31 luglio 2024

Come san Francesco chiese ed ottenne l’Indulgenza della Porziuncola


Una notte dell’anno del Signore 1216, Francesco era immerso nella preghiera e nella contemplazi­one nella chiesetta della Porziuncola, quando im­provvisamente dilagò nella chiesina una vivissima luce e Francesco vide sopra l’altare il Cristo rivestito di luce e alla sua destra la sua Madre Santissima, circondati da una moltitudine di Angeli. Francesco adorò in silenzio con la faccia a terra il suo Signore! Gli chiesero allora che cosa desiderasse per la salvezza delle anime. La risposta di Francesco fu immediata: “Santissimo Padre, benché io sia mi­ sero e peccatore, ti prego che a tutti quanti, pen­titi e confessati, verranno a visitare questa chiesa, conceda ampio e generoso perdono, con una com­pleta remissione di tutte le colpe”.

“Quello che tu chiedi, o frate Francesco, è grande – gli disse il Signore –, ma di maggiori cose sei degno e di maggiori ne avrai. Accolgo quindi la tua preghi­ era, ma a patto che tu domandi al mio vicario in terra, da parte mia, questa indulgenza”.

E Francesco si presentò subito al Pontefice Onorio III che in quei giorni si trovava a Perugia e con can­dore gli raccontò la visione avuta. Il Papa lo ascoltò con attenzione e dopo qualche difficoltà dette la sua approvazione. Poi disse: “Per quanti anni vuoi questa indulgenza?”. Francesco scattando rispose: “Padre Santo, non domando anni, ma anime”. E fe­lice si avviò verso la porta, ma il Pontefice lo chia­mò: “Come, non vuoi nessun documento?”. E Fran­cesco: “Santo Padre, a me basta la vostra parola! Se questa indulgenza è opera di Dio, Egli penserà a manifestare l’opera sua; io non ho bisogno di alcun documento, questa carta deve essere la Santissima Vergine Maria, Cristo il notaio e gli Angeli i testi­moni”. E qualche giorno più tardi insieme ai Vescovi dell’Umbria, al popolo convenuto alla Porziuncola, disse tra le lacrime: “Fratelli miei, voglio mandarvi tutti in Paradiso!”.

(Da “Il Diploma di Teobaldo”, FF 3391­3397).


Il dono dell’Indulgenza

Dal mezzogiorno del primo agosto alla mezzanotte del giorno seguente (2 agosto), oppure, col permesso dell'Ordinario (Vescovo), nella domenica precedente o seguente (a decorrere dal mezzogiorno del sabato fino alla mezzanotte della domenica) si può lucrare una volta sola l'indulgenza plenaria.

CONDIZIONI RICHIESTE:
  1. Visita, entro il tempo prescritto, a una chiesa Cattedrale o Parrocchiale o ad altra che ne abbia l'indulto e recita del "Padre Nostro" (per riaffermare la propria dignità di figli di Dio, ricevuta nel Battesimo) e del "Credo" (con cui si rinnova la propria professione di fede).
  2. Confessione Sacramentale per essere in Grazia di Dio (negli otto giorni precedenti o seguenti).
  3. Partecipazione alla Santa Messa e Comunione Eucaristica.
  4. Una preghiera secondo le intenzioni del Papa (almeno un "Padre Nostro" e un'"Ave Maria" o
  5. altre preghiere a scelta), per riaffermare la propria appartenenza alla Chiesa, il cui fondamento e
  6. centro visibile di unità è il Romano Pontefice.
  7. Disposizione d'animo che escluda ogni affetto al peccato, anche veniale.
Le condizioni di cui ai nn. 2, 3 e 4 possono essere adempiute anche nei giorni precedenti o seguenti quello in cui si visita la chiesa; tuttavia è conveniente che la Santa Comunione e la preghiera secondo le intenzioni del Papa siano fatte nello stesso giorno in cui si compie la visita.

29 luglio 2024

“Cristo vive in me!”

Quando ricevo la Santa Comunione io ricevo Cristo.

Cristo discende in me per vivificarmi con la Sua Vita

e per trasformare le mie attività in maniera

che io amo ciò che Lui ama, odio ciò che Lui odia,

desidero ciò che Lui desidera.

I Suoi interessi, i Suoi affetti e i Suoi desideri divengono i miei.

In tal senso, posso esclamare con San Paolo:

“Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me”.

Nel profondo della mia anima, è avvenuto un meraviglioso mutamento:

mi son dato a Cristo. “Cristo vive in me!”.

27 luglio 2024

Spirito olimpico con Ultima Cena queer

Le olimpiadi di Parigi partono mettendo in scena uno spettacolo che, tra vitelli sull’altare dell’alzabandiera e balletti che assomigliano all’Ultima Cena in salsa queer, può tranquillamente essere applaudito come rappresentazione abbastanza fedele del nuovo spirito dell’Occidente. Qualcosa che non solo ha dimenticato le proprio radici di Atene, Roma e Gerusalemme, ma è una nuova weltanschauung con i suoi dogmi laicisti. C’è tanto woke e poco spirito olimpico nell’apertura dei giochi francesi, offerto con molta arroganza, infischiandosene di ferire la sensibilità cristiana.

Le indignazioni social per l’anticristianesimo strisciante (si fa per dire) si chiedono se tanto circo Barnum si sarebbe potuto mettere in scena anche scimmiottando altre religioni, ad esempio l’Islam, oppure la fantasia dei creativi qui trovi dei blocchi improvvisi.


La cerimonia di apertura dei XXXIII Giochi olimpici non passerà alla storia come uno spettacolo di bellezza, ma come un baraccone riempito di ossessioni contemporanee. I francesi lo hanno ben realizzato, tra una Maria Antonietta decapitata e una bella marsigliese lirica cantata da una Marianne di colore sul tetto del Grand Palais. Davanti al momento clou, con quella che ha tutta l’aria di essere un Ultima Cena eseguita da drag queen, l’ex politico francese Philippe de Villiers ha scritto su X: «Stiamo commettendo il suicidio del nostro Paese davanti al mondo intero. L’Ultima Cena con le drag queen e la decapitazione di Maria Antonietta aggiungono infamia alla bruttezza. La Francia di Macron e del wokismo non è la Francia».

Intanto, in piena ossessione per l’égalité, il cantante Philippe Katerine, nudo come un verme, coronato di fiori, il corpo dipinto di bluette, cantava: “Non più ricco, non più povero quando sei nudo”. Non manca la danza etnica «per esprimere l’ansia climatica, la richiesta di pace e la ricerca di luce» , come spiegava in diretta France 2.

Ma torniamo un attimo soltanto a quella che ha davvero tutta l’aria di essere una parodia dell’Ultima Cena. Riprendendo il celebre dipinto di Leonardo ecco al centro una drag queen obesa e aureolata a rappresentare il Cristo e intorno altre drag a scimmiottare i 12 apostoli. Sul tavolo appunto il cantante Philippe Katerine – una sorta di Dioniso con la testa e il basso ventre circondati da pampini di vite – era posto al centro, su un piatto, come se fosse cibo, il corpo di Cristo, quindi, di questa parodia.

Ci chiediamo quale sia il legame con lo sport e lo spirito olimpico. E ci rispondiamo con poche parole: nessuno. Ogni pretesto sembra davvero buono per ferire la sensibilità cristiana, l’unico pregiudizio ancora accettabile per una cultura “occidentale” che dice continuamente di essere accogliente e di rispettare tutte le forme di cultura. Tutte tranne una, che peraltro è quella che le ha dato i natali.

(Foto trasmissione France 2)



25 luglio 2024

Prelati fuori controllo - Zuppi, il cardinale queer

"Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàtema! L'abbiamo gia detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema!" (Galati 1,8-9)

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Al Giffoni Film Festival, dedicato a bambini e ragazzi, il presidente dei vescovi italiani esalta la famiglia queer alla Michela Murgia, una sorta di "comune" in cui vengono decostruiti tutti i ruoli familiari, con lo scopo dichiarato di distruggere la famiglia naturale. Affermazioni gravissime, ne tengano conto almeno i cardinali nel prossimo Conclave.

«Bisogna capire cosa significa “queer” a mio parere. A me lo spiegò una persona il cui nome era Michela ed il cognome era Murgia. Mi raccontava dei figli che aveva, con cui non aveva un legame di sangue. Si sposò con un uomo perché gli voleva bene e perché potesse continuare ad aver quel legame con questi figli. Credo che questo dovremmo impararlo tutti, che può esistere un legame senza che necessariamente ci sia un risvolto giuridico. Il punto è volersi bene». Così ha dichiarato un uomo, il cui nome è Matteo ed il cognome Zuppi, arcivescovo di Bologna, cardinale di Santa Romana Chiesa e presidente della Conferenza Episcopale Italiana.

Intervenuto al Giffoni Film festival (festival cinematografico per bambini e ragazzi), attualmente in svolgimento, il Cardinale ha mostrato ulteriori sviluppi del suo noto qualunquismo dottrinale. Che l'importante sia “volersi bene” è affermazione che si trova ormai su qualsiasi bocca e trova consenso in qualsiasi angolo del pianeta: basta non dare alcun contenuto all'espressione e lasciare che ognuno la riempia del contenuto che più gli aggrada: dalla donna che abortisce un figlio con malformazioni per evitargli sofferenze nella vita, a Cappato che aiuta gli altri a morire liberamente e senza dolore, al pedofilo che vive una relazione “consensuale” con un minore.

Ora, Zuppi ci spiega che anche la “famiglia queer” non è altro che una di queste varianti del “volersi bene” e lo ha capito grazie alla nota scrittrice perfettamente mainstream, deceduta un anno fa. Per capire la gravità delle affermazioni del Cardinale, occorre richiamare alla mente la “creatura” della Murgia. Sposata nel 2010 con Manuel Persico, un informatico bergamasco, si separò da lui quattro anni dopo, motivando così la sua decisione: «Non ho mai creduto nella coppia, l’ho sempre considerata una relazione insufficiente. Lasciai un uomo dopo che mi disse che sognava di invecchiare con me in Svizzera in una villa sul lago. Una prospettiva tremenda».

