autore contestando la pretesa che “una volta ricevuto questo dono, si resta liberi di esercitarlo in ogni circostanza, escludendo così il carattere estatico del fenomeno” afferma con chiarezza e competenza: “Il carisma biblico del dono delle lingue presenta due caratteristiche chiare e precise: 1) ha un carattere estatico; 2) consiste nel parlare lingue straniere senza averle apprese e per lingue si intende il linguaggio particolare di un popolo” (cfr.La glossolalia nel Nuovo Testamento, ed.cit., p. 198-202). Sarebbe bene, allora, prendere sul serio e meditare sul significato di affermazioni di questo tipo: “Concludendo sulla glossolalia, quale miracolo di parlare lingue non studiate e non capite da chi le parla, pur non dubitando della buona fede e di un certo valore delle testimonianze, si raccomanda la massima prudenza per non esporre a meritate critiche la preghiera del Rinnovamento. Prima di gridare ad un miracolo così grande... bisogna procedere a rigorose verifiche in ogni campo... Il Laurentin, assieme al Sullivan, al Samarin e ad altri, mette in rilievo il fatto che sino al 1974 nessuna delle registrazioni durante la preghiera dei gruppi carismatici, protestanti e cattolici “ha mai rilevato che una lingua vera e propria sia stata parlata da persone che non la conoscevano. Se è veramente accaduto, come qualcuno sostiene, ciò rimane da provare” (cfr. S. Cultrera, Glossolalia, ed.cit., pp. 66-67). Abbiamo visto che non esiste nella Sacra Scrittura e nella Tradizione della Chiesa nessun presunto carisma che consiste nell’emettere a caso suoni, rumori o mezze parole senza significato, come farebbero i bambini prima che hanno appreso la lingua materna. Vediamo, invece, il vero dono delle lingue, nella vita dei veri santi.

IL DONO DELLE LINGUE NEI SANTI

S. VINCENZO FERRERI (1350-1419). In una sua biografia c’è un intero capitolo dedicato al dono delle lingue; in esso si dice che S. Vincenzo Ferreri possedeva, per ispirazione dello Spirito Santo, la capacità di parlare lingue straniere, cioè quelle di ogni popolo nelle loro lingue proprie (S. Vincenzo Ferreri, Vita, Tipografia di Nunzio Pasca, Napoli, 1842, Libro II, Cap.XVI, pp. 418- 423). Ecco il testo letterale: “Attestano tutti gli scrittori che egli predicando nel suo linguaggio nativo e materno, il Valenziano, cioè in lingua Lemovincense che allora si usava a Valenza, era dappertutto inteso come se avesse parlato nelle lingue proprie di tutte le genti che s’imbattevano nelle sue prediche, tedeschi, francesi, spagnoli, italiani, greci, inglesi, ungari ed ogni altra nazione e lingua che è sotto il cielo... ma altre volte /.../ parlò effettivamente in ogni linguaggio che gli occorreva per essere udito da coloro che per la salute delle loro anime lo avvicinavano, di qualunque gente, nazione e lingua fossero /.../ Egli dovunque, per compiere il ministero dell’apostolato affidatogli, dava consigli ed ascoltava le confessioni di genti di lingue differentissime /.../ conviene dire conseguentemente che egli fosse anche provveduto del dono di intendere tutte le loro lingue /../ ciò è affermato espressamente dal Clemangio, contemporaneo del Santo e testimone in prima persona, il quale Clemangio nella sua lettera a Reginaldo Fontatis, dopo aver detto che parlando S. Vincenzo in Valenziano era intenso da tutti, aggiunse anche questo, che “parlava in italiano con gli italiani”, così come parlava in tedesco con gli alemanni, non meno che se fosse nato ed educato tra loro”.
