22 giugno 2025

Il Miracolo Eucaristico di Lanciano

 

L’Evento

Il Miracolo Eucaristico di Lanciano è avvenuto circa l’anno settecento. Ciò si desume da circostanze e concomitanze storiche dovute alla persecuzione in Oriente da parte dell’Imperatore Leone III, l’Isaurico, il quale iniziò una feroce persecuzione contro la Chiesa e il culto delle immagini sacre (iconoclastia). In concomitanza della “lotta iconoclasta” nella Chiesa orientale, molti monaci greci si rifugiarono in Italia, tra essi i monaci basiliani, discepoli di San Basilio (329-379) Vescovo di Cesarea di Cappadocia (nell’attuale Turchia Orientale). Alcune comunità di esse si rifugiarono a Lanciano.

Un giorno un monaco mentre celebrava la Santa Messa fu assalito dal dubbio circa la presenza reale di Gesù nella Santa Eucaristia. Pronunziate le parole della consacrazione sul pane e sul vino, all’improvviso, dinanzi ai suoi occhi vide il pane trasformarsi in Carne, il vino in Sangue.

La tradizione, non attenta come noi oggi ai particolari delle vicende umane, non ci ha consegnato i dati anagrafici del monaco-sacerdote tra le cui mani si è verificato lo straordinario e inatteso mutamento. Sappiamo che era un monaco di rito orientale, greco, appartenente alla grande famiglia spirituale dei basiliani. Un documento del 1631, che riferisce il Prodigio con dovizia di particolari, ci aiuta ad entrare nel mondo interiore dell’anonimo protagonista, dipingendolo “non ben fermo nella fede, letterato nelle scienze del mondo, ma ignorante in quelle di Dio; andava di giorno in giorno dubitando, se nell’ostia consacrata vi fosse il vero Corpo di Cristo e così nel vino vi fosse il vero Sangue”.
Un uomo dunque tormentato dal dubbio, disorientato dalle varie correnti d’opinione, anche nel campo della fede, lacerato dalla inquietudine quotidiana.

Quale fu la sua reazione di fronte alla inattesa mutazione che coinvolse anche le specie sacramentali? Attingendo dal citato documento, leggiamo: “Da tanto e così stupendo miracolo atterrito e confuso, stette gran pezzo come in una divina estasi trasportato; ma, finalmente, cedendo il timore allo spirituale contento, che gli riempiva l’anima, con viso giocondo ancorché di lacrime asperso, voltatosi alle circostanti, così disse: ‘O felici assistenti ai quali il Benedetto Dio per confondere l’incredulità mia ha voluto svelarsi in questo santissimo Sacramento e rendersi visibile agli occhi vostri. Venite, fratelli, e mirate il nostro Dio fatto vicino a noi'”. E’ il sentimento comune che si accompagna ad ogni esperienza di Dio e del suo misterioso agire con i figli degli uomini. Il pane e il vino, investiti dalla forza creatrice e santificatrice della Parola, si sono mutati improvvisamente, totalmente e visibilmente in Carne e Sangue.

La datazione

Non abbiamo nessun elemento in mano che ci permetta di fissare il giorno, il mese o l’anno preciso in cui l’Evento si è verificato. La voce della testimonianza storica tardiva e la testimonianza della tradizione orale unanime inquadrano il Fatto entro la cornice dell’ VIII secolo, senza ulteriori precisazioni.

Un qualche aiuto ci viene dalla storia del secolo in questione. Sappiamo per certo che in Oriente, sotto l’Imperatore Leone III, si scatenò virulenta la lotta iconoclasta contro il culto delle immagini sacre, culto ritenuto legittimo e teologicamente ineccepibile dalla Chiesa romana. Una dolorosa vicenda datata all’anno 725 e che determinò un incremento del flusso migratorio dei monaci greci in Italia, tra cui la piccola comunità approdata a Lanciano.

Alla luce di questo generale quadro di riferimento, possiamo ritenere fondatamente e ragionevolmente che il Miracolo si sia verificato tra gli anni 730-750 dell’era cristiana, con buona approssimazione.

La conferma documentaria

Prescindendo dai positivi risultati della ricerca scientifica, chi desidera conoscere la storia e il culto delle Reliquie del Miracolo Eucaristico, ha disponibili altri dati informativi disseminati nel tempo; tuttavia non dovrebbe sorprendere nessuno la scarsità del materiale documentario su un evento che risale al 700 d.C. Purtroppo e non solo dalla frequentazione archivistica, ma anche da altre fonti risulta di constatare la scomparsa sconsiderata di documenti e la distruzione incosciente di pergamene avvenuta in Lanciano e altrove. In generale, ciò può attribuirsi sia alle precarie condizioni politiche e sociali verificatesi su vasta scala, soprattutto intorno al mille, sia ad altre cause: alla scarsità dei mezzi di comunicazione scritta (quasi tutto era affidato alla tradizione orale o all’opera indefessa dei pochi amanuensi) si aggiungano gli incendi e i saccheggi divoratori, le frequenti guerre e gli immancabili terremoti, l’incuria umana e l’indifferente utilizzazione delle pergamene come copertine di volumi, come coppe per l’illuminazione a petrolio o comune carta per avvolgervi merce varia.

Il primo documento scritto è del 1631 e riferisce nei minimi particolari l’accaduto al monaco. Nei pressi del presbiterio del santuario, sul lato destro della Cappella Valsecca, si può leggere l’epigrafe datata 1636, dove in sintesi è narrato l’Evento.

Possiamo aggiungere in questa sezione anche le diverse Ricognizioni sul Miracolo. Esse sono verifiche storiche e giuridiche per affermare nei secoli l’autenticità del Miracolo da parte dell’Autorità ecclesiastica.

La prima Ricognizione avvenne nel 1574 dall’Arcivescovo Gaspare Rodriguez, il quale constatò che il peso totale dei cinque grumi di sangue equivaleva al peso di ciascuno di essi. Questo fatto straordinario non fu verificato ulteriormente. Il peso attuale complessivo di grumi è di g. 16,505, quello di ciascuno di essi è di g. 8; di g. 2,45; di g. 2,85; di g. 2,05 e di g. 1,15. Bisogna aggiungere mg. 5 di polvere di sangue. Diversi documenti attestano a partire dal secolo XVI, la venerazione resa alle “reliquie” e l’uso che si aveva di portarle in processione in momenti di necessità gravi e urgenti.
Altre ricognizioni avvennero nel 1637, 1770, 1866, 1970.

La localizzazione

Siamo nel “bel Paese”, l’Italia, nella regione Abruzzo, in provincia di Chieti, nella città di Lanciano. A due passi dalla centralissima piazza Plebiscito, nel cuore del centro storico era aperta al pubblico una chiesetta dedicata a San Legonziano, affidata dal senato e dal popolo di Lanciano ad un modesto nucleo di monaci basiliani, approdati nel capoluogo frenano come profughi. Il Miracolo Eucaristico si verificò in tale tempio e tra le mani di uno di questi monaci orientali.

Recenti ricