17 gennaio 2016

Da "La montagna delle sette balze" di Thomas Merton:


Tutto è tranquillo.
Il sole del mattino splende sulla portineria che è appena stata rimessa a nuovo. Di qui sembra che il frumento cominci già a maturare sul poggio di San Giuseppe. I monaci che fanno il ritiro per prepararsi al diaconato stanno zappando nel giardino della Foresteria.
Tutto è tranquillo. Penso al monastero in cui mi trovo. Penso ai monaci, miei fratelli, miei padri.
Vi sono quelli che hanno mille cose da fare. Alcuni devono occuparsi del cibo, alcuni delle vesti, alcuni delle condutture, altri del tetto. Alcuni rimettono a nuovo le pareti, alcuni scopano le stanze, altri lavano il pavimento del refettorio. Uno si avvicina agli alveari con una maschera e toglie il miele. Tre o quattro stanno in una stanza a battere tutto il giorno a macchina le risposte alle lettere di gente che scrive chiedendo preghiere perché si sente infelice. Altri ancora stanno riparando trattori e autocarri, altri li guidano. I fratelli lottano con i muli recalcitranti che non vogliono lasciarsi mettere i finimenti. O inseguono le mucche nei pascoli. O si dànno da fare con i conigli. Uno dice di saper aggiustare gli orologi. Un altro disegna il progetto per il nuovo monastero di Utah.
Quelli che non hanno particolari responsabilità nell’allevamento dei polli e dei maiali, quelli che non sono costretti a scrivere opuscoli, a imballarli e a spedirli, o a tenere il complicato registro delle Messe, quelli che non hanno niente di speciale da fare possono sempre andare a strappare le erbacce nei campi di patate e a zappare i filari del granturco.
Quando dalla torre suonerà la campana, io smetterò di scrivere a macchina e chiuderò le finestre di questa stanza dove lavoro. Fratel Silvestro metterà a riposare il mostro meccanico della falciatrice e i suoi aiutanti rientreranno in casa con le zappe e le pale. E io prenderò un libro e, se vi è tempo prima della Messa conventuale, andrò a passeggiare un poco sotto gli alberi. E quasi tutti gli altri andranno nello “scriptorium” a scrivere le loro conferenze di teologia, o a ricopiare citazioni dai libri sul rovescio di vecchie buste. E qualcuno si fermerà accanto alla porta che dal Piccolo Chiostro conduce al giardino dei monaci e farà scorrere il rosario fra le dita, in attesa che avvenga qualcosa.
Poi andremo tutti nel coro, e farà caldo, e l’organo rimbomberà potente, e l’organista, che starà ancora imparando, farà molti sbagli. Ma sull’altare sarà offerto a Dio l’eterno Sacrificio del Cristo al Quale noi apparteniamo e Che ci ha radunato qui tutti insieme.
Congregavit nos in unum Christi amor.
Prima che noi nascessimo, Dio ci conosceva.
Egli sapeva che alcuni di noi si sarebbero ribellati al Suo amore e alla Sua misericordia, che altri l’avrebbero amato sin dal momento in cui sarebbe loro stato possibile amare qualcosa e mai sarebbero venuti meno a quest’amore. Egli sapeva che vi sarebbe stata gioia in cielo fra gli angeli della Sua casa per la conversione di alcuni di noi, sapeva che un giorno ci avrebbe radunati tutti al Getsemani per i Suoi scopi, perché celebrassimo il Suo amore.
La vita di ciascuno in questa abbazia fa parte di un gran mistero. Sommati insieme formiamo qualcosa che di gran lunga ci trascende. Ancora non comprendiamo che cosa sia. Ma sappiamo, nel linguaggio della teologia, di essere tutti membri del Cristo Mistico, di crescere uniti in Lui per il Quale tutte le cose furono create.
In un certo senso noi stiamo sempre viaggiando, viaggiando come se non sapessimo dove siamo diretti.
In un altro senso siamo già arrivati.
Non possiamo in questa vita giungere al perfetto possesso di Dio, e proprio per questo stiamo viaggiando, e nelle tenebre. Ma già lo possediamo per mezzo della grazia e, quindi, in questo senso siamo arrivati e dimoriamo nella luce.
Ma, ahimé, quanto devo ancora camminare per trovare Te al Quale già sono giunto!