Ed altri scrittori confessarono lo stesso, mentre dissero che il Ferreri ebbe il dono delle lingue come gli antichi Apostoli, dei quali sappiamo che effettivamente parlavano con varie lingue come scrive S. Luca negli Atti /.../ al principio delle prediche la sua faccia diveniva candida come la neve /.../ inoltre /.../ sebbene alle sue prediche accorrevano un numero grandissimo di persone, spesso si contavano centinaia di migliaia di persone, nondimeno lo udivano alla stessa maniera dai posti più vicini, come da quelli più lontani, tutti lo udivano ugualmente come se tutti fossero vicini a lui e questo accadeva sia se era nelle vaste Chiese, sia se era nelle piazze più ampie sia se era nelle larghissime pianure o campagne /.../ il Santo fu udito predicare alla distanza sia di un’ ora di cammino, sia di due, sia di tre leghe /.../ onde i carcerati, gli infermi ed altre persone impedite che in tal circonferenza si trovavano, godevano le prediche del Santo e lo udivano bene e distintamente, come se fossero stati presenti ad esse”. Mai, nemmeno una volta, nella vita di S. Vincenzo Ferreri, c’è mai stata questa stranezza grottesca di emettere “rumori” inarticolati, senza significato. “A S. Vincenzo Ferreri fu concesso di farsi intendere da uditori spagnoli e francesi, italiani e fiamminghi, parlando il proprio dialetto catalano. Molto più documentato è questo carisma del dono delle lingue nella vita del suo concittadino S. LUDOVICO BERTRANDO (1522-1581) che operò conversioni in massa tra gli indios dell’America Latina” (P. Tito S. Centi O.P., nota 1, S.Th., II-II, p.176, a.l, N.B. = P. Tito Centi è autore della traduzione, della introduzioni e note della edizione bilingue della Summa Theologiae, a cura delle Edizioni Domenicane). Mai, nemmeno una volta, nella vita di S. Ludovico Bertrando, c’è mai stata questa stranezza grottesca di emettere “rumori” inarticolati, senza significato.
S. FRANCESCO SOLANO (1549-1610) l’apostolo degli indios dell’America meridionale riesce a superare le difficoltà di comunicazione con l’aiuto prodigioso del Sgnore che gli infonde il dono delle lingue, in modo tale che i suoi fedeli riescono a capirlo anche se egli parla una lingua diversa dalla loro” (Elena Ianulardo, I Santi francescani, Casa Mariana frigento, 1988, pp. 90-91 ). S. Francesco Solano “arrivato nel mese di novembre 1590 al Tucuman (immenso territorio che comprendeva le odierne province del nord dell’Argentina) fondò le missioni o riduzioni di Socotonio e Magdalena delle quali fu doctrinero (parroco missionario), esercitando un difficile, ma fecondo apostolato tra gli indios diaguitas (detti anche calchaquìes), dei quali divenne evangelizzatore, civilizzatore, pacificatore e difensore, favorito più volte del dono delle lingue” (Biblioteca Sanctorum, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense, Città Nuova Editrice, Roma, 1965, vol. V, p. 1542). Lo stesso volume della Biblioteca Sanctorum, invece, a proposito di S. Francesco Saverio dice: “Fra le cose meravigliose assai celebrate, ma non provate, sono il “dono delle lingue” (parlando sarebbe stato compreso da gente di vari linguaggi) affermato dal poco autorevole Bernardo giapponese” (ed.cit., p. 1236). Mai, nemmeno una volta, nella vita di S. Francesco Solano, c’è mai stata questa stranezza grottesca di emettere “rumori” inarticolati, senza significato.
SANTA ELISABETTA DI SCHONAU, religiosa (festa 18 giugno). Elisabetta ebbe visioni ed estasi, durante le quali si trovava a parlare con Gesù, con la Madonna e con i santi del giorno. Mise per scritto tutte le sue visioni, per cui si ebbero i tre Libri visionum. “Accanto all’esperienza profetica di S. Ildegarda di Bingen, c’è quella meno vasta e meno conosciuta di S. Elisabetta di Schonau (1129-1164) /.../ proferisce in estasi delle meditazioni o effusioni. La situazione ricorda un po’ quello che doveva accadere fra i cristiani di Corinto, riuniti in assemblea: “Spesso /.../ era rapita in estasi e dopo un breve intervallo cominciava a dire in latino delle parole che non aveva mai sentito da nessuno e che non poteva trovare da sé, perché era di cultura semplice e non aveva che una conoscenza scarsa o nulla di questa lingua” (Vita, Prol., 1; PL 195, 119 B, citato in Giuseppe D’Amore, Spirito e carismi, Ed. Vocazioniste, 1989, p. 52 e p. 58). Mai, nemmeno una volta, nella vita di Santa Elisabetta di Schonau, c’è mai stata questa stranezza grottesca di emettere “rumori” inarticolati, senza significato.