Quindi la nascita della “famiglia queer”: quattro “figli dell'anima”, come lei li chiamava, dei quali non si sa molto da dove sbuchino; unica certezza: non sono figli suoi. Il primo Raphael Louis, di cui si sa qualcosa in più, è un “figlio condiviso” con la vera madre, Claudia, con la quale la Murgia ha rivendicato di essere una coppia omogenitoriale: «Come è successo che siamo diventate madri insieme? Lo ha fatto succedere Raphael a nove anni, prendendomi la mano nella stessa sera in cui l’ho visto per la prima volta e dicendo: non voglio che te ne vai mai più (…). Nei successivi dodici anni io ho divorziato, lei si è sposata, abbiamo vissuto tante cose insieme, ma una cosa non è mai cambiata: siamo rimaste le madri di Raphael» (vedi qui). Poi la presenza di un uomo, l'attore e regista Lorenzo Terenzi, di sedici anni più giovane di lei, che la Murgia ha sposato civilmente «controvoglia» poco prima di morire, a causa della mancanza di altri strumenti giuridici per garantirsi diritti vicendevoli.

La “queerness famigliare” della Murgia è in sostanza una comune, nella quale non ci sono ruoli, disprezzati come maschere che rovinerebbero «l'elezione amorosa». «Nella queer family che vivo non c'è nessuno che non si sia sentito rivolgere il termine sposo/sposa in questi anni», aveva spiegato la scrittrice. Figlio, sposo, madre, padre: termini totalmente liquefatti, che non stanno ad indicare più nulla: «Dentro questa famiglia tutto è cambiato, i ruoli ruotano. Nella famiglia tradizionale questo non avviene, perché è il sangue che li determina. Un padre è un padre sempre. E a volte questa cosa è un ergastolo. Sia per il padre che per i figli» (vedi qui).

Dunque, di fronte a questa completa sovversione dell'ordine che Dio ha posto nella realtà familiare, il cardinale Zuppi non ha altro da dire se non che «il punto è volersi bene». Così come l'importante era volersi bene nel caso della coppia gay benedetta ufficialmente nel giugno 2022, ben prima di Fiducia supplicans, da don Gabrielle Davalli, direttore dell'Ufficio Pastorale della Famiglia della diocesi di Zuppi, che della benedizione era stato informato (vedi qui), raffazzonando poi delle giustificazioni che erano delle balle belle e buone (qui).

Per volersi bene, c'è bisogno di credere? «No – risponde il cardinale –. C'è tanta gente che dà forme di altruismo e attenzione al prossimo, forme di generosità, senza credere». E aggiunge: «Aiuta credere? Sì. Ti aiuta a non usare gli altri, a volergli bene per davvero, ma le religioni non hanno l'esclusiva del voler bene». Nulla da eccepire che ci possa essere altruismo e generosità anche al di fuori della fede, ma ci si domanda se un vescovo abbia ricevuto l'episcopato per chiacchierare sull'altruismo degli atei. E soprattutto se l'ordine sacro sia stato conferito per tacere di Gesù Cristo e citare la Murgia. Perché Zuppi fa sempre così: per lui il mondo ha bisogno della Costituzione, della non violenza, della generosità, dell'inclusività, ma mai una volta che ricordasse – e si ricordasse – che il problema dell'uomo è il peccato, che ci rende schiavi del maligno e destinati alla condanna eterna. Ed è precisamente da questo che Nostro Signore – lui e solo lui – è venuto a liberarci. E la famiglia vissuta secondo il piano di Dio è parte costitutiva di questa liberazione degli affetti dalle passioni, dalle ideologie, dal falso amore di sé e del prossimo, di cui la “famiglia queer” è esempio lampante.

La “quereness familiare” della Murgia, che tanto piace a Zuppi, altro non è che la decostruzione sistematica di ogni relazione che ha fondamento nella creazione: la figliolanza, la paternità, la maternità, la sponsalità. Relazioni che Dio ha voluto nella loro piena verità, che include anche la tanto disprezzata e incompresa corporeità, perché potessero essere segni tangibili e visibili della relazione tra noi e Dio. Perché la Murgia – tanto per ricordarlo a Zuppi – ha costituito la “queer familiy” esplicitamente per decostruire e liquefare la famiglia: non “tradizionale”, termine che può essere equivocato con una precisa forma storica, ma naturale.

Le esternazioni del Cardinale Zuppi sono di una gravità estrema, e dovrebbero richiamare l'attenzione del Dicastero per la Dottrina della Fede, ma, visto chi lo presiede, non ci sono speranze umane. Auspichiamo che almeno i cardinali ne tengano conto per il prossimo conclave. Non abbiamo dubbi che ne terrà conto il Signore, a cui sale la supplica affinché ci liberi dai lupi in veste d'agnello.

BUSSOLA QUOTIDIANA

.... direbbe la Sora Lella: Ah annamo bene...proprio bene....



22 luglio 2024

Novissimi… sepolti

In questa parte dell’Anno liturgico, tra la conclusione di un anno e l’inizio di un altro, dovremmo essere sospinti più che mai a meditare sui “Novissimi”, cioè sulle realtà ultime: la morte, il giudizio di Dio, l’inferno e il paradiso.


Cliccare sull'immagine per ascoltare la versione audio di quanto riportato di seguito

La stessa Liturgia, “fons et culmen” della vita cristiana (cfr. S.C., n. 10), ci sollecita a questo.

Ma cercare i Novissimi nella predicazione, discorsi, catechesi, messaggi della Chiesa contemporanea è più arduo che cercare l’ago in un pagliaio! E in genere, quando talora lo si trovasse, spesso è falso ed eretico, cioè non corrispondente al vero, dunque a ciò che Dio stesso ci ha rivelato e che inesorabilmente incontreremo come invece è (per questo si dice “giudizio”, cioè l’emergere evidente della verità) già un secondo dopo la nostra morte!

Non si tratta di una questione marginale, ma essenziale, fondante; su cui tutto si regge o crolla!

Lo esprime bene anche S. Paolo, scrivendo ai Corinzi. Ma, pensandoci bene, lo coglie anche la nostra ragione.

Quando infatti S. Paolo si accorse che alcuni della comunità di Corinto, di fronte ai primi cristiani che morivano (mentre Cristo non era ancora tornato “glorioso” a concludere la storia e a giudicare tutti), cominciavano a sollevare dubbi sulla vita eterna, l’Apostolo li richiamò fortemente su questo punto, talmente essenziale, dice, che la sua negazione metterebbe in crisi l’intera fede cristiana, annullando il Vangelo nel suo centro e in fondo negando Cristo stesso!

Ascoltiamo allora le sue parole (il testo intero è in 1Cor 15), che, ricordiamo, sono Parola di Dio:

“Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano!

Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti.  Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me […]

Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti […]

E perché noi ci esponiamo al pericolo continuamente? … Se soltanto per ragioni umane io avessi combattuto a Efeso contro le belve, a che mi gioverebbe? Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo“ (1Cor 15,1-8.12-20.30-32).

Che la questione dell’Aldilà sia decisiva ed essenziale, lo coglie del resto appunto anche la nostra ragione.

In un percorso infatti – e tutta la vita è in fondo un grande viaggio (in cui nessuno può fermare il tempo o impedire che alla fine ci sia la morte!) – la fine, il dove stiamo andando, non è mai una questione secondaria o una facoltativa curiosità, ma è lo scopo e il senso stesso del cammino, il fine. Non parlarne, non capire, è in fondo costringerci a “girare a vuoto”, a vanificare il viaggio stesso, persino a renderlo assurdo, senza senso e in fondo fonte di disperazione (il contrario di “speranza” – ricordiamo che nell’ottica di fede la “speranza” dell’Aldilà è una “virtù teologale”!). E a nulla servirebbe cercare di non pensarci; perché comunque il tempo passa, il viaggio va avanti (e nessuno può fermarlo) e la fine (o il fine) si avvicina inesorabilmente!

Per questo la questione del tempo e dell’Aldilà è decisiva, anche a livello umano, cioè per la vita terrena e per ogni uomo.

Se poi qualcuno pensasse ancora, dopo 2000 anni dalla venuta di Dio sulla Terra, che dell’Aldilà non sappiamo nulla (c’è chi ancora dice “non è mai venuto nessuno dall’Aldilà a dirci come stanno le cose”!), dimenticherebbe che è venuto Dio stesso a dircelo! E a ridarci, ad un prezzo altissimo (la Sua Croce), il paradiso, liberandoci dal potere di Satana e dall’inferno!

Per questo, il silenzio attuale, pressocché generalizzato anche nella Chiesa, sulla questione (sui Novissimi), vanifica alla base la fede cristiana, il Vangelo stesso, l’Incarnazione stessa di Dio e la Redenzione dell’uomo operata da Cristo Signore nel mistero pasquale (la Sua morte e risurrezione)!

E ciò, pensandoci bene, rappresenta persino il più grande “furto” all’uomo (altro che una generica e umanitaria “carità”!), perché lo priva del senso stesso della vita e della possibilità della salvezza eterna!

Sull’essenzialità della questione, anche a livello umano, ci siamo trattenuti già nell’Introduzione alle catechesi (“Perché dovrei?” – vedi il testo, come pure l’audio-catechesi in mp3 riportata alla fine, del resto già presente su YouTube, vedi nella sezione Video).

Sull’Aldilà c’è poi anche la catechesi 7 (vedi), come pure l’audio-catechesi in mp3 riportata alla fine e anch’essa già presente su YouTube (vedi) nella sezione Video.

Sul “morire cristiano”, vista la confusione attuale anche di molti cattolici praticanti, abbiamo poi fatto alcune sottolineature in 3 documenti (riportati anche nella sezione Fede e morale): sulla cremazione (vedi), la donazione degli organi (vedi) e l’eutanasia (vedi).