Perché ora, o mio Dio, è a Te solo che posso parlare. Perché nessun altro mi capirà. Non posso portare altri di questa terra sulla nube dove io vivo nella Tua luce, cioè nelle Tue tenebre, dove sono umiliato e sperduto. A nessuno posso spiegare l’angoscia che è la tua gioia, la perdita che è il possesso di Te, la distanza da tutte le cose che significa l’arrivo in Te, la morte che è la nascita in Te, perché neppure io ne so nulla, so soltanto che vorrei che tutto fosse finito, vorrei che tutto fosse incominciato.
Tu hai contraddetto ogni cosa, Tu mi hai lasciato nella terra di nessuno.
Mi hai fatto camminare tutto il giorno sotto questi alberi sussurrandomi continuamente: “Solitudine, solitudine”. Ti sei voltato e mi hai gettato in grembo tutto il mondo. Mi hai detto: “Lascia ogni cosa e seguimi”, e poi mi hai legato mezza New York al mio piede come una catena e una palla. Mi hai fatto inginocchiare dietro a quel pilastro mentre la mia mente era più rumorosa di una banca. È contemplazione questa?
Prima di presentarmi per i voti solenni nella primavera scorsa, il giorno della festa di San Giuseppe, nel mio trentatreesimo anno d’età, in qualità di chierico negli Ordini Minori, prima di presentarmi per i voti solenni, ecco quali erano le mie impressioni. Mi pareva quasi che Tu mi chiedessi di rinunciare a tutte le mie aspirazioni di solitudine e di vita contemplativa. Tu mi chiedevi di obbedire ai superiori i quali, ne sono moralmente certo, mi costringeranno a scrivere o a insegnare filosofia, o ad assumere l’incarico di una dozzina di responsabilità materiali qui, nel monastero, e può darsi che finisca anche per diventare maestro dei ritiri e sia costretto a predicare quattro sermoni al giorno ai secolari che vengono nella nostra casa. E anche se non avrò nessun compito speciale, avrò sempre da correre in giro dalle due di mattina alle sette della sera.
Non ho forse passato un anno a scrivere la vita della Madre Berchmans, mandata nel Giappone in una nuova istituzione trappista, mentre avrebbe voluto essere una contemplativa? E cosa avvenne di lei? Avvenne che dovette fare contemporaneamente la portinaia, la maestra degli ospiti, la sagrestana, la cantiniera, la maestra delle sorelle laiche. E quando la sollevarono da qualcuno di questi incarichi, fu soltanto per dargliene altri più duri, come quello di Maestra delle Novizie.
Martha, Martha, sollicita eris, et turbaberis erga plurima…
Quando incominciai il ritiro prima della professione solenne, cercai per un momento di chiedermi se quei voti implicassero qualche speciale condizione. Se ero chiamato alla contemplazione, ed essi non mi aiutavano ad essere un contemplativo, ma mi ostacolavano, che fare?
Ma ancor prima di incominciare a pregare, respinsi questo pensiero.
Quando fui sul punto di pronunciare i voti, decisi di non essere in grado di sapere cosa fosse un contemplativo, che cosa fosse la vocazione contemplativa, che cosa fosse la mia vocazione, che cosa fosse la nostra vocazione cistercense. Non ero infatti certo di conoscere o sapere molto; sapevo soltanto di credere che Tu volevi pronunciassi quei dati voti in quella data casa in quel dato giorno per ragioni a Te note, che dopo di ciò intendevi che io seguissi gli altri, e facessi quello che mi veniva detto; poi le cose si sarebbero chiarite.
Quel mattino, mentre stavo con la faccia a terra in mezzo alla chiesa e il Padre Abate pregava sopra di me, incominciai a ridere con la bocca nella polvere: senza sapere come e perché avevo compiuto davvero la cosa giusta, e anche una cosa magnifica. Ma ciò che era magnifico non era la mia opera, ma l’opera che Tu avevi compiuto in me.
Sono passati mesi, e Tu non hai soffocato nessuno di quei desideri, ma mi hai dato la pace, e io incomincio a vedere di che si tratta. Incomincio a comprendere.