SAN PADRE PIO DA PIETRELCINA (1887-1968) parlava con stranieri e confessava stranieri che venivano da lui a S. Giovanni Rotondo senza che né lui conoscesse la lingua straniera né l’altro conoscesse l’italiano. “Tra i fenomeni mistici straordinari di ordine conoscitivo, non manca nella vita di Padre Pio la “glossolalia” o dono delle lingue (“genere linguarum”): conoscenza infusa di idiomi stranieri, senza nessun previo studio od esercizio. Egli non aveva studiato né francese né greco, e capiva l’una e l’altra lingua, scrivendo anche in “lingua gallica” (Alessandro Ripabottoni, Padre Pio da Pietre1cina, Ed. Padre Pio da Pietrelcina, Convento S. Maria delle Grazie, S. Giovanni Rotondo, 1978, pp. 265-266 ). P. Agostino da S. Marco in Lamis, sa che Padre Pio “non sa né greco e né francese”, per questo il 3 febbraio 1912 (Epistolario, vol. I, n. 62) gli chiede: “Chi ti ha insegnato il francese?”. Padre Pio gli risponde: “Alla vostra domanda riguardante il francese, rispondo con Geremia (1,6): “A,a,a...nescio loqui (non so parlare)” (lettera 1/5/1912, n. 76). Padre Agostino scrive in francese a Padre Pio (n.75 - n.79 - n.88 - n.l03) e P. Pio risponde in italiano iniziando con una frase in francese (n.76 - n.82) oppure con una frase in francese nel testo in italiano (n. 95) oppure solo in francese (n.96 - n.l04 a). Padre Pio non aveva studiato neanche il greco, eppure lo capiva, lo traduceva e rispondeva a tono alle lettere scritte in questa lingua. Padre Agostino scrive la lettera del 7 settembre 1912 (n.97) in greco. In calce alla lettera, il parroco di Pietrelcina, qualche anno dopo, scrisse questo attestato: “Pietrelcina, 25 agosto 1919. Attesto io qui sottoscritto, sotto la santità del giuramento, che Padre Pio, dopo ricevuta la presente, me ne spiegò letteralmente il contenuto. Interrogato da me come avesse potuto leggerla e spiegarla, non conoscendo neppure l’alfabeto greco, mi rispose: Lo sapete! L’angelo custode mi ha spiegato tutto. L.S. L’arciprete. Salvatore Pannullo” (Epistolario, ed.cit., 1973, vol. I, p.302). Padre Pio risponde il 20 settembre 1912, in italiano, a quella lettera scritta in greco, confermando l’azione del suo angelo custode: “E se la missione del nostro angelo custode è grande, quella del mio è di certo più grande dovendomi fare anche da maestro nella spiegazione di altre lingue” (Epistolario, ed.cit., 1973, vol. I, n.98, p.304). In seguito, invece, è documentato, un caso diretto del dono delle lingue.
PADRE PIO PARLA INGLESE SENZA CONOSCERLO C’era una ragazza di nome Angelina Sorritelli, figlia di un emigrato italiano in America. Essa era nata là e non sapeva parlare altro che l’inglese. Suo padre, Tommaso, volle condurla a S. Giovanni Rotondo da P. Pio, per la confessione e la prima comunione. A S. Giovanni Rotondo, in quel tempo c’era Maria Pyle, una convertita americana che si era stabilita in una casa vicino al convento e collaborava con le attività di P. Pio. Quando arrivò Tommaso Sorritelli dall’America e seppe che la figlia Angelina voleva incontrare P. Pio, si mise a disposizione per fare da interprete, dal momento che la bambina non sapeva altro che l’inglese. Si presentò, dunque, dal padre e, spiegatagli la situazione, si offrì come interprete, ma P. Pio la congedò dicendo che quelle cose se le vedeva lui direttamente con Angelina. Maria Pyle, meravigliata, si ritirò e P. Pio confessò la bambina. Quando ebbe finito, interrogò Angelina, dicendole: “Ma ti ha capito P. Pio?” E Angelina: “Sì”. Maria Pyle: “E tu l’hai capito?”. Angelina: “Sì”. Maria Pyle: “E come parlava, in inglese?” Angelina: “Sì, in inglese!” (P. Cataneo, I fioretti di Padre Pio, ed.cit., pp. 146-147).
PADRE PIO CONVERSA IN TEDESCO Il prof. Bruno Rabajotti racconta che un giorno si trovava nella cella di P. Pio e stava recitando con lui il rosario. Alla fine della recita, fu introdotto un visitatore tedesco, alto e magro, dai capelli bianchi e corti. Questo visitatore si mise a parlare in tedesco con P. Pio per raccontargli, tutto commosso, com’era felicemente finita l’avventura della figlia, conclusione già predetta dal padre. La conversazione andò avanti per un pezzo, con botta e risposta tra i due interlocutori, mentre Rabajotti non credeva ai suoi orecchi nel sentire parlare in tedesco P. Pio, che di tanto in tanto lo guardava con un sorriso. Ad un certo punto si volse a lui dicendo: “Ti stupisci che io parli e capisca una lingua che non conosco? Non sono l’unico a poterlo fare. Perché non ci provi anche tu?”. E Rabajotti: “Ma io non conosco il tedesco, padre!”. E P. Pio: “E io? E’ facile, devi solo cominciare a parlare. Quest’uomo, venuto da me un anno fa, ti racconterà la sua storia. La divisione a causa delle lingue, le barriere tra le anime crollano quando si sa parlare l’unico vero linguaggio, quello dello spirito”. Il prof. Rabajotti obbedì a P. Pio e, con suo immenso stupore, riuscì a sostenere la conversazione in tedesco con lo sconosciuto visitatore, mentre questi, con le braccia incrociate sul petto lo stava osservando compiaciuto. Poi ebbe a dire: “Parlammo in tedesco, ma a me parve di parlare in italiano. Fu tutto così facile e anche così bello. Alla fine ci abbracciammo prima di lasciarci” (Pasquale Cataneo, I fioretti di Padre Pio, ed.cit., p. 147). Mai, nemmeno una volta, nella vita di Padre Pio c’è mai stata questa stranezza grottesca di emettere “rumori” inarticolati, senza significato. Il falso carisma, dunque, inventato dai carismatici, che consisterebbe nell’emettere a caso suoni o mezze parole senza significato, simile in questo alle parole sconnesse pronunciate dai bambini prima di aver imparato la lingua materna, non esiste né nella Sacra Scrittura, né nella Tradizione della Chiesa, né nella vita dei santi. Con questi “rumori” preconcettuali e sconclusionati, con questi “gargarismi psichedelici” a caso elargiti con frequenza e generosità in questi gruppi carismatici, con questo falso carisma si è giunti a costruire una “bottega delle illusioni”, si è creata, artificialmente, una favola che non esiste né nella Scrittura, né nella Tradizione della Chiesa, né nella vita dei santi, ovviamente quelli veri! Da nessuna parte si legge, infatti, che S. Francesco d’Assisi, S. Teresa D’Avila, S. Filippo Neri, S. Teresina del Bambin Gesù, S. Alfonso Maria dei Liguori, S. Giovanni Bosco, S. Massimiliano Kolbe, e tutti gli altri, fino al nostro P. Pio, si siano lasciati andare a questi “rumori” preconcettuali, sconclusionati, a questi “gargarismi” prerazionali, a questi suoni sconnessi e senza significato, a questa farsesca parodia linguistica, a questa glossolalo-mania! È talmente forte la “mania” per questo falso carisma, (uno dei “distintivi” più originali dei carismatici), che si preferisce cadere nel ridicolo piuttosto che ammettere che si tratta di un clamoroso falso. Uno dei membri del Comitato Nazionale di Servizio del Rinnovamento a cui dissi che nella vita di nessun santo esiste questo falso carisma praticato nei gruppi carismatici, mi indicò due passi della “Vita” di S. Teresa d’Avila (Cap. 16,4; Cap. 19,1) dove questo presunto carisma sarebbe stato testimoniato. Trascrivo i due brani per mostrare fino a che punto l’intelligenza può essere accecata dall’illusione e come si manipolano e si strumentalizzano le “cose sante” ( Mt 7,6 ), con una loro lettura fondamentalista, quando si diventa schiavi di false esperienze.

IL VERO GIUBILO NELLO SPIRITO

S. Teresa d’Avila nel Cap. 16° della sua autobiografia (Opere, Postulazione generale O.C.D., Roma, 1981, 7° edizione) sta parlando del terzo grado di orazione; in questo stato “l’anima non sa cosa fare, se parlare o tacere, se piangere o ridere. È come un glorioso delirio, in un modo deliziosissimo di gioire, in una celeste follia nella quale impara la vera sapienza” (Vita, 16, 1). Il Signore le ha concesso questa orazione subito dopo la comunione. “Mi sono trovata che non potevo far nulla, ed Egli mi ha suggerito dei paragoni, mi ha illuminata sul modo di esprimermi e su quello che l’anima deve fare. In un istante ho compreso ogni cosa
/.../ Mi ero trovata molte volte come fuori di me e quasi ebbra d’amor di Dio, ma non avevo mai compreso come ciò avvenisse. Capivo che era un’operazione di Dio /.../ quantunque le potenze gli fossero unite quasi del tutto, non erano però così assorte da non poter operare” (Vita, 16,2). “Qui le potenze non possono far altro che occuparsi di Dio. Sembra che nessuna ardisca muoversi, e nemmeno potremmo muoverle noi, a meno che volessimo distrarci. Si pronunciano tante parole in lode di Dio, ma senza ordine. L’ordine ve lo deve mettere il Signore perché l’intelletto non serve a nulla. L’anima vorrebbe erompere in grandi lodi, incapace di contenersi perché in preda a dolcissimo delirio. L’anima brama che tutti la vedano e si accorgano della sua gioia per lodare Iddio e unirsi a lei nel glorificarlo /.../ tali dovevano essere i trasporti che animavano lo spirito ammirabile del reale profeta David quando suonava e cantava sull’arpa le lodi di Dio” (Vita, 16,3). “O mio Dio, che è mai un’anima in questo stato! Vorrebbe cambiarsi in tante lingue per lodare il suo Dio ed esce in mille santi spropositi, riuscendo in tal modo a contentare Colui che la tiene così. So di una persona che, pur non essendo poeta, improvvisava allora strofe molto espressive nelle quali manifestava la sua pena. Non era frutto dell’intelligenza, ma sfoghi di anima per lamentarsi con il suo Dio e meglio godere la gioia di cui si sentiva inondata in quello spasimo delizioso /.../ Che pena, dopo, per la povera anima rientrare ancora in se stessa per vivere nel mondo e tornare alle cure e alle esigenze della vita /.../ Presa da questa santa e celestiale follia sono pur ora, o mio Re, mentre scrivo queste cose, ma unicamente per vostra bontà e misericordia, perché in me non vi è proprio alcun merito” (Vita, 16,4).
S. Teresa afferma chiaramente che in questo stato di ebbrezza dello Spirito, di follia d’amore, si emettono parole vere, appartenenti a lingue straniere vere, non apprese a scuola. Da nessuna parte si trova questa favola di suoni inarticolati, senza senso, di rumori preconcettuali, ecc.

S. TERESA D’AVILA 

La Santa dice che in questo stadio di orazione le parole e i discorsi “molto espressivi” che si producono in questo grado di preghiera non sono elaborati o costruiti dalle facoltà umane, ma si tratta di “un’operazione di Dio” (16,2), si tratta comunque di parole e discorsi comunque sensati, intelligibili, che avvengono per ispirazione divina e sotto l’azione dell’ispirazione divina. La gioia incontenibile di cui parla S. Teresa in questo terzo grado di orazione non porta, quindi, assolutamente a suoni o mezze parole pronunciati a caso, a suoni senza significato, a “rumori” preconcettuali! La Santa dice invece:
1) che si pronunciano tante parole in lode di Dio; 2) che in questo stato una persona (la Santa stessa!) pur non essendo poeta, improvvisava strofe molto espressive. Ora improvvisare strofe molto espressive non ha proprio niente a che vedere con i suoni e i rumori preconcettuali e sconclusionati, prodotti dai gruppi pentecostali-carismatici.
Improvvisare strofe molto espressive è esattamente il contrario di emettere suoni o rumori, senza significato che assomiglierebbe al parlare sconnesso dei bambini prima di aver appreso la lingua materna. La Santa smentisce il falso carisma quando dice che: “Presa da questa santa e celestiale follia sono pur ora, mentre scrivo queste cose”. La Santa scrive, in spagnolo e, mentre scrive, si trova immersa in una condizione di gioia, di follia e di giubilo, che non impedisce per nulla che lei scriva perfettamente, in spagnolo, la sua lingua; una lingua vera, intelligibile, chiara che, per chi non la conosce, ha ovviamente bisogno di una interpretazione. Dunque non è vero che il “giubilo” porta ad esprimersi con suoni o rumori inarticolati, come fanno i bambini quando non sanno parlare.

CAPITOLO 19
 
I “ciechi che guidano altri ciechi” sono coloro poi che citano a sproposito il capitolo 19 della “Vita” di S. Teresa d’Avila come un esempio di questo falso carisma: si tratta di una “svista” colossale. Bastava, infatti, leggere le spiegazioni che la Santa dà nel capitolo precedente per capire il significato di quello che viene detto all’inizio el Cap.19.S.Teresa, nel cap. 19, prosegue a parlare del quarto grado d’orazione, ampiamente illustrato nel capitolo 18, e così si esprime: “Dopo questa orazione e unione, l’anima vorrebbe struggersi in lacrime di gioia. Grande la sua gioia nel vedere quell’impeto di fuoco temperarsi e aumentarsi con l’acqua. Sembra un parlare di arabi, ma è la pura verità. In questo grado di orazione mi è accaduto varie volte di trovarmi così fuori di me da non saper se le delizie che provavo erano un sogno o una realtà” (Vita, 19,1).
S. Teresa si rende conto che parlare di queste esperienze, a chi non le ha vissute, può sembrare un parlare strano, un parlare incomprensibile, appunto un parlare di arabi, ma aggiunge subito, questa è la pura verità, facendo così intendere, senza possibilità di equivocare, che è il contenuto di questa esperienza che appare strano, ed è come parlare in arabo a chi l'arabo non lo conosce. Anche S. Paolo ha vissuto un esperienza straordinaria particolare per la quale non esiste un adatto vocabolario umano per esprimerla e afferma addirittura che "udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare" (cfr. 2 Cor 12,2-4). È veramente ridicolo, allora, isolare la frase del contesto, e strumentalizzarla per affermare che S. Teresa stava emettendo quei "rumori" preconcettuali, quei "rumori sconclusionati" e quei tipici “gargarismi psichedelici” a caso che si producono nei gruppi carismatici. Bastava leggere il cap. 18 per accorgersi del madornale errore in cui il mio interlocutore è caduto.

CONTENUTI VERI, NON RUMORI

1) La Santa stessa dice che questa esperienza mistica risulta strana e incomprensibile a chi non l’ha ricevuta in dono: “Chi è arrivato ai rapimenti sono sicura che lo comprenderà, ma chi non ne ha l’esperienza crederà che io dica spropositi, come forse sarà, non essendo strano che non faccia altro che spropositare chi, come me, voglia trattare e far capire una cosa come questa, di cui sembra che, per mancanza di termini, sia impossibile dar soltanto un’idea” (Vita, 18,7). “Ma credo che Iddio non mancherà di aiutarmi /.../ Quando mi sono messa a scrivere di quest’ultima acqua, mi pareva impossibile di dirne solo qualcosa: mi sembrava tanto difficile, quanto parlare in greco. Allora ne ho abbandonata l’idea e sono andata a comunicarmi /.../ Il Signore illuminò la mia mente, mi mise innanzi quello che dovevo dire e me ne suggerì le parole. Anche qui, come nell’ orazione precedente, è Lui che parla, per dire quello che io non posso, né so” (Vita, 18,8). E ancora: “Quello che l’anima sente nel proprio interno, è cosa che non si può intendere, meno poi manifestare /.../ Chi ne ha esperienza, potrà capirne qualche cosa, essendo tanto sublime quello che allora si prova da non potersi piegare più chiaramente” (Vita, 18,14).
2) Inoltre in questo quarto grado di orazione, S. Teresa afferma che non si può parlare, non si riesce a parlare! Quindi, in nessun caso l’espressione “sembra un parlare di arabi” può essere intesa come una qualsiasi forma di linguaggio, né quello vero degli uomini, né quello falso dei “rumori” carismatici. Ecco infatti come la Santa descrive quello che accade quando l’anima, per pura azione di Dio e quindi in una condizione estatica (Vita, 18,1), viene sollevata a questo grado di orazione: “Mentre l’anima sta così cercando il suo Dio, si sente come svenire per la forza di un soavissimo godimento: il respiro le manca, le forze corporali svaniscono, tanto che senza un grande sforzo non può muovere neppure le mani. Le si chiudono gli occhi anche senza volerlo, e, se li tiene aperti, non vede quasi nulla. Se legge, non riesce a pronunciare una sillaba, e quasi neppure a rilevarla; vede d’averla innanzi, ma non essendo aiutata dall’intelletto, non è capace di leggerla, nemmeno volendolo. Ode, ma non capisce ciò che ode. I sensi non le servono più, anzi le sono piuttosto di danno perché le impediscono di stare in pace.
Parlare? Nemmeno pensarlo, perché non riuscirebbe a mettere insieme una parola; e se pure vi riuscisse, non avrebbe la forza di pronunciarla. E un piacere molto grande e sentito si riversa pure nel corpo” (Vita, 18,10). È la smentita clamorosa alla favola della glossolalia carismatica: sotto l’effetto di un’azione potente dello Spirito Santo (quello vero!) non si riesce a parlare, non si riesce a mettere insieme una parola, esattamente il contrario della favola di emettere suoni e rumori, preconcettuali e inarticolati. Non si emette proprio nulla né parole vere, né rumori!!!