Circa la questione del tempo e del suo senso (e il suo fine!) avevo in passato anche prodotto un piccolo testo, richiestomi dalla Pastorale Universitaria del Vicariato di Roma per tutti gli universitari presenti in città (a Roma gli universitari sono circa 250.000!) e riportato qui in pdf nella sezione Archivio: Il tempo e il suo senso (leggi).

Fino a poco tempo fa era infatti a tutti evidente che la questione dei Novissimi (morte, giudizio, inferno e paradiso) era il punto centrale e risolutivo della fede cristiana; ma anche la novità assoluta del Vangelo (rispetto anche alle Religioni e filosofie) e per la vita stessa di ogni uomo.

Se infatti l’anelito all’eternità e l’intuizione dell’immortalità dell’anima (in quanto spirituale) era già presente nel senso religioso universale dell’uomo, in ogni religione e persino razionalmente fondato già nella filosofia classica greca, cosa fosse poi l’Aldilà, la vita eterna, rimaneva invece per tutti (persino per l’Antico Testamento biblico) un mistero insondabile, cui teorie astratte e non provate cercavano invano di indicare qualche risposta.

Il Vangelo, cioè l’avvenimento (non una teoria!) di Cristo, della Sua venuta e soprattutto della Sua morte e risurrezione, spalancavano invece pienamente (almeno per ciò che è necessario sapere per la nostra salvezza eterna) il mistero sul senso della vita e soprattutto sulla morte e l’Aldilà. Appunto i Novissimi: cosa avviene nel momento della morte (la separazione dell’anima dal corpo), il giudizio “particolare” di Dio (per ciascuna anima) e quello “universale” (di tutti, alla fine del mondo e alla risurrezione dei corpi), il paradiso (beatitudine eterna) e l’inferno (dannazione eterna)!

Lo si apprendeva già da bambini e vi si ritornava continuamente nella predicazione.

Ascoltiamo in proposito cosa diceva il celebre Catechismo di S. Pio X, che nella sua forma semplice (a domande e risposte) ancora 60 anni fa veniva persino studiato a memoria già dal Catechismo, cioè fin da bambini!

Ecco alcune chiare espressioni iniziali di tale glorioso Catechismo:

“Chi ci ha creati? Ci ha creati Dio!” …

“Perché Dio ci ha creati? Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per goderlo poi nell’altra, in paradiso

“Che cos’è il Paradiso? Il paradiso è il godimento eterno di Dio, nostra felicità, e, in Lui, di ogni altro bene, senza alcun male”. “Merita il paradiso chi è buono, ossia chi ama e serve fedelmente Dio, e muore nella sua grazia”

“I cattivi che non servono Dio e muoiono in peccato mortale meritano l’inferno”. “L’inferno è il patimento eterno della privazione di Dio, nostra felicità, e del fuoco, con ogni altro male, senza alcun bene”.

“Dio premia i buoni e castiga i cattivi perché è la Giustizia infinita”

“Gesù Cristo giudicherà ciascuno subito dopo la morte”

“Ci sono due giudizi: l’uno particolare, di ciascuna anima, subito dopo la morte; l’altro universale, di tutti gli uomini, alla fine del mondo”

“Dopo il giudizio particolare l’anima, se è senza peccato e senza debito di pena, va in paradiso; se ha qualche peccato veniale o qualche debito di pena, va in purgatorio finché abbia soddisfatto; se è in peccato mortale, come ribelle inconvertibile a Dio, va all’inferno

“È certo che esistono il paradiso e l’inferno: lo ha rivelato Dio, spesse volte, promettendo ai buoni la vita eterna e il suo stesso gaudio, e minacciando ai cattivi la perdizione e il fuoco eterno”.

“Il paradiso e l’inferno dureranno eternamente”.

Oggi questi contenuti chiari della vera e perenne fede cattolica (condizione della nostra salvezza eterna!) sembrano addirittura diventati parole proibite, persino in molti ambiti della Chiesa.

Si ripete a sproposito, cioè in modo unilaterale (e quindi falso), che “Dio è amore” e misericordia infinita (il che è verissimo! cfr. 1Gv 4,8-10.16); ma un amore senza verità e giustizia è una caricatura dell’amore, della verità, di Dio stesso!

Inutile sentirsi poi dire che la Chiesa deve “aggiornarsi”, “cambiare paradigma”: perché Dio, come la Verità, non cambia! Se la Chiesa cambiasse su questioni così decisive (la nostra salvezza eterna e le condizioni per raggiungerla!), rivelate da Dio stesso, non sarebbe più credibile, in fondo non sarebbe più la Chiesa Cattolica! Perché non insegnerebbe più il Vangelo di Cristo Signore (che non a caso dedica proprio a queste “realtà ultime” gran parte del suo contenuto)!

Tra l’altro, se la Chiesa osasse cambiare questi contenuti essa si inventerebbe un proprio Dio a piacimento, magari apparentemente più allettante e meno sconvolgente, ma che non ci salverebbe! Inoltre, se la Chiesa “di oggi” osasse tanto (disobbedendo a Dio e tradendo l’umanità!), potremmo allora aspettarci coerentemente che quella “di domani” smentisca quella di oggi!

Eppure nel Credo (Simbolo niceno-costantinopolitano, del IV secolo) affermiamo fortemente “aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”; e già nel Credo “apostolico” troviamo la certezza che Gesù, risorto e asceso al cielo, “siede alla destra di Dio, Padre onnipotente; di là verrà a giudicare i vivi e i morti”, così come crediamo fermamente alla “resurrezione della carne” e alla “vita eterna”.

Nella Salve Regina parliamo della vita terrena come di un “esilio”, che per di più assai spesso si tratta di una “valle di lacrime”, e preghiamo la Vergine Santa di “mostrarci, al di là di questo cammino terreno da esuli, il Suo Figlio Gesù”! E ancora, in ogni Ave Maria, la preghiamo con insistenza di assisterci in ogni momento, ma soprattutto “nell’ora della nostra morte”, perché da come sarà trovata l’anima nostra in quel momento dipenderà la nostra salvezza o dannazione eterna!

Questa consapevolezza cristiana era così forte e radicata nel popolo di Dio, che fino a qualche decennio fa erano comuni tra il popolo queste espressioni: si pregava Dio che ci risparmiasse non tanto la morte ma la morte “improvvisa” (subitanea), cioè senza la possibilità di prepararsi bene (per questo dobbiamo essere sempre “pronti”, come ci raccomanda innumerevoli volte lo stesso Signore Gesù!), cioè con la S. Confessione, il Viatico (ultima Comunione) e il sacramento dell’Estrema Unzione! Ma era anche comune, ad esempio di fronte ad un pericolo e persino ad un affettuoso scherzo di un nipotino per spaventare la nonna, sentirle dire “mi fai morire senza sacramenti”: il dramma non sarebbe stato tanto morire, ma appunto morire senza sacramenti!

Del resto erano anni, e innumerevoli generazioni, che nei dialoghi, per assicurare di una certezza assoluta annunciata, la si confermava con un semplice quanto indiscutibile “com’è vero Dio!” e “com’è vera la Madonna!”

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Il cristianesimo non è una semplice religione paragonabile con le altre (pur essendo la religione con più seguaci: 2,5 miliardi di persone). Il Vangelo non è una semplice “dottrina”, confrontabile con altre dottrine religiose o filosofiche.

Gesù Cristo è il Signore (il Kyrios), Dio stesso fatto uomo, incarnato. Il suo non è un semplice “messaggio” (come oggi comunemente si dice, in fondo già relativizzandolo a livello di opinione tra le tante!), una dottrina opzionale, una “credenza” tra le tante, anzi persino più trascurabile delle altre (si pensi, specie in Europa occidentale, all’attuale indifferenza, apostasia, al diffuso ateismo e materialismo, e persino all’approdo a credenze orientali sulla “reincarnazione” o a quelle pagane sul “ritorno alla Natura”!). Cristo Signore è invece il perché di tutto e di tutti!

Basterebbe pensare agli “inni cristologici” presenti in S. Paolo (cfr. Ef 1,3-10; Col 1,12-20 – vedi anche il seguito di questi testi solenni), da meditare continuamente!

Ecco quello nella Lettera agli Efesini (cap. 1):

“Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo… In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi con ogni sapienza e intelligenza, poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra”.

E quello nella Lettera ai Colossesi (cap. 1):

“Ringraziamo con gioia il Padre, che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui.

Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli”.

Altro che una religione tra le tante! o persino un’opinione tra le tante!

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Ripetiamolo ancora. Se ci chiediamo (e dobbiamo chiedercelo continuamente, trovando risposta certa nella fede) “Perché siamo stati creati?”, cioè, in fondo: “perché esistiamo?”, la risposta sintetica e verissima è quella che ci ha ricordato il Catechismo di S. Pio X e che è sintesi di tutta la Bibbia (Rivelazione di Dio e storia della salvezza): “Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per goderlo poi nell’altra, in paradiso”.

Non dobbiamo però dimenticare un altro dato “rivelato” e fondamentale.

Già col “peccato originale”, all’inizio della storia dell’umanità, l’essere umano, tentato e vinto da Satana, è decaduto e si è privato del paradiso, cioè della beatitudine eterna di Dio (come tutti gli angeli ribelli decaduti e diventati così “diavoli”, che hanno costituito di conseguenza l’inferno – l’inferno non è stato creato da Dio, perché è una “privazione”; Dio ha creato degli esseri liberi, gli angeli e l’uomo, liberi persino di dirgli di no). La stessa natura umana, tuttora trasmessa dai genitori ai figli, è così decaduta e ferita, con l’aggravante poi di tutti i peccati personali, commessi dall’uso della ragione in poi.

Tutto ciò ci ha dunque destinati inesorabilmente all’inferno. Ma Dio, nella Sua infinita misericordia, mediante l’Incarnazione, passione, morte e risurrezione del Signore nostro Gesù Cristo (Dio stesso fatto uomo), ci ha liberato dal potere di Satana (“Il Principe di questo mondo”, il “menzognero” e “omicida fin dall’inizio”, come lo chiama Gesù stesso) e ci ha riaperto le porte del paradiso, unendoci a Sé!