Perché Tu mi hai chiamato non perché porti un’etichetta con la quale io possa riconoscermi e classificarmi in una determinata categoria. Tu non vuoi che io pensi a quel che sono io, ma a quel che Tu sei. O, meglio, Tu non vuoi neppure che io pensi molto, perché Tu mi vorresti innalzare al di sopra del livello del pensiero. E se continuo a tentare di sapere chi sono e dove sono e perché sono, come potrà avvenire ciò?
Di questo non voglio fare un dramma. Non dico: “Tu mi hai chiesto tutto, e io ho rinunciato a tutto”. Perché non desidero più vedere cosa che implichi una distanza tra Te e me, e se arretro e considero me e Te come se fra noi fosse passato qualcosa, da me a Te, vedrò inevitabilmente l’abisso che ci divide, ricorderò la distanza che ci separa.
Mio Dio, sono questo abisso e questa distanza che mi uccidono.
È questa l’unica ragione per cui desidero la solitudine: per essere perduto a tutte le cose create, per morire a loro e alla loro conoscenza, perché esse mi ricordano quanto sono distante da Te. Esse mi dicono qualcosa di Te: che Tu sei lontano da loro anche se sei in loro. Tu le hai fatte, la Tua presenza è la loro essenza, ed esse Ti nascondono a me. E io vorrei vivere solo, lontano da esse. O beata solitudo!
Perché sapevo che soltanto lasciandole mi sarebbe stato possibile venire da Te, ecco perché ero tanto infelice quando mi pareva che Tu mi condannassi a rimanere tra loro. Ora la mia pena è terminata e sta per incominciare la mia gioia: la gioia che rallegra nei più profondi dolori. Perché incomincio a comprendere. Tu mi hai istruito, mi hai consolato, e io ho ricominciato a sperare e ad apprendere.
Sento che mi dici:
«Ti darò ciò che tu desideri. Ti condurrò nella solitudine. Ti guiderò nella via che tu non potrai capire, perché voglio sia la più rapida.
«E perciò tutte le cose che ti circondano sorgeranno in armi contro di te per rinnegarti, ferirti, darti dolore e perciò ridurti alla solitudine.
«A causa della loro inimicizia tu sarai presto solo. Ti respingeranno, ti abbandoneranno e ti rifiuteranno. E allora sarai tutto solo.
«Ogni cosa che ti toccherà ti brucerà, e allora ritrarrai la mano dal dolore, sinché ti sarai allontanato da tutte le cose. E allora sarai tutto solo.
«Ogni cosa desiderabile ti scotterà, ti segnerà col marchio a fuoco e tu fuggirai da lei in pena, per essere solo. Ogni gioia creata verrà a te soltanto come pena e tu morirai alla gioia e rimarrai solo. Tutti i beni che gli altri amano, desiderano e cercano verranno a te, ma soltanto come assassini per tagliarti dal mondo e dalle sue occupazioni.
«Sarai lodato, e sarà come essere bruciato al rogo. Sarai amato, e questo ti spezzerà il cuore e ti spingerà nel deserto.
«Avrai doni, ed essi ti schiacceranno sotto il loro peso. Avrai i piaceri della preghiera, ed essi ti nauseeranno e tu li fuggirai.
«E dopo che sarai stato un poco lodato e un poco amato, Io ti priverò di tutti i doni e di tutta la lode e tu sarai completamente dimenticato e abbandonato e sarai un nulla, una cosa morta, un relitto. E in quel giorno comincerai a possedere la solitudine che hai tanto a lungo desiderato. E la tua solitudine porterà frutti immensi nelle anime di uomini che non vedrai mai sulla terra.
«Non chiedermi quando ciò avverrà, né dove, né come: su una montagna o in una prigione, in un deserto o in un campo di concentramento, in un ospedale o al Getsemani. Questo non ha importanza. E quindi non chiedermelo perché non ti risponderò. Non lo saprai sino a quando non sarà giunto il momento.
«Ma gusterai la vera solitudine della mia angoscia e della mia povertà e ti guiderò sulle vette della mia gioia e tu morirai in Me e troverai tutte le cose nella Mia misericordia che ti ha creato per questo fine e ti ha portato da Prades alle Bermude, a St Antonin, a Oakham, a Londra, a Cambridge, a Roma, a New York, a Columbia, al Corpus Christi, al San Bonaventura, all’Abbazia cistercense degli uomini poveri che faticano nel Getsemani:
«Affinché tu possa diventare il fratello di Dio e imparare a conoscere il Cristo degli uomini ardenti».