IL PRESUNTO CANTO IN LINGUE

Il cosiddetto “canto in lingue” segue, per le ragioni già esposte, le stesse caratteristiche e possiede gli stessi parametri del dono delle lingue: si tratta dello stesso carisma che questa volta si esprime attraverso il canto, attraverso il salmeggiare, come dice S. Paolo. Nei gruppi pentecostali-carismatici, a proposito del cosiddetto “canto delle lingue” si raggiunge, davvero il fenomeno da baraccone perché molte persone si mettono tutte a cantare “in lingue” contemporaneamente per cui l’elemento importante - in questa manifestazione - finisce per essere solo il suono che si produce: S. Paolo dice che se “non vi è chi interpreta, ciascuno taccia nell’assemblea e parli solo a se stesso o a Dio” (1 Cor 14,28); sia per il parlare in lingue, che per il salmeggiare in lingue, S. Paolo insiste sull'importanza dell'interpretazione e sulla necessità di usare con ordine i doni. Ora in queste presunte manifestazioni dei gruppi carismatici, il dono delle lingue non è più finalizzato alla comunione (con Dio o con gli uomini) ma è strumentalizzato solo per produrre un “rumore collettivo musicato”, un cocktail spesso cacofonico di quei famosi “gargarismi” preconcettuali. In effetti una volta falsato il vero carisma, anche l’uso del carisma stesso si presta a qualsiasi falsificazione e a qualsiasi aberrazione, perché cade in balia del capriccio e della arbitrarietà di qualche istrione di turno o di tutto il gruppo. L’ultimo patetico tentativo di questi gruppi per giustificare questa “favola” da loro inventata, è il tentativo di strumentalizzare la "jubilatio" di S. Agostino, che come invece vedremo, è esattamente il contrario degli abusi che si praticano in questi gruppi carismatici. Anche in questo caso la disinformazione da una parte e la schiavitù unilaterale prodotta da questa cosidetta esperienza carismatica dall’altra, hanno accecato gli occhi e la mente di alcuni membri: anche qui bastava andare a leggere, direttamente, quello che veramente ha detto S. Agostino, perché cadesse quest’altra menzogna.

GIUBILO E SILENZIO

S. Agostino commentando il Salmo 32,3: “Cantate al Signore un canto nuovo, suonate la cetra con arte e acclamate”; a proposito di questo canto nuovo dice: “Lo apprendono solo gli uomini nuovi, rinnovati dalla vecchiaia per mezzo della grazia, appartenenti, quindi, al Nuovo Testamento, che è già il Regno dei Cieli. Ad esso sospira tutto il nostro amore e canta il nuovo cantico /.../ Quando puoi offrirgli una così elegante bravura nel canto da non essere sgradito a orecchie così perfette? /.../ Ecco che Egli quasi intona per te il canto: non cercare le parole, quasi che tu potessi dare forma a un canto per il quale Dio si diletti. CANTA NEL GIUBILO. Cosa significa giubilare? Intendere senza poter spiegare in parole ciò che col cuore si canta. Infatti coloro che cantano, sia mentre mietono, sia quando sono occupati con ardore in qualche altra attività, incominciano per le parole dei canti ad esultare di gioia, ma poi, quasi pervasi da tanta letizia da non poterla più esprimere a parole, lasciano cadere le sillabe delle parole, e si abbandonano al suono del giubilo. Il giubilo è un certo suono che significa che il cuore vuol dare alla luce ciò che non può essere detto.
E a chi conviene questo giubilo se non al Dio ineffabile? Ineffabile, infatti, è ciò che non può essere detto: se non puoi dirlo, non puoi nemmeno tacerlo, che ti resta se non giubilare, di modo che il cuore si apra ad una gioia senza parole, e la gioia si dilati immensamente al di là dei limiti delle sillabe? Bene cantate a Lui nel giubilo” (S. Agostino, Enarrationes in Ps.XXXII, P L 36,283) (cfr. Giuseppe D’Amore, Spirito e Carismi, Ed. Vocazioniste, 1989, p. 43). S. Agostino, dunque, dice che la “jubilatio” non si può esprimere con le parole, non si può esprimere con nessun tipo di parole, si lasciano cadere le parole (quelle tipiche e vere del linguaggio umano) e ci si abbandona solo al giubilo.
L’unico “suono” è il giubilo stesso che non può esprimersi con parole esterne: è un canto del cuore che porta al silenzio della contemplazione; parte dalle parole e termina con una gioia ineffabile nel cuore e il silenzio esterno delle parole. Assomiglia a quanto scrive Filosseno di Mabbug (ca. 440-523) a proposito di quello che lui, erroneamente, chiama il secondo battesimo: “saprai solo di provare gioia, ma non sarai in grado di esprimere cosa sia tale gioia”. (Ravvivare la fiamma dello Spirito, ed.cit., p. 19).
È la stessa cosa che S. Teresa d’Avila ha descritto nel Cap. 19 della “Vita”, dove la gioia immensa e la follia dello spirito prorompente, impedisce ogni parlare! È quanto testimoniato da Santa M. Faustina Kowalska, dopo che Gesù le è apparso e le ha parlato: “Avvertii uno strano fuoco nel mio cuore; sento che vengono a cessare i miei sensi; non capisco quello che avviene attorno a me. Sento che lo sguardo del Signore penetra in me; conosco bene la Sua grandezza e la mia miseria. Una sofferenza misteriosa penetra nella mia anima ed una tale gioia, che non riesco a paragonarla a nulla. Mi sento inerte tra le braccia di Dio; sento che sono in Lui e mi sciolgo come una goccia d’acqua in un oceano. Non riesco ad esprimere quello che provo. Dopo una tale preghiera interiore sento una forza ed un impulso a compiere i più difficili atti di virtù; sento avversione verso tutte le cose che il mondo apprezza; desidero con tutta l’anima la solitudine e la quiete” (Santa M. Faustina Kowalska, Diario, Libreria Editrice Vaticana, Ottava ristampa, 2001, p. 178). È la stessa esperienza vissuta e testimoniata dai pastorelli di Fatima che dopo aver incontrato l’angelo rimanevano 2-3 giorni in silenzio. Francesco, dopo le apparizioni, quando gli rivolgevano delle domande, rispondeva: “Non posso parlare, parliamo domani” (cfr. Fede e Cultura, Ottobre 2008, n. 48, Vera spiritualità, p. 5). Esattamente il contrario del falso carisma dei gruppi carismatici.