Oggi potrebbe per molti sembrare una sintesi esagerata o incomprensibile, ma fondamentalmente Gesù è venuto a liberarci dal potere di Satana (pur lasciandoci liberi, per donarci la possibilità di un merito) e dall’inferno, riaprendoci (a prezzo del Suo Sangue, cioè del Sacrificio della Croce) le porte del paradiso, cioè l’accesso alla vita stessa della Santissima Trinità!

È in tal senso purtroppo significativo che non si predichi più che il Battesimo ci libera dal “peccato originale” e dal potere di Satana (l’antico Rito prevedeva infatti perfino molteplici “esorcismi”, anche per i neonati!), ma ci si limita a dire che esso ci fa diventare “figli di Dio” (cosa certo verissima) o che in questo modo si entra semplicemente “nella comunità cristiana”, per molti come se si trattasse dell’ingresso in un club o di una tessera di partito (per questo si arriva poi all’obiezione che allora dovrebbe decidere liberamente il piccolo, una volta divenuto adulto).

Ascoltiamo infatti già una delle prime prediche di S. Pietro (At 10,34-43), guida suprema della Chiesa in quanto primo Papa (come Gesù ha voluto la Sua Chiesa): sinteticamente proclama che “Gesù Cristo, che è il Signore di tutti, … passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo“. Poi aggiunge: “noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio. Tutti i profeti gli rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome”.

E così ancora in S. Paolo, secondo un episodio narrato da Atti degli Apostoli (At 26), in cui tra l’altro leggiamo (Paolo sta difendendosi in un processo intentato contro di lui dai Giudei):

“Agrippa disse a Paolo: “Ti è concesso di parlare a tua difesa”. Allora Paolo, stesa la mano, si difese così: […] “i Giudei sanno che, come fariseo, sono vissuto nella setta più rigida della nostra religione. Ed ora mi trovo sotto processo a causa della speranza nella promessa fatta da Dio ai nostri padri […] Perché è considerato inconcepibile fra di voi che Dio risusciti i morti?

Anch’io credevo un tempo mio dovere di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, come in realtà feci a Gerusalemme; molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l’autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti e, quando venivano condannati a morte, anch’io ho votato contro di loro. In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all’eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere.

In tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio. Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo. E io dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: Io sono Gesù, che tu perseguiti. Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me”.

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Dobbiamo quindi precisare che Dio vuol salvare tutti; ma invece non tutti si salveranno! Perché Dio, pur avendoci salvati in Cristo e a prezzo della Sua morte e risurrezione (quindi siamo salvi per “grazia”), non ci toglie la libertà (altrimenti saremmo dei “burattini senza alcun merito”) e quindi anche la possibilità di rifiutare la chiamata alla santità, la grazia, la conversione e dunque la salvezza eterna! Tutto il Vangelo, cioè Gesù, insiste continuamente sulla necessità della conversione e l’accoglienza fruttuosa della grazia per essere salvi!

Dire – come purtroppo si sente oggi dire sempre più spesso! – che “si salvano tutti e comunque”, cioè anche quelli che rifiutano volontariamente la fede, il Battesimo, la conversione, il pentimento dei propri peccati e il proposito di non più commetterli, la Confessione e l’Eucaristia, non corrisponde affatto al Vangelo, cioè alla parola stessa di Cristo; e quindi non è fedele a Dio, alla Verità rivelata, non è rispettoso della Sua giustizia e del Suo stesso amore. Non è però neppure rispettoso dell’uomo, perché se così fosse Dio scavalcherebbe la nostra libertà (ci farebbe violenza!) e ci toglierebbe la possibilità di acquisire dei meriti (e conseguentemente anche avere delle colpe). Inoltre, questa convinzione erronea di fatto annulla la missione stessa della Chiesa, inviata da Cristo e con lo Spirito Santo nel mondo e nella storia per “salvare” le anime, cioè gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi (cfr. Mc 16,15-16 e  Mt 28,17-20)!

Questa “salvezza di tutti e comunque” è infatti una conclamata eresia (falsa credenza nella cosiddetta “apocatastasi”, cioè nella salvezza generale alla fine del mondo), cioè una convinzione falsa, contraria al Vangelo e all’autentica fede cattolica. Essa è stata ufficialmente condannata dalla Chiesa nel Concilio di Costantinopoli II del 553.

L’apocatastasi (dal greco “apocatastasis“) è una falsa dottrina di origine gnostica, diffusa specie nel III secolo, secondo cui ci sarebbe alla fine il ristabilimento generale e definitivo di tutta la creazione (e di tutti) in uno stato di perfetta beatitudine. Anche i peccatori (impenitenti) alla fine del mondo sarebbero tutti perdonati e riconciliati con Dio dopo un “fuoco purificatore.

Tale eresia, condannata (come contraria al Vangelo e all’autentica fede e dottrina) appunto dal Concilio di Costantinopoli II (553), nega la pena dell’Inferno (eterno), di cui invece parla continuamente Gesù!

Questa eresia, che sembra così bella, consolante e a lode dell’amore misericordioso di Dio, è falsa e perniciosa per lo spirito e invece di salvarci ci spingerebbe progressivamente ad abbandonare ogni impegno spirituale e morale e in ultima analisi ci condurrebbe così verso la dannazione eterna!

Una salvezza assicurata a tutti e comunque mina infatti alla base il combattimento spirituale, togliendoci forza, tenacia, volontà di vincere ogni tentazione, spingendoci così inesorabilmente a perdere. Se è vero che l’impeto più forte deve essere quello di amare Dio (e piacergli) con tutte le nostre forze, è pur vero che ci è assai utile anche ricordare e temere la possibilità dell’eterna dannazione!

Questa conclamata eresia, oggi così rimontante e diffusa, oltre ad incoraggiare la pigrizia, svuota poi di senso non solo ogni lotta, ogni fatica, ma anche ogni dolore, persino la forza per affrontare e superare le numerose e inevitabili prove della vita! In queste prove noi possiamo partecipare invece alla passione e Croce di Cristo Signore, e quindi contribuire alla nostra e persino altrui salvezza!

Com’era significativa e bella, sia pur da comprendere esattamente (perché è Cristo, con la Sua grazia, che ci salva), la popolare e fino a poco tempo fa assai diffusa espressione, nell’affrontare le prove della vita: “per guadagnarmi il paradiso”!

Inoltre, questa attuale perdita del significato del dolore e delle prove stesse della vita abbandona progressivamente o in un facile e ingenuo ottimismo (“andrà tutto bene”, comunque) o nella disperazione, persino alla perdita della virtù teologale della speranza (il desiderio di raggiungere Dio, speranza perché appunto non è automatico e assicurato comunque, dunque richiede vigilanza, come Gesù stesso ci richiama molteplici volte!); ma progressivamente, di fronte alle prove della vita e al male del mondo, può condurre anche alla disperazione umana e sociale. Per questo vediamo che sempre più l’uomo contemporaneo, una volta palesatisi gli insuccessi e il fallimento degli strumenti scientifici, medici e persino politici per risolvere i problemi, si sente talmente schiacciato dalle prove e dal male da desiderare di “farla finita”! In questo senso si comprende non solo il vertiginoso aumento dei suicidi (in crescita esponenziale significativamente proprio nei paesi più sviluppati), ma anche l’attuale logica dell’eutanasia e in fondo anche quella dell’aborto (specie quello eugenetico), quando si dice che certe vite non sono degne di essere vissute e allora si eliminano, “nel loro miglior interesse”! Possiamo poi persino cogliere in questa perdita del significato delle prove della vita (“per guadagnarci il paradiso”) anche la crescita esponenziale, specie nelle società più benestanti, dei disturbi psichici, delle depressioni, degli esaurimenti nervosi, persino quando non ci sono problemi reali, ma la vita ha perso appunto di significato. La mancanza di senso (cristiano) della vita, delle sue prove, del dolore e persino della morte, rende infatti pian piano la vita insopportabile.

La mancanza dell’Aldilà rende pian piano insopportabile e soffocante l’Al di qua. Togliere il Cielo ha reso insopportabile e terribilmente noiosa la Terra, nonostante tutti i vani tentativi per non pensarci, per distrarsi, per non fermarsi a riflettere, cioè per alienarsi, perfino con tutti i tipi di “droga”, anche quelli che non si definiscono ufficialmente così!  [vedi o ascolta in proposito un mio breve commento per tutta l’Università Cattolica italiana, richiestomi e prodotto in occasione della festa del Battesimo di Gesù]

Pensiamo poi a quella persino logorante espressione che talora potrebbe emergere dal profondo del nostro io: “Chi me lo fa fare?”

Quanto si resiste di fronte a situazioni paradossali, a incomprensioni radicali, persino ad una società che sembra promuovere il cattivo e punire il buono (in questa “dittatura del relativismo”, in questa radicale confusione tra il bene e il male, senza poterli più chiamare con il loro nome)? Alla fine, al di là di qualche raro robusto carattere naturalmente “forte” (quanti lo sono poi davvero e sempre?), questa domanda (chi me lo fa fare?) riemerge in tutta la sua lacerante evidenza, che potrebbe portarci nel vuoto angosciante del non-senso, al lasciarsi andare, ad abbandonare ogni impegno, specie nel combattimento spirituale (interiore)!

La progressiva perdita del senso del peccato, già del “peccato originale” (che ha ferito la nostra natura umana e fa spesso riemergere, persino in coloro che pure ne sono stati liberati per grazia nel Battesimo, la sconsolante sensazione di “non farcela”), come pure la vana lotta contro un’ingiustizia (le cui colpe sarebbero però sempre e solo “degli altri”), potrebbero condurci a non trovare risposta e senso alcuno a questa domanda. Ciò è inesorabilmente accresciuto proprio dal dimenticare che esiste Dio, certo Amore infinito, ma anche Giustizia perfetta e Giudice universale, dal dimenticare che tutti dovremo “rendere conto” a Lui, che tutto e tutti vede e di tutto ricompensa con il premio o il castigo eterno. Questa dimenticanza, potremmo dire persino questa censura (oggi persino nella Chiesa!), dei Novissimi ci toglie alla fine ogni voglia e persino la forza di impegnarci per il bene e per il vero. Chi me lo fa fare? La risposta più grande, più vera e più forte è ancora: Dio!

