17 gennaio 2017

Don Dolindo Ruotolo parla della Messa in Latino

«Queste gravi parole dell’Apostolo ci dànno occasione di trattare una scottante questione, che prospettiamo, protestando la più assoluta obbedienza a qualunque disposizione della Chiesa, ed unicamente per implorare dalle competenti Autorità il loro intervento. Nessuno, in­fatti, potrà negare che il popolo cristiano e la grande maggioranza dei Sacerdoti e dei Religiosi prega tutto al più con lo spirito e non con la mente, perché non intende ciò che dice.

In tutto il mondo le lingue liturgiche sono diverse da quelle comu­ni e parlate, di modo che la massa dei fedeli, sia latini che greci, non capisce nulla di quello che si dice nei sacri Riti, ossia nei momenti più solenni nei quali la grazia divina si effonde sulle anime, e le anime parlano a Dio.


È questa la causa vera e profonda dell’ignoranza dei cristiani nelle cose di Dio, e del loro rilassamento spirituale. Non si può disconoscere un intervento diabolico o almeno uno sfruttamento diabo­lico nel cambiamento delle lingue. Il perfido nemico sapeva bene che il mutamento delle lingue avrebbe portato la confusione e l’isterili­mento dei cuori e della vita cristiana. Una massa di fedeli che assiste ad una Messa, latina o greca, è uno spettacolo molto triste. L’anima ci sta come automa, ci si annoia ci si urta, e non vede più la ragione e l’utilità di stare mezz’ora a sentire un brontolìo senza senso. È vero: oggi si è cercato riparare a questo inconveniente con le versioni in lingua parlata, un po’ troppo tardi in verità, e quando il popolo cristiano si era già abituato a star presente alla Messa più che ad ascoltarla.

Per quanto, però, possa leggersi una preghiera tradotta al posto di quella che recita il celebrante, non si riesce a partecipare in pieno al sacro rito, poiché ogni parola pronunziata dal Sacerdote nella solen­nità dei misteri divini ha un’espressione e un’efficacia che nessuno può sostituire. Del resto chi è che legge il testo sacro nella traduzione? Ben poche persone. La grande massa sta inerte ed incosciente, e non ha il più piccolo pensiero di preghiera.


Ascoltare la Messa oggi, per la stragrande maggioranza, equivale a rimanere seduti o in piedi in Chiesa, con una grande noia, guardando a destra e a sinistra o schiacciando comodamente un pisolino.

L’unica attenzione che presta questa massa di popolo al sacro rito è il vigilare quando sta per finire, di modo che appena si volta l’ultimo Evangelo scatta su dalle sedie e va rumorosamente via, senza partecipare alle preghiere finali, le uniche alle quali ancora il popolo partecipa col Sacerdote, pur non capendone un’acca.


Ogni persona che ragiona capisce che in questo barbaro modo il popolo cristiano non si nutrisce, e che per necessità perde ogni spirito di fede e di devozione. Chi andrebbe mai ad un teatro dove gli attori parlassero in una lingua sconosciuta? E quale maestro potrebbe in­ segnare in tal modo le cose più importanti dell’arte o della scienza che insegna? Nessuno può negare che il grande e totalitario decadi­ mento cristiano è cominciato proprio quando il latino è diventato in­ comprensibile alla massa dei fedeli. Quanti tesori di esortazioni vive e rifulgenti di grazia e di Spirito Santo si perdono nella Chiesa perché il popolo non le intende! Non è davvero penoso per es. che quelli che si sposano non ascoltino una sola parola, una sola che li interessi nel sacro rito? Seduti o inginocchiati, si sentono solo come flagellati da us, is, orum, bus, tis, um, e guardano attorno ansiosi solo che si finisca. Quanta luce di pietà, di religione e di ammonimenti in un Battesimo, nella Cresima, nella benedizione di un morto, nelle esequie di un bimbo si sperpera invano, quante perle preziose sono gettate per terra! Eppure, ognuno di questi riti potrebbe rinnovare tante anime!


Senza dire, poi, che il Sacerdote, sapendo di non essere compreso, non subisce quel salutare controllo che ha dal pubblico ogni attore che recita, perde il senso della responsabilità, e con grande facilità acciabbatta e arruffa le sacre parole del rito sacro, premuroso anche egli di finire presto. Manca tra lui e chi ascolta la comprensione, e, naturalmente, non gli preme di scandire bene le parole e di andare adagio.

È uno sfacelo completo sia dalla parte della maggioranza dei sacri Ministri sia da quella del popolo. Chi regge le sorti del popolo cristiano non può non preoccuparsene, e noi scriviamo questo non per osare di sovrapporci ad essi, ma come una pubblica e dolorante supplica fatta in nome dei pargoli affamati che cercano ansiosamente il pane, e non trovano chi loro lo spezzi. Scriviamo queste cose in gi­nocchio davanti alla Chiesa di Dio, supplicandola a dare ai suoi figli il latte del quale è ricolmo il suo petto materno. Quale bimbo può succhiare al di sopra delle vesti materne? Egli esplora ansiosamente con le manine per trovarvi la fonte della sua vita, e non trovandola piange e diventa cattivo.