CRITERI DI DISCERNIMENTO 

Alcuni criteri elementari di discernimento per individuare con certezza questa contraffazione operata nei gruppi carismatici sono i seguenti:
1) Si ascolti con attenzione colui che dice di avere il dono delle lingue: se, ogni volta che viene agli incontri, ripete sempre le stesse frasi o le stesse solite parole, possiamo essere certi di essere di fronte ad una costruzione solo umana, si tratta di una evidente falsificazione.
2) Alcuni arrivano all’incontro e senza neanche un momento di raccoglimento, di preghiera, si mettono a “parlare o a cantare in lingue” rimanendo nella stessa condizione nella quale giocano a flipper o passeggiano sul lungomare: anche qui possiamo essere certi che si tratta di costruzione solo umana.
3) Alcuni, poi, “cantano in lingue” sempre negli stessi momenti degli incontri dimostrando, così, non di agire sotto l’azione dello Spirito, ma di agire come nel caso dei fenomeni dei riflessi condizionati di Pavlov e quindi ci troviamo di fronte, anche qui, ad una costruzione solo umana. 4) Bisogna dubitare dell'autenticità delle manifestazioni se, sistematicamente, si parla in lingue senza che ci sia chi le interpreta.

CONCLUSIONI

Questi “rumori” preconcettuali, questi suoni inarticolati, senza significato, questi "rumori sconclusionati", costituiscono un clamoroso falso, una gigantesca contraffazione del vero dono delle lingue, di cui è solo una scimmiottatura ridicola. Si tratta di una costruzione artificiale e macchinosa, “opera delle mani dell’uomo” [(Sal 115,4; 2 Re 19,18), “si sono fatti idoli di loro invenzione” (Os 13,2)], si tratta cioè di un imbroglio, con cui si tenta di scimmiottare il vero carisma delle lingue. Questo falso carisma assomiglia ad una gravidanza isterica: alcune donne che non possono avere bambini, li desiderano a tal punto che sotto la spinta di questo desiderio frustrato si gonfia la pancia, ci sono anche i segni esterni della gravidanza ma...non c’è il bambino. Così in questi gruppi pentecostali-carismatici, sotto la spinta della suggestione esercitata dal gruppo, a volte si hanno i doni che si... desiderano, quelli da cui si è rimasti più impressionati e così si producono dei “rumori”, preconcettuali per scimmiottare il vero carisma ma...il vero dono delle lingue non c’è! “Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole” (2 Tm 4,4). Non c’è dubbio che all’inizio della Chiesa (come riferiscono S. Giovanni Crisostomo, S. Agostino, S. Gregorio Magno, altri Padri e successivi Dottori della Chiesa) i doni carismatici, e in particolare il vero dono della lingue, erano più diffusi e più frequenti, mentre, in seguito, si sono fatti più rari (cfr. Giuseppe D’Amore, Spirito e carismi, Edizioni Vocazioniste, 1989, pp. 18 e poi pp. 19-47), ma questo solo nella dimensione pubblica, nella quantità statistica delle manifestazioni, perché invece nella vita dei santi tutti i carismi, quelli autentici, ad ognuno secondo le disposizioni dello Spirito Santo, sono sempre stati presenti.
Ma mai è stato verificato, nella vita dei santi, questo falso carisma fatto di suoni inarticolati e di
“rumori” sconclusionati. Ripetiamo, ancora una volta, che noi riteniamo una falsificazione solo questi rumori sconclusionati. Non è un caso che la falsa glossolalia si sia manifestata e si sia diffusa, all’inizio, nel mondo protestante, già gravato da altre infedeltà alla Parola di Dio. Quindi, non si può dire che con questo pseudo-carisma si sia ripresentata nel 1990, dopo lunga assenza, nel mondo protestante, la vera glossolalia: ciò che si è presentata, infatti, è stata solo la contraffazione del vero carisma, la favola della falsa glossolalia, un prodotto con un “marchio di fabbrica” contraffatto e grottesco. La vera glossolalia consiste nel parlare vere lingue straniere mai studiate a scuola. La falsa glossolalia consiste nell' emettere suoni sconclusionati, senza senso, rumori preconcettuali. Questa falsa glossolalia è stata inventata nel mondo pentecostale protestante ed è stata importata e catapultata nel mondo cattolico, senza discenimento, dopo il Vaticano II. Qui ci sarebbe da fare un lungo discorso sulla grave responsabilità di chi guida questi gruppi che, a volte, sembrano proprio meritare il rimprovero di Gesù: “Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!” (Mt 15,14); e ancora: “Guai a voi, guide cieche” (Mt 23,16).