Inoltre, al di là della nostra tanto declamata volontà di essere “liberi” (persino di fronte a Dio! e questa è la radice di ogni peccato!), quanto invece siamo spesso schiavi del “giudizio degli altri”!

Quanta libertà vera dona invece la certezza del giudizio di Dio, che è ciò che conta davvero (soprattutto per la nostra salvezza eterna, ma anche per la nostra vera pace interiore in questa vita e talora persino per la risoluzione autentica dei problemi, perché comunque esiste e opera la Provvidenza divina! cfr. Lc 12,4-7.15-31), che ciò che saremo per tutta l’eternità non dipende assolutamente da ciò che gli altri pensano di noi (a dire il vero neppure da ciò che pensiamo anche noi di noi stessi), ma da ciò che pensa Dio di noi!

“Alienante” non è la religione, tanto meno il pensiero e la preoccupazione primaria dell’Aldilà (come pensava ad esempio il marxismo), ma esattamente il contrario: l’abolizione dell’Aldilà, dei Novissimi, toglie forza e impegno nella vita presente.

Chi voleva fare il paradiso sulla terra (immanente, contro ogni trascendenza), ne ha fatto un inferno, come dimostrano ampiamente le ideologie, le rivoluzioni e i regimi della modernità (vedi il nostro ampio documento).

Rimangono prima dei “valori”; poi decadono progressivamente anche questi, come riconosce anche il nichilismo e ci indica la società contemporanea (e come aveva profetizzato Nietzsche: senza Dio siamo “Al di là del bene e del male” – vedi anche la citazione circa la morte di Dio, nell’aforisma 125 della Gaia scienza “L’uomo folle”, riportata all’inizio appunto della News “Dio è morto!”).

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Già il Protestantesimo, cadendo anche nell’eresia della “sola grazia” (saremmo salvi gratuitamente per Cristo, per la fede, senza alcun nostro impegno), aveva da un lato portato allo svuotamento della morale e dall’altro aveva generato un “moralismo” asfissiante e persino ipocrita. Pure la filosofia ne ha risentito: pensiamo a Kant e al suo tanto irrazionale quanto vuoto “imperativo  categorico” (“devo perché devo”). E se per Lutero l’eresia della “sola grazia” (sola fede) aveva infatti persino portato all’esasperazione del peccato (“pecca fortiter”), con Calvino aveva addirittura condotto, vista comunque l’inesorabile presenza del male, nella terribile dottrina della “predestinazione” (alcuni nascono già per andare in inferno ed altri per andare in paradiso)!

L’attuale “misericordismo” (si salvano tutti, “Dio perdona tutti e sempre!”, “delinquente il prete che non assolve tutti e sempre!”), tanto antievangelico quanto menzognero e ingannatore – intanto prima o poi deve fare i conti con il male;  e allora i nuovi “dannati” sarebbero solo quelli che operano ingiustizie sociali o persino chi inquina l’ambiente! – rende l’amore di Dio una favola, contro la Sua giustizia. E mentre sembra che apra le porte a tutti (vedi ad es. la News precedente), spalanca le porte non solo ad un male che può diventare sempre più forte e insopportabile (persino condurci all’apocalittica fine), ma quelle stesse dell’inferno!

Ciò rende di fatto la Chiesa inutile (“sale che perde il sapore”!), ridotta ad un gruppo di “impegno sociale” (peraltro sempre più sparuto, perché non avrebbe davvero nulla di nuovo e risolutivo da dire al mondo, ma anzi spesso si trova a rimorchio delle ideologie dominanti); per altri la comunità cristiana diventa invece una sorta di comunità “wellness”, dove trovarsi bene e avere sostegno psicologico (non importa se poi ci si riduce ad obbedire ciecamente al leader di turno, come in una setta). Per questo poi la Chiesa si riduce a parlare in modo logorroico di se stessa (e farlo “insieme”, con migliaia di incontri, non rende meno vano il “cammino”!), di come organizzare la propria attività, preoccupata di “fare qualcosa”! Alla fine ci si riduce al moltiplicarsi di noiosissimi incontri, in genere comunque per “addetti ai lavori” (nonostante il tanto declamato “ascolto di tutti”), peraltro sempre gli stessi. Ciò ha reso pure i sacerdoti degli “operatori sociali” o dei semplici “presidenti” di comunità.

È indispensabile ricordare che la legge suprema della Chiesa, la sua stessa ragion d’essere, è la “salvezza delle anime” (“salus animarum suprema lex”!). È indispensabile ricordare che la salvezza della propria anima è il primo dovere (“Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?” Mc 8,36), il senso di tutto e la forza per poter affrontare anche ogni avversità.

Anche le liturgie sono diventate antropocentriche ed ecclesiocentriche. Persino il “Sacrificio” di Cristo (in Croce e che si rinnova in modo incruento nella S. Messa) s’è ridotto unilateralmente alla “Cena del Signore”, forse persino ad una “cena della comunità”!

In proposito, è importante ricordare che nel cuore e centro stesso della S. Messa (vedi nel sito), proprio nelle parole della “consacrazione del vino” (che diventa così il Preziosissimo Sangue del Signore Gesù, rinnovandosi in modo incruento il Sacrificio della Croce e la vera effusione del Suo Sangue, offerto al Padre per la nostra Redenzione), il testo ufficiale latino sottolinea, secondo le parole stesse di Gesù nell’Ultima Cena, che tale Sangue è “pro vobis et pro multis effundétur”. Erronea quindi la traduzione in molte lingue moderne (ad esempio in italiano, ma anche in tedesco – già il teologo e cardinale J. Ratzinger aveva sottolineato più volte questa erronea traduzione, che implica non pochi problemi a livello teologico, come stiamo sottolineando; ma non fu mai ascoltato, neanche da Papa!) in un “per tutti” (a parte che anche “effuso” è molto più preciso e pregnante, sottolineando l’offerta e donazione libera, del generico “versato”, che potrebbe essere anche per un involontario incidente o omicidio)! Purtroppo anche le continue (e talora improprie) traduzioni italiane della CEI non hanno corretto questo errore, che come si può capire presuppone una sostanziale differenza (Gesù muore per la salvezza di tutti, ma non tutti si salvano, perché non tutti accolgono questa grazia, per cui Gesù effonde di fatto il Suo Sangue “per molti”).

Trattandosi però delle parole stesse di Gesù, il riferimento è alla traduzione CEI della Bibbia (già approvata nel 2002). Molti cambiamenti (e traduzioni improprie, come per il “nuovo” Padre nostro) sono in effetti già lì, così che prima sono entrate nel nuovo Lezionario (entrato in vigore il 2.12.2007) e poi (per le citazioni evangeliche) anche nel nuovo Messale (entrato in vigore nella Pasqua 2021).

Strano però (o è indice proprio della volontà di sottolineare la salvezza di “tutti”?) che, mentre la traduzione CEI dei Vangeli, nel racconto dell’istituzione dell’Eucaristia nell’Ultima Cena, in proposito indichi invece queste parole di Gesù “il mio sangue versato per molti” (cfr. Mt 26,27; Mc 14,24), le parole della consacrazione anche nel nuovo Messale sono invece rimaste tenacemente “per tutti”!

In sintesi, ricordiamo la celebre espressione di S. Agostino: “Colui che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te”!

Infine, pensiamo agli attuali funerali (Esequie): oltre a chi non vuole funerali religiosi (e, abbiamo visto di recente per un caso italiano importantissimo, viene elogiato anche dalle più alte autorità ecclesiastiche!), anche quelli religiosi hanno ormai ben poco di cattolico. Tra l’altro, oltre a  contravvenire le norme liturgiche, già molto fluide (non sono comunque previsti elogi funebri ma ci si deve attenere a pregare e meditare sul mistero di Cristo morto e risorto e quindi sulla fede e morale cristiana), non ci si attiene nemmeno più allo stesso Diritto Canonico, che in molti casi nega comunque che si possano celebrare le Esequie cattoliche (vedi).

Oggi tutti sono bravi, salvi, santi; tutti vanno comunque in paradiso (se ancora ci si crede)! Cosa significhi allora celebrare e pregare “in suffragio” dell’anima del defunto non è dato sapere (tenendo presente che c’è certezza dell’ingresso in paradiso solo per i Santi canonizzati dalla Chiesa)!

Pensiamo ad esempio invece al celebre inno liturgico medievale del Dies irae (vedi nel sito, in fondo alle Preghiere varie, anche in traduzione italiana), che si cantava soprattutto in questo tempo liturgico (ora solo un timido possibile rimando, nella Liturgia delle ore, per questa ultima settimana dell’anno liturgico) e comunque in ogni funerale (altro che elogi funebri e persino applausi … se si tratta di esequie con spessore mediatico)!

Tale inno ha lasciato una traccia profonda persino nella storia della musica! Basterebbe pensare al celebre Requiem di Mozart. Ecco in proposito la scena del film Amadeus (1984), quando Mozart, morente, ne detta a Salieri una decisiva strofa:  “Confutatis, maledictis, flammis acribus adictis; voca me cum benedictis”! (vedi e ascolta).

Ascoltiamo, meditiamo, preghiamo e … non dimentichiamo!

La Via della Vita

21 luglio 2024

Il prete vecchietto dove lo metto?

E io che credevo che un sacerdote una volta ordinato lo è per sempre! invece no, finisce anche che vengono boicottati perché alle celebrazioni del prete "vecchietto" ci va molta più gente rispetto a quelle celebrate da preti in carica che del loro gregge non glie ne importa più di tanto... e poi tanta gente abbandona e le chiese si vuotano sempre più


Qualche anno fa un orecchiabile motivetto cantava: “Il vecchietto dove lo metto?”. La domanda mi è stata riproposta da un sacerdote di 76 anni in altri termini, ma identica nella sostanza: “Si può morire in nome del diritto canonico?”, mi ha domandato. Lì per lì sono rimasto basito e sorpreso; pensavo allo scherzo di un prete buono, simpatico, un po’ burlone. I suoi due occhi blu ti scavano dentro quando ti guarda. Di fronte al mio sorriso egli insistette: “Si può morire in nome del diritto canonico?”.