Noi piangiamo tutte le lagrime della nostra vita senza conforto, perché non ascoltiamo neppure nella morte le grandi parole della Chiesa che ci accompagnano alla tomba nel momento più tragico della nostra vita, e che ci preparano a comparire innanzi al tribunale di Dio. Anche allora, tra le angosce dell’ultimo malanno e l’ansare dell’agonia, noi sentiamo solo us, um, orum, bus, bis, os, proprio quando come naufraghi in un pelago sterminato e tempestoso, cerchiamo la parola viva e precisa del nocchiero che ci orienti al porto della vita.

Chi ha la responsabilità delle anime non può disinteressarsi di un problema così grave ed urgente per la vita cristiana, e noi, poveri e piccoli servi della vigna del Signore, osiamo levare alla Chiesa questa supplica ardente in nome degl’ignoranti che non intendono, degli in­fermi che non capiscono la voce del medico che li cura, in nome dei combattenti nell’agone terribile della vita, dove ogni comando deve essere ben chiaro e marcato per potere avanzare.


Le grandi parole dell’Apostolo S. Paolo: “Preferisco dire cinque parole sicché io sia capito, per istruire gli altri, anziché diecimila parole in altra lingua”, sono di tale importanza e gravità, che non possono rimanere inascoltate. Non vale dire che... letteralmente egli parla del dono delle lingue in contrapposizione a quello del parlare per istruire gli altri, perché questo anzi rafforza il nostro argomento. Se l’Apostolo per il bene delle anime preferisce di non godere lui delle comunica­zioni dello Spirito Santo e di non parlare in altra lingua lodando Dio, pur di parlare anche limitatamente, anche dicendo solo cinque parole per l’edificazione delle anime, molto più egli deve desiderare che non siano resi incomprensibili torrenti di parole che lo Spirito Santo ha comunicate alla Chiesa per la diretta edificazione delle anime. Se egli non concepisce che nella Chiesa si possa lodare Dio per interna mo­zione dello Spirito Santo, senza che quelli che ascoltano intendano, molto più non concepisce che si possa pregare insieme, e che si possa, con maggiore ragione, istruire gli altri, senza che essi capiscano.

Qual valore ha l’Amen, detto come conclusione di una pubblica preghiera, se chi lo dice non capisce la preghiera che si è recitata? E quale frutto può ricavare un fedele dalle più grandi e solenni istru­zioni che gli vengono fatte se non le ha capite?


S. Paolo, anzi, rafforza il suo argomento in una maniera impres­sionante, e tratta da fanciulli quelli che non capiscono il suo parlare, come dice che una riunione in cui si parla senza essere capiti è riguar­data come una riunione di pazzi. L’argomento, importantissimo, vale soprattutto per quelli che vogliono ad ogni costo conservare certe tradizioni, senza tener conto del bene vero delle anime.


Volere ad ogni costo conservare una lingua oramai incompresa dalla massa dei fedeli, quando essa fu usata unicamente per essere intesa dai fedeli, e quando la Chiesa primitiva rinunziò all’ebraico, all’aramaico ed al greco delle sue origini, adottando in occidente in pieno il latino perché era la lingua conosciuta allora dal popolo, è cosa da fanciulli. L’argomento vale benissimo per quei conservatori ad oltranza, che si ribellano ad ogni sana novità, pur di conservare quello che in realtà non serve più al bene vero delle anime.


A questi possono essere rivolte le parole severe che Dio disse al suo popolo per mezzo di Isaia, e che S. Paolo cita non letteralmente (XXVIII, 11, 12): Per mezzo di uomini di altra lingua, e per altre labbra parlerò a questo popolo, e nemmeno cosi mi daranno retta, dice il Signore. Poiché il popolo suo non ha ascoltato la voce dei Profeti, Egli parlerà a lui castigandolo con l’oppressione degli Assiri, e questi lo domineranno dandogli ordini nella loro lingua. Se il popolo cristiano non ascolta la voce di Dio, e non muta vita per l’intelligenza della sua parola, decadrà talmente nella fede e nella vita, da meritare di cadere sotto il dominio straniero. Egli che non ha ascoltato la voce di Dio, ascolterà allora la voce degli stranieri che lo domineranno.