A questo proposito sarà opportuno rileggere le ammonizioni del libro di Ezechiele rivolte sia ai pastori che pascono se stessi, sia al gregge che intorbida con i piedi l’acqua chiara che Dio dona (Ez 34,2.4-5.817-18) e insieme leggere, anche, il bel commento di S. Agostino al cap. 34 del libro di Ezechiele. Se è vero che moltissime persone che aderiscono a questi gruppi sono in buona fede e incapaci di rendersi conto degli errori e degli abusi, cosa pensare, invece, dei sacerdoti che sono collaboratori dei Vescovi nella funzione di istruire, santificare e governare (P.O. n. 7 b) e che si sono fatti “imbavagliare”, “intrappolare” e “incantare” dalle false suggestioni di questo gruppo e così, quindi, si sono fatti complici degli errori e degli abusi in esso praticati? E cosa pensare di quei vescovi che partecipano attivamente a questi incontri e che hanno sempre permesso, avallato o addirittura incoraggiato questa favola della glossolalia moderna? Com’è possibile che hanno partecipato per anni a tutto quanto accade in questi gruppi e non hanno visto niente; non si sono accorti di niente, non hanno detto mai niente, hanno giustificato sempre tutto e hanno sempre detto che va tutto bene; non si sono mai documentati seriamente per verificare l’autenticità e la correttezza di tanta prassi di questi gruppi? I sacerdoti e i vescovi, rispetto all’ufficio ricevuto, hanno, in questo, una grave responsabilità. Alcuni, purtroppo, non badano alla qualità, ma optano per la quantità e accettano qualsiasi compromesso. Quando ci si abbandona a queste manifestazioni, a queste “costruzioni delle mani dell’uomo” al centro del culto non c’è certamente più Gesù, il vero Gesù, ma al centro del culto, in realtà, c’è l’idolo costruito dalle proprie mani e ci sono coloro che mettono in atto simili manifestazioni e che dicono di voler lodare Gesù: di fatto, Gesù diventa solo un pretesto per dare “sfogo” ad una variopinta e pittoresca “messa in scena” il cui scopo, di fatto, è dare culto all’idolo e all’esaltazione di chi costruisce l’idolo!


Un esempio di come la ricerca dello straordinario e del sensazionale può dar luogo a illusioni e a grottesche contraffazioni dei doni dello Spirito, lo troviamo nella falsificazione del vero dono delle lingue, operato nei gruppi pentecostali-carismatici. In questi gruppi, questa falsificazione ha dato origine ad un carisma inesistente e falso, creato artificialmente, che essi chiamano glossolalia, che a loro avviso, erroneamente, sarebbe un presunto carisma diverso dalla xenoglossia o xenolalia. Sia ben chiaro: noi crediamo nel dono delle lingue, ma in quello vero; noi crediamo nella glossolalia, ma quella vera non quella moderna contraffatta. Quindi, quando parliamo di “favola della glossolalia”, non intendiamo per niente dire che non esiste il dono delle lingue, ma solo che consideriamo inautentica quella invenzione moderna che in alcuni gruppi viene chiamata “glossolalia”, e che consiste in “rumori sconclusionati”, “suoni preconcettuali”, senza senso, privi si significato e altre stramberie simili. Siccome ci può essere sempre chi non capisce o fa finta di non capire ribadiamo che la questione è solo tra vera glossolalia e falsa glossolalia. Quindi la nostra posizione è: vera glossolalia, sì. "Falsa glossolalia", no. L'articolo, inoltre riguarda solo questo tema. Ricordiamo, a fondamento di tutto l’articolo, la verità dichiarata dalla Parola di Dio: “Nessuna menzogna viene dalla verità” (1 Gv 2,21). Il fatto che un fenomeno sia molto diffuso non significa, di per sè, che quel fenomeno sia anche vero o autentico. Un errore anche se ripetuto moltissime volte e da tante persone non diventa mai, solo per questo, una verità.                                                               

http://www.fedeecultura.it/file/glossolalia.pdf