Ho immediatamente realizzato che egli non stava scherzando affatto. E ho capito. Aveva compiuto 75 anni d’età; aveva presentato al Vescovo la rinuncia all’ufficio di parroco e il Vescovo gliela aveva accettata. Lo aveva inviato come “collaboratore pastorale” di un parroco a cui erano state affidate 9 parrocchie.

“Si può morire in nome del diritto canonico?”. Il Don che continuava a fissarmi con i suoi occhi azzurri è persona, grazie a Dio, in perfetta salute fisica, psicologicamente equilibrata, pronta di riflessi, agile nei movimenti. Guida la macchina con una sicurezza invidiabile. Insomma un 76.enne che potrebbe dare certamente dei punti a un 60.enne!
Era chiara la sua insinuazione. Il canone 538 §3 del Codice di Diritto Canonico prescrive che, compiuti i 75 anni, il parroco è invitato (rogatur) a presentare la rinuncia (renuntiationem) all’ufficio al Vescovo diocesano, il quale, considerata ogni circostanza di persona e di luogo, decide (decernat) se accettarla o differirla. Il Vescovo diocesano deve provvedere in modo adeguato al sostentamento e alla abitazione del rinunciante (renuntiantis), attese le norme emanate dalla Conferenza Episcopale.

Ecco la “legge” che “fa morire di Diritto Canonico”. Il prete mio interlocutore si sentiva morire per colpa di una legge, che come si vede non è vincolante; al Vescovo spetta di considerare “ogni circostanza di persona e di luogo”.
La conversazione e il dialogo con il ”Don” si è fatto serrato e, intelligentemente egli mi provocava con argomentazioni che dal punto di vista umano e manegiariale non facevano una grinza (anche secondo me). Egli, infatti, argomentava:
  1. I preti sono sempre più pochi
  2. I vescovi accorpano parrocchie, affidando 4,6,8 e persino più di 10 parrocchie o più a un solo parroco.
  3. I preti che hanno compiuto 75 anni vengono nominati “collaboratori pastorali” e inviati presso una di queste nuove aggregazioni parrocchiali, spesso senza alcun incarico preciso, ma alla mercé del pluri-parrocco che ne dispone inviando il “collaboratore pastorale” dove ve ne sia bisogno.
  4. Per raggiungere tali destinazioni il “collaboratore pastorale” deve far uso della propria autovettura, percorrere i km. necessari, esercitare il ministero per cui è stato inviato, e tornarsene a casa, indisturbato ospite: egli non è il parroco!
Il “Don” mio interlocutore, mentre snocciolava tutte queste considerazioni, si era fatto triste in viso, e continuava come un fiume in piena, lucidamente, la sua riflessione. E si chiedeva, retoricamente: Che senso ha accettare le dimissioni di un parroco 75.enne che gode ancora di piena salute ed equilibrio fisico, privarlo di ogni responsabilità pastorale, mandarlo a “fare il chierichetto” di un confratello più giovane con più parrocchie, il quale lo costringe a percorrere 2,4,6,8, km in macchina (che prima non percorreva) per andare a celebrare una messa, ascoltare delle confessioni, quando avrebbe potuto continuare la sua opera di parroco, o di amministratore parrocchiale, magari in una parrocchia più piccola?

E argomentava: privare una comunità parrocchiale del parroco vuol dire impoverire quella comunità, che in ogni caso soffrirà la sindrome dell’abbandono. E continuava: spesso si usano criteri che nel mondo ecclesiale non pagano. Nel mio caso – diceva – io avrei potuto continuare a avere la cura pastorale della mia parrocchia con un deciso minor impiego di forze fisiche di quelle che mi richiede la collaborazione pastorale presso … In quella Unità Pastorale spesso devo fare più di 6 km in macchina per raggiungere la destinazione indicatami dal parroco. Celebro, come un impiegato presta un sevizio, e torno a casa mia quasi sempre senza neppure scambiare una parola con chi “cerca il parroco”.

Ma il ragionamento del “Don” si è fatto più onnicomprensivo e non si è limitato alla propria situazione; osservava, infatti: nel momento in cui le nostre comunità sono contraddistinte da una “apostasia crescente” la sottrazione del parroco da una parrocchia contribuisce ad allentare la vita cristiana delle comunità che si sentono private di un sacerdote stabile. Purtroppo questa sarà presto la situazione di domani, ma fin che ci sono ultra settantacinquenni in grado di assicurare un servizio pastorale degno d questo nome, perché declassarli a “chierichetti” di un parroco con più parrocchie che li fa girare come trottole ora-qua-ora-là? Si potrebbe nominarlo amministratore parrocchiale al fine di garantire una reciproca libertà sia per il Vescovo sia per il prete anziano che entrerebbe così anche canonicamente in un cambiamento di status e che si sentirebbe immediatamente più libero qualora non potesse continuare la sua attività pastorale. E il Vescovo potrebbe operare con altrettanta libertà qualora dovessero emergere elementi che, a quel punto, suggerirebbero un vero cambio. Il discorso non deve essere generalizzato. Lo stesso Diritto Canonico esprime chiaramente il concetto: “considerata ogni circostanza di persona e di luogo, [il Vescovo] decide (decernat) se accettarla o differirla [la presentazione della rinuncia].

Mi ha molto impressionato la lucidità con cui il “Don 76.enne” mio interlocutore ha fatto lettura della situazione odierna:
  1. L’innegabile calo numerico dei sacerdoti
  2. La considerazione della persona del parroco dimissionario. Perché valutarla a norma di anagrafe, e non tenendo, invece, conto della situazione oggettiva di quanto il sacerdote possa ancora dare e fare. Tra l’altro oggi la vita di una persona, e quindi anche del prete, è mediamente più lunga del passato.
  3. Ripensare alla collocazione spesso svilente e avvilente di un sacerdote che, pur sentendosi ancora in forze e in perfetto equilibrio psicologico, si sente costretto a dover ridimensionare l’attività pastorale e fungere da collaboratore… smarrendo una identità che per decenni l’aveva caratterizzato. E’ sempre un momento difficile dover lasciare la comunità, una chiesa, un luogo dove si è rimasti per lungo tempo, dover traslocare e ridimensionare l’attività pastorale.
  4. Considerare con maggior sollecitudine pastorale la rimozione del sacerdote da una comunità parrocchiale che, spesso improvvisamente, si vede “portare via” un sacerdote ancora in salute e in forze… fisiche e psichiche!
Insomma, ho ricevuto una lezione di vita pastorale difficilmente immaginabile.
Non v’è dubbio che l’età del passaggio dalla attività pastorale alla quiescenza debba essere preparata non solo logisticamente, ma direi – e soprattutto – spiritualmente e psicologicamente! Papa Francesco in un suo proprio documento dal titolo inequivocabile “Imparare a congedarsi” del 12 febbraio 2018, ha scritto: “La conclusione di un ufficio ecclesiale deve essere considerata parte integrante del servizio stesso, in quanto richiede una nuova forma di disponibilità … Chi si prepara a presentare la rinuncia ha bisogno di prepararsi adeguatamente davanti a Dio, spogliandosi dei desideri di potere e della pretesa di essere indispensabile. Questo permetterà di attraversare con pace e fiducia tale momento, che altrimenti potrebbe essere doloroso e conflittuale. Allo stesso tempo, chi assume nella verità questa necessità di congedarsi, deve discernere nella preghiera come vivere la tappa che sta per iniziare, elaborando un nuovo progetto di vita, segnato per quanto è possibile da austerità, umiltà, preghiera di intercessione, tempo dedicato alla lettura e disponibilità a fornire semplici servizi pastorali”.

Pur tuttavia gli elementi fornitimi dal mio interlocutore sono tali da non poter essere disattesi a norma di una interpretazione “rigida” del Diritto Canonico, che – al contrario – mostra una vera possibilità di discernimento.

Umanesimo Cristiano

20 luglio 2024

Il Cristianesimo non è una religione della paura, ma della fiducia e dell'amore al Padre che ci ama

BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro 
Mercoledì, 23 maggio 2012

Lo Spirito e l'«abbà» dei credenti (Gal 4, 6-7; Rm 8, 14-17)

Cari fratelli e sorelle,

mercoledì scorso ho mostrato come san Paolo dice che lo Spirito Santo è il grande maestro della preghiera e ci insegna a rivolgerci a Dio con i termini affettuosi dei figli, chiamandolo «Abbà, Padre». Così ha fatto Gesù; anche nel momento più drammatico della sua vita terrena, Egli non ha mai perso la fiducia nel Padre e lo ha sempre invocato con l’intimità del Figlio amato. Al Getsemani, quando sente l’angoscia della morte, la sua preghiera è: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36).

Sin dai primi passi del suo cammino, la Chiesa ha accolto questa invocazione e l’ha fatta propria, soprattutto nella preghiera del Padre nostro, in cui diciamo quotidianamente: «Padre… sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» (Mt 6,9-10). Nelle Lettere di san Paolo la ritroviamo due volte. L’Apostolo, lo abbiamo sentito ora, si rivolge ai Galati con queste parole: «E che voi siete figli lo prova che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida in noi: Abbà! Padre!» (Gal 4,6). E al centro di quel canto allo Spirito che è il capitolo ottavo della Lettera ai Romani, san Paolo afferma: «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm8,15). Il cristianesimo non è una religione della paura, ma della fiducia e dell'amore al Padre che ci ama. Queste due dense affermazioni ci parlano dell’invio e dell’accoglienza dello Spirito Santo, il dono del Risorto, che ci rende figli in Cristo, il Figlio Unigenito, e ci colloca in una relazione filiale con Dio, relazione di profonda fiducia, come quella dei bambini; una relazione filiale analoga a quella di Gesù, anche se diversa è l’origine e diverso è lo spessore: Gesù è il Figlio eterno di Dio che si è fatto carne, noi invece diventiamo figli in Lui, nel tempo, mediante la fede e i Sacramenti del Battesimo e della Cresima; grazie a questi due sacramenti siamo immersi nel Mistero pasquale di Cristo. Lo Spirito Santo è il dono prezioso e necessario che ci rende figli di Dio, che realizza quella adozione filiale a cui sono chiamati tutti gli esseri umani perché, come precisa la benedizione divina della Lettera agli Efesini, Dio, in Cristo, «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo» (Ef 1,4).