Questo terribile castigo lo abbiamo toccato con mano; noi Ita­liani, e con noi più o meno tutti i popoli della terra. Invece di edi­ficarci con la parola di Dio, ci siamo baloccati con le stoltezze dello scienticismo, abbiamo disprezzato la parola di Dio, dataci nella luce dei Padri della Chiesa per nostra edificazione, ed abbiamo visto in poco tempo due dominazioni straniere nella nostra terra, la domina­zione tedesca e quella anglo-americana. Veramente Dio ci ha parlato per uomini di altra lingua, e per altre labbra, ma noi neppure gli abbiamo dato retta, perché siamo rimasti ostinati nei nostri peccati. Siamo troppo abituati a considerare tutto da un punto di vista pura­ mente umano, e non intendiamo che, al di sopra delle ragioni umane di prestigio e di unità, ci deve essere l’interesse delle anime.


Certamente è una cosa bella l’universalità del linguaggio della Chiesa nel mondo, certamente è un mezzo di unità, poiché dovunque in tutto il mondo si trovano lo stesso Altare e la stessa preghiera; ma questi vantaggi non compensano l’enorme svantaggio della quasi totale assenza del popolo cristiano dallo spirito e dalla luce dei sacri riti, ossia della più efficace scuola di vita cristiana che abbia la Chiesa.


Del resto anche oggi la Chiesa ammette nel suo seno i riti orien­tali, che non sono latini e non sono neppure greci; or, come si dice la Messa e si prega nelle lingue di questi riti, perché non potrebbe dirsi e non si potrebbe pregare nella lingua parlata di ciascun popolo? È vero, le lingue moderne subiscono una lenta evoluzione, e certo l’italiano del trecento e del seicento non è quello di oggi; ma a queste evoluzioni si può andare dietro con novelle e più precise edi­zioni dei sacri testi liturgici, stampandovi di fronte, magari per i Sacerdoti, anche il testo latino, o greco o siriaco a controllo della traduzione. Del resto quando le traduzioni sono fatte col controllo dell’Autorità Ecclesiastica, e quando si obbligano i fedeli a servirsi dei testi ufficiali, non si corre il pericolo di una confusione o di una falsa interpretazione.


Alcuni appongono a questi palpitanti argomenti il maggior sapore e la migliore espressione che in latino o in greco antico si ha dei concetti del sacro testo, ma questo gusto raffinato è di pochissimi tra gli stessi ecclesiastici, e non si può sacrificare il bene comune del popolo cristiano alle raffinatezze letterarie o spirituali di pochissimi.


La bellezza letteraria dei testi liturgici originali può essere una attrattiva per quelli che già sono ripieni dello spirito di Dio, e può essere un argomento di salutare ammirazione per quelli che non cre­dono e guardano la Chiesa dal di fuori, per così dire.


Ma l’intelligenza di quei testi è necessaria per l’edificazione di quelli che hanno la fede ed hanno necessità di nutrirsi spiritualmente. In fondo è l’argomento che fa S. Paolo per insistere di più sulla superiorità del dono della profezia su quelle delle lingue. Il dono delle lingue, egli dice, dev’essere un segno non per i credenti ma per quelli che non credono; la varietà stupefacente delle lingue sulla bocca di gente che le ignora è semplicemente un segno dell’effusione dello Spirito Santo per quelli che ancora non ne sono persuasi, come lo fu per tanti nel giorno della Pentecoste; è un segno della realtà dell’effusione dello Spirito Santo, ma non è un alimento spirituale per i credenti, cioè per quelli che già la riconoscono, e si radunano nella Chiesa per edificarsi; La profezia, invece, cioè il parlare illu­strando le eterne verità con rivelazioni e lumi soprannaturali, è un dono non per quelli che non credono ma per quelli che credono, e, logicamente, per quelli che vengono alle sacre riunioni non con lo spirito miscredente di chi non ammette ancora la fede e aspetta dei segni per ammetterla, ma con lo spirito desideroso di conoscere le verità di quella fede che già di massima ammette.


Riferendosi proprio a questi che vengono in Chiesa per essere istruiti e per conoscere quella fede che già ammettono e desiderano, S. Paolo soggiunge: Se, dunque, quando tutta la Chiesa è riunita, tutti parlassero in altre lingue, e sopravvenissero semplici catecumeni o infedeli, sentendo parlare da tutti diverse lingue senza capirne nulla, non direbbero che voi siete impazziti? Se invece tutti profetizzano, ed entra un infedele o un catecumeno, viene convinto da tutti delle verità della fede, viene giudicato da tutti, poiché le parole che ascol­tano gli compungono il cuore e gli fanno riconoscere le sue colpe, anche quelle più segrete del suo cuore, onde egli gettandosi con la faccia per terra adorerà Dio, proclamando che Dio è veramente in voi, ossia che veramente lo Spirito Santo vi illumina e che voi vivete di Dio».


(D. Dolindo Ruotolo, Commento al c. XIV della Prima Lettera ai Corinzi, pp. 244 - 250)