Nel Natale 1223, Francesco d’Assisi predispose a Greccio l’occorrente per celebrare in modo degno l’eucaristia in quel giorno solenne: con l’aiuto di un uomo della contrada, di nome Giovanni, fece mettere della paglia in una mangiatoia e fece procurare un bue e un asino, perché fosse visibile a tutti — con «gli occhi del corpo» — in qual modo il fanciullo Gesù era nato a Betlemme, privo di tutto ciò che è necessario a un infante.
Giovanni preparò ogni cosa secondo le indicazioni ricevute: in quella circostanza solennissima il popolo accorse in massa portando ceri e fiaccole. Dopo aver meditato la grandezza del mistero, ripresentato visivamente grazie alla scena fatta allestire da Francesco, sulla greppia venne approntato l’altare e fu celebrata l’eucaristia. Francesco, diacono, intonò il Vangelo e predicò al popolo, parlando con molto trasporto di quel grande mistero: terminata la celebrazione, tutti tornarono alle proprie dimore pieni di gioia. Questo, nella sostanza, il racconto di Tommaso da Celano, il quale narrò per primo l’episodio nella sua Vita del beato Francesco, scritta tra il 1228 e il 1229.
Dal racconto di Tommaso non risulta che Francesco avesse pensato di mettere in scena un presepe come oggi noi lo intendiamo, pura rappresentazione di un mistero di fede. Piuttosto, aveva voluto ricreare le condizioni per un incontro reale con il mistero dell’incarnazione del Signore. Non c’era il bambino nella mangiatoia (né vi fu chi interpretò i ruoli di Giuseppe e Maria), ma su quella stessa mangiatoia fu celebrato il sacrificio eucaristico, poiché per Francesco entrambe le realtà — l’eucaristia e l’incarnazione — rimandavano alla stessa scelta di fondo. La scelta di un Dio che si umilia, che si svuota delle sue prerogative divine, per la salvezza dell’uomo.
Il pensiero di Francesco è sufficientemente chiaro in proposito, ed è in sintonia con quello di molti altri autori spirituali del tempo. «Ecco, ogni giorno egli si umilia — scrive nell’Ammonizione i —, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote».
L’eucaristia perpetua quindi l’incarnazione di Cristo nella storia e, al tempo stesso, esige che — come Cristo — sappiamo espropriarci di tutto, senza ritenere per noi niente di noi stessi. Lo grida a viva voce, Francesco, in un passo pieno di lirismo della Lettera a tutto l’Ordine: «Tutta l’umanità trepidi, l’universo intero tremi e il cielo esulti, quando sull’altare, nelle mani del sacerdote, è presente Cristo, il Figlio del Dio vivo. O ammirabile altezza e stupenda degnazione! O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, si umili a tal punto da nascondersi, per la nostra salvezza, sotto poca apparenza di pane! Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio, e aprite davanti a lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi, perché siate da lui esaltati. Nulla, dunque, di voi trattenete per voi, affinché tutti e per intero vi accolga Colui che tutto a voi si offre». Espropriarsi di tutto, anche di ogni attesa nei riguardi degli altri. Nel Natale del 1223 Francesco volle ricordare, ancora una volta, questa realtà, ripresentandola visivamente agli abitanti di Greccio e del contado vicino.
È opportuno soffermarsi su quanto Tommaso riferisce sui contenuti e le modalità della predicazione di Francesco. L’agiografo afferma che il santo, quella notte, predicò sulla nascita del re povero e su Betlemme, piccola città. Il fulcro della predica di Francesco in quella santa notte mirava, dunque, a contemplare le modalità scelte dal Figlio di Dio per il suo ingresso nella storia degli uomini: il re era un re povero, la città nella quale era nato era una città piccolina. Si tratta, indubbiamente, di un tema costante nella meditazione di Francesco e nella sua proposta di vita cristiana.
Interessantissime, poi, le annotazioni dell’agiografo sulle modalità di quella predicazione: Tommaso afferma infatti che quando Francesco pronunciava la parola «Betlemme» lo faceva riempiendosi la bocca di tenero affetto e producendo (ovviamente con la reiterazione della prima “e”) un suono simile al belato di una pecora, e tutte le volte che diceva «bambino di Betlemme» oppure «Gesù» si leccava le labbra e deglutiva, quasi a gustare la dolcezza di quelle parole. Tommaso, peraltro, è — tra gli agiografi — colui che meglio ci informa sul modo in cui Francesco utilizzava tutte le risorse del corpo e della voce per comunicare i propri sentimenti, fino al punto di affermare che egli aveva fatto di tutto il suo corpo una lingua.
Il Signore, dunque, nasceva ancora una volta, umile e povero come a Betlemme, e chiedeva agli uomini di seguire le sue orme. Il mistero dell’incarnazione e il sacrificio eucaristico, saldamente uniti nella celebrazione voluta da Francesco (è importante ribadire che l’eucaristia fu celebrata sulla mangiatoia da lui fatta appositamente preparare), attestavano un’irrevocabile scelta di campo da parte del Figlio di Dio. Tra l’altro, lo stesso Tommaso da Celano dice espressamente che «l’umiltà della incarnazione e la carità della passione» di Gesù Cristo tenevano tanto occupata la memoria di Francesco, che egli non voleva pensare ad altro.
Tommaso si premura poi di spiegare bene il senso della visione avuta da uno dei presenti, uomo — egli precisa — di mirabile virtù. Costui aveva visto che nella mangiatoia giaceva esanime un fanciullo, il quale, però, all’avvicinarsi di Francesco, si era ridestato dal suo profondo torpore. Questa visione, chiarisce Tommaso, non era in contraddizione con la realtà delle cose, poiché, attraverso il suo servo Francesco, il fanciullo Gesù si era ridestato nel cuore di molti che lo avevano dimenticato.
Certamente la notte di Greccio ha esercitato una profonda influenza sulla posteriore diffusione del presepe (si pensi peraltro quale straordinario strumento di catechesi esso finiva per essere nella polemica contro l’eresia catara, che negava la realtà dell’incarnazione e l’umanità di Cristo). Tuttavia, ben più profondo e impegnativo fu il messaggio lanciato da Francesco nel Natale del 1223: un messaggio che era invito ad accogliere la proposta di Gesù e a seguire le sue orme, nell’umiltà, nella povertà, nell’espropriazione totale di sé. Cosa che egli fece con decisione e con forza, fino alla fine.
L'Osservatore Romano