Forse l’uomo d’oggi non percepisce la bellezza, la grandezza e la consolazione profonda contenute nella parola «padre» con cui possiamo rivolgerci a Dio nella preghiera, perché la figura paterna spesso oggi non è sufficientemente presente, anche spesso non è sufficientemente positiva nella vita quotidiana. L'assenza del padre, il problema di un padre non presente nella vita del bambino è un grande problema del nostro tempo, perciò diventa difficile capire nella sua profondità che cosa vuol dire che Dio è Padre per noi. Da Gesù stesso, dal suo rapporto filiale con Dio, possiamo imparare che cosa significhi propriamente «padre», quale sia la vera natura del Padre che è nei cieli. Critici della religione hanno detto che parlare del «Padre», di Dio, sarebbe una proiezione dei nostri padri al cielo. Ma è vero il contrario: nel Vangelo, Cristo ci mostra chi è padre e come è un vero padre, così che possiamo intuire la vera paternità, imparare anche la vera paternità. Pensiamo alla parola di Gesù nel sermone della montagna dove dice: «amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli» (Mt5,44-45). È proprio l’amore di Gesù, il Figlio Unigenito - che giunge al dono di se stesso sulla croce - che ci rivela la vera natura del Padre: Egli è l’Amore, e anche noi, nella nostra preghiera di figli, entriamo in questo circuito di amore, amore di Dio che purifica i nostri desideri, i nostri atteggiamenti segnati dalla chiusura, dall’autosufficienza, dall’egoismo tipici dell’uomo vecchio.

Potremmo quindi dire che in Dio l’essere Padre ha due dimensioni. Anzitutto, Dio è nostro Padre, perché è nostro Creatore. Ognuno di noi, ogni uomo e ogni donna è un miracolo di Dio, è voluto da Lui ed è conosciuto personalmente da Lui. Quando nel Libro della Genesi si dice che l’essere umano è creato a immagine di Dio (cfr 1,27), si vuole esprimere proprio questa realtà: Dio è il nostro padre, per Lui non siamo esseri anonimi, impersonali, ma abbiamo un nome. E una parola nei Salmi mi tocca sempre quando la prego: «Le tue mani mi hanno plasmato», dice il salmista (Sal119,73). Ognuno di noi può dire, in questa bella immagine, la relazione personale con Dio: «Le tue mani mi hanno plasmato. Tu mi hai pensato e creato e voluto». Ma questo non basta ancora. Lo Spirito di Cristo ci apre ad una seconda dimensione della paternità di Dio, oltre la creazione, poiché Gesù è il «Figlio» in senso pieno, «della stessa sostanza del Padre», come professiamo nel Credo. Diventando un essere umano come noi, con l’Incarnazione, la Morte e la Risurrezione, Gesù a sua volta ci accoglie nella sua umanità e nel suo stesso essere Figlio, così anche noi possiamo entrare nella sua specifica appartenenza a Dio. Certo il nostro essere figli di Dio non ha la pienezza di Gesù: noi dobbiamo diventarlo sempre di più, lungo il cammino di tutta la nostra esistenza cristiana, crescendo nella sequela di Cristo, nella comunione con Lui per entrare sempre più intimamente nella relazione di amore con Dio Padre, che sostiene la nostra vita. E’ questa realtà fondamentale che ci viene dischiusa quando ci apriamo allo Spirito Santo ed Egli ci fa rivolgere a Dio dicendogli «Abbà!», Padre. Siamo realmente entrati oltre la creazione nella adozione con Gesù; uniti, siamo realmente in Dio e figli in un nuovo modo, in una dimensione nuova.

Ma vorrei adesso ritornare ai due brani di san Paolo che stiamo considerando circa questa azione dello Spirito Santo nella nostra preghiera; anche qui sono due passi che si corrispondono, ma contengono una diversa sfumatura. Nella Lettera ai Galati, infatti, l’Apostolo afferma che lo Spirito grida in noi «Abbà! Padre!»; nella Lettera ai Romani dice che siamo noi a gridare «Abbà! Padre!». E San Paolo vuole farci comprendere che la preghiera cristiana non è mai, non avviene mai in senso unico da noi a Dio, non è solo un «agire nostro», ma è espressione di una relazione reciproca in cui Dio agisce per primo: è lo Spirito Santo che grida in noi, e noi possiamo gridare perché l'impulso viene dallo Spirito Santo. Noi non potremmo pregare se non fosse iscritto nella profondità del nostro cuore il desiderio di Dio, l'essere figli di Dio. Da quando esiste, l'homo sapiens è sempre in ricerca di Dio, cerca di parlare con Dio, perché Dio ha iscritto se stesso nei nostri cuori. Quindi la prima iniziativa viene da Dio, e con il Battesimo, di nuovo Dio agisce in noi, lo Spirito Santo agisce in noi; è il primo iniziatore della preghiera perché possiamo poi realmente parlare con Dio e dire “Abbà” a Dio. Quindi la sua presenza apre la nostra preghiera e la nostra vita, apre agli orizzonti della Trinità e della Chiesa.

Inoltre comprendiamo, questo è il secondo punto, che la preghiera dello Spirito di Cristo in noi e la nostra in Lui, non è solo un atto individuale, ma un atto dell’intera Chiesa. Nel pregare si apre il nostro cuore, entriamo in comunione non solo con Dio, ma proprio con tutti i figli di Dio, perché siamo una cosa sola. Quando ci rivolgiamo al Padre nella nostra stanza interiore, nel silenzio e nel raccoglimento, non siamo mai soli. Chi parla con Dio non è solo. Siamo nella grande preghiera della Chiesa, siamo parte di una grande sinfonia che la comunità cristiana sparsa in ogni parte della terra e in ogni tempo eleva a Dio; certo i musicisti e gli strumenti sono diversi - e questo è un elemento di ricchezza -, ma la melodia di lode è unica e in armonia. Ogni volta, allora, che gridiamo e diciamo: «Abbà! Padre!» è la Chiesa, tutta la comunione degli uomini in preghiera che sostiene la nostra invocazione e la nostra invocazione è invocazione della Chiesa. Questo si riflette anche nella ricchezza dei carismi, dei ministeri, dei compiti, che svolgiamo nella comunità. San Paolo scrive ai cristiani di Corinto: «Ci sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; ci sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; ci sono diverse attività, ma uno solo è Dio che opera tutto in tutti» (1Cor 12,4-6). La preghiera guidata dallo Spirito Santo, che ci fa dire «Abbà! Padre!» con Cristo e in Cristo, ci inserisce nell’unico grande mosaico della famiglia di Dio in cui ognuno ha un posto e un ruolo importante, in profonda unità con il tutto.

Un’ultima annotazione: noi impariamo a gridare «Abba!, Padre!» anche con Maria, la Madre del Figlio di Dio. Il compimento della pienezza del tempo, del quale parla san Paolo nella Lettera ai Galati (cfr 4,4), avviene al momento del «sì» di Maria, della sua adesione piena alla volontà di Dio: «ecco, sono la serva del Signore» (Lc 1,38).

Cari fratelli e sorelle, impariamo a gustare nella nostra preghiera la bellezza di essere amici, anzi figli di Dio, di poterlo invocare con la confidenza e la fiducia che ha un bambino verso i genitori che lo amano. Apriamo la nostra preghiera all’azione dello Spirito Santo perché in noi gridi a Dio «Abbà! Padre!» e perché la nostra preghiera cambi, converta costantemente il nostro pensare, il nostro agire per renderlo sempre più conforme a quello del Figlio Unigenito, Gesù Cristo. Grazie.

Libreria Editrice Vaticana



19 luglio 2024

Misericordia io voglio e non sacrificio

BENEDETTO XVI
ANGELUS
Piazza San Pietro 
Domenica, 8 giugno 2008

Cari fratelli e sorelle!

Al centro della liturgia della Parola di questa Domenica sta un’espressione del profeta Osea che Gesù riprende nel Vangelo: "Voglio l’amore e non il sacrificio, / la conoscenza di Dio più degli olocausti" (Os 6,6). Si tratta di una parola-chiave, una di quelle che ci introducono nel cuore della Sacra Scrittura. Il contesto, in cui Gesù la fa propria, è la vocazione di Matteo, di professione "pubblicano", vale a dire esattore delle tasse per conto dell’autorità imperiale romana: per ciò stesso, egli veniva considerato dai Giudei un pubblico peccatore. Chiamatolo proprio mentre era seduto al banco delle imposte – illustra bene questa scena un celeberrimo dipinto del Caravaggio –, Gesù si recò a casa di lui con i discepoli e si pose a mensa insieme con altri pubblicani. Ai farisei scandalizzati rispose: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati… Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori" (Mt9,12-13). L’evangelista Matteo, sempre attento al legame tra l’Antico e il Nuovo Testamento, a questo punto pone sulle labbra di Gesù la profezia di Osea: "Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio".

E’ tale l’importanza di questa espressione del profeta che il Signore la cita nuovamente in un altro contesto, a proposito dell’osservanza del sabato (cfr Mt12,1-8). Anche in questo caso Egli si assume la responsabilità dell’interpretazione del precetto, rivelandosi quale "Signore" delle stesse istituzioni legali. Rivolto ai farisei aggiunge: "Se aveste compreso che cosa significa: Misericordia io voglio e non sacrificio, non avreste condannato persone senza colpa" (Mt 12,7). Dunque, in questo oracolo di Osea Gesù, Verbo fatto uomo, si è, per così dire, "ritrovato" pienamente; l’ha fatto proprio con tutto il suo cuore e l’ha realizzato con il suo comportamento, a costo persino di urtare la suscettibilità dei capi del suo popolo. Questa parola di Dio è giunta a noi, attraverso i Vangeli, come una delle sintesi di tutto il messaggio cristiano: la vera religione consiste nell’amore di Dio e del prossimo. Ecco ciò che dà valore al culto e alla pratica dei precetti.

Rivolgendoci ora alla Vergine Maria, domandiamo per sua intercessione di vivere sempre nella gioia dell’esperienza cristiana. Madre di Misericordia, la Madonna susciti in noi sentimenti di filiale abbandono nei confronti di Dio, che è misericordia infinita; ci aiuti a fare nostra la preghiera che sant’Agostino formula in un noto passo delle sue Confessioni: "Abbi pietà di me, Signore! Ecco, io non nascondo le mie ferite: tu sei il medico, io il malato; tu sei misericordioso, io misero… Ogni mia speranza è posta nella tua grande misericordia" (X, 28.39; 29.40).




18 luglio 2024

“Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28)

Nel Vangelo di San Matteo al capitolo XI, questa bella espressione, questo invito grande e profondo di Gesù ad andare da Lui; Gesù ci chiama a sceglierLo, a voler stare con Lui. Gesù non si impone, Gesù non costringe nessuno, non obbliga nessuno, Gesù propone: “Si vis”, se vuoi: se vuoi, questa è la strada, se non vuoi, sei libero.

È scandaloso vedere come il Signore lascia libero l’uomo!

Per noi è molto strana questa cosa, noi tendiamo ad obbligare, noi tendiamo all’uniformità, tendiamo a fare degli altri delle nostre fotocopie, tendiamo a formare le persone secondo le idee che abbiamo nella testa noi, secondo quello che per noi è giusto in questo momento, quello che è giusto essere.

Noi vorremmo formare gli altri ad essere dei tanti piccoli Giorgio, Enrico, Luisa... tanti “Io” in miniatura, dei piccoli cloni che camminano.

Il Signore invece è completamente diverso, il Signore propone, il Signore invita, il Signore fa la diagnosi della nostra situazione, Lui si propone come la cura, come la medicina, poi ciascuno di noi è libero di dire di sì o di dire di no, è libero anche di tradire questo invito, cioè di prenderlo in parte e di stravolgerlo a proprio uso e consumo... siamo liberi anche di fare questo.

Chi invece Lo accoglie e chi Lo coglie, nella Sua identità più profonda, avverte che queste Parole del Signore sono vita!

Il Signore innanzitutto chiama quelli che sono stanchi e quelli che sono oppressi. Cosa vuol dire questo “stanchi” e questo “oppressi”?

Sono quelle persone che non ce la fanno più, che non riescono più ad andare avanti; quando uno è stanco, quando uno è oppresso, vede tutto buio, non vede più niente, più nulla ha senso, non ha più senso niente.

Quanta tristezza io personalmente avverto, quando sento, anche noi credenti, fare certi commenti sulle persone che nella vita hanno fatto delle scelte molto sbagliate!

Pensiamo ai commenti che facciamo nei confronti di coloro che si suicidano, o che tentano il suicidio e poi finiscono in psichiatria... Ma noi ci siamo stati in psichiatria un giorno? Siamo mai andati una volta a servire i malati psichiatrici? Siamo mai entrati una volta in quel reparto? Ci siamo mai stati, non dico una giornata, perché figuriamoci..., ma dico due ore?

Come possiamo noi permetterci di lanciare sentenze sulla scelta che una persona ha fatto in quel momento di togliersi o di tentare di togliersi la vita?

Questi sono gli stanchi e gli oppressi.

Un gesto estremo di questa entità è un gesto che, comunque, ti segna per tutta la vita e che quasi nessuno capisce, perché poi, dopo, diventi o un topo da laboratorio su cui si fanno gli esperimenti e che imbottiscono di farmaci, oppure diventi un poverino e ti guardano tutti come se tu fossi un niente. Enon parlo del mondo, sto parlando di noi, noi, gente di Chiesa.

Ci sono persone che non arrivano a questi gesti estremi ma portano comunque dentro questo senso di morte, questo sentirsi inutili, vuoti, che oramai non hanno più senso. Quante persone anziane — purtroppo non solo anziane — avvertono dentro questo senso di inutilità, questo senso di oppressione! Quante volte si sente invocare la morte: «Come vorrei morire per sentirmi liberato!»

Questa è una stanchezza, è una oppressione profonda dell’anima e della mente, e purtroppo oggi sono pochissime le persone che hanno tempo da dedicare all’umanità, ad ascoltare, ad assistere, a farsi carico, ad empatizzare, come diceva Edith Stein, Santa Teresa Benedetta della Croce, ad empatizzare con le persone, cioè a sentire e patire nello stesso modo, all’unisono, che è molto di più dell’aver pietà e ovviamente impegna di più del dare il soldino, del riempire la pancia. A riempire la pancia faccio in fretta: prendo tre chili di pasta e due pomodori pelati e glieli do.

Empatizzare vuol dire che tutta la mia giornata rimane investita dalla vita dell’altro e questo è molto più complesso!

Tante volte i carcerati mi dicevano: «Sì, sì, voi siete tanto bravi, tanto belli, a venire qui a fare assistenza, però voi stasera tornate alle vostre case, tornate nel vostro convento, tornate nella vostra realtà e siete lì belli belli, liberi liberi a fare le vostre cose... »

È vero! È vero, questa è la realtà!

Mi ricordo una volta un ragazzo giovane, non avrà avuto neanche trent’anni, era un transessuale e, dopo che era venuto a parlare di Gesù, con le lacrime agli occhi mi disse: «Mi porti via, mi dia un lavoro qualsiasi nel suo convento! Io mi taglio i capelli, mi vesto tutto largo per non farmi riconoscere, ma mi porti via, perché se no io, appena uscirò, dovrò tornare in una strada».

Gli stanchi e gli oppressi...

Gesù dice: «Prendete il Mio giogo sopra di voi e imparate da Me... »

Cos’è questo giogo?

Questo giogo è questa sofferenza, è questo dolore, questo buio totale che abbiamo davanti agli occhi e il Signore ti dice: «Prendilo totalmente sulle tue spalle, nella coscienza che non sei solo. Tu abbi la consapevolezza che non sei solo, Io sono con te!»

È vero, la presenza di Gesù è meno epidermica della presenza fisica di un’altra persona, ovvio, però se abbiamo il coraggio di fare questo primo passo, di andare verso il Signore, di stare un po’ davanti al tabernacolo, davanti al crocefisso e di pregare un pochino, dentro avvertiamo una presenza molto più duratura, molto più forte e confortante.

Noi è a questa presenza che dobbiamo fare riferimento!

È da Lui che dobbiamo imparare!

E Lui ci dice che lì troveremo il ristoro della nostra anima e della nostra vita.

Quante volte, scegliere il Signore vuol dire fare scelte di sofferenza grave, vuol dire rinunciare agli affetti, vuol dire rimanere soli, vuol dire perdere il lavoro, vuol dire perdere una promozione, vuol dire perdere la carriera; scegliere Gesù vuol dire perdere tante cose, ...

Questo sicuramente provoca oppressione, provoca paura, provoca incertezza... ecco, il Signore ci dice: «Fai quel passo! Affidati a Me! Io veramente sono il ristoro della tua vita!»

Noi, spesse volte, non avvertiamo Gesù come il ristoro della nostra vita, perché andiamo da tutto e da tutti, tranne che da Lui.

Non andiamo da Gesù cercando il ristoro, andiamo da Gesù come se fosse un “di più”, ma non perché è l’unico ristoro della nostra esistenza.

Allora, questa mattina, vorrei concludere questa omelia con una preghiera antica di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, grande Santo devoto della Vergine Maria.

Lui ha scritto due preghiere, cioè ne ha scritte tante, ma una per quando si va a fare la visita al Santissimo Sacramento, che cercherete poi voi, che è bellissima, e poi ha scritto una preghiera a Maria Santissima, da recitare ogni giorno alla fine della visita al Santissimo Sacramento.

Siccome è dedicata alla Madonna, Madre della Misericordia, vorrei leggere questa preghiera per mettere tutti noi, in questo anno, sotto il manto della Madonna, Madre della Misericordia, perché Gesù è Misericordia e Sua Madre è Misericordia, e a loro dobbiamo ricorrere.

Trovate anche questa preghiera bellissima su internet, bellissima da ascoltare e da fare nostra e la dico per tutti coloro che in questo momento sono dentro a questo buio, dentro a questa stanchezza, dentro a questa oppressione:

“Santissima Vergine Immacolata e madre mia Maria, a Voi, che siete la Madre del mio Signore, la Regina del mondo, l’Avvocata, la Speranza, il Rifugio dei peccatori, ricorro oggi io, che sono il più miserabile di tutti. Vi adoro gran Regina e Vi ringrazio di quante grazie mi avete fatto finora, specialmente per avermi liberato dall’inferno, tante volte da me meritato. Io vi amo Signora amabilissima e, per l’amore che Vi porto, Vi prometto di volerVi servire e di fare quanto posso, affinché siate amata anche dagli altri. Io ripongo in Voi tutte le mie speranze e tutta la mia salute; accettatemi per Vostro servo e accoglietemi sotto il Vostro Manto, Voi, Madre di Misericordia. E giacché siete così potente con Dio, Voi liberatemi da tutte le tentazioni, oppure ottenetemi forza di vincerle sino alla morte. A Voi domando il vero amore a Gesù Cristo, da Voi spero di fare una buona morte. Madre mia, per l’amore che portate a Dio, Vi prego di aiutarmi sempre, ma soprattutto nell’ultimo punto della vita mia. Non mi lasciate fintanto che non mi vedrete già salvo in Cielo a benedirVi e a cantare le Vostre misericordie per tutta l’eternità. Amen. Così spero, così sia”.

Sia lodato Gesù Cristo! Sempre sia Lodato!

Padre Giorgio Maria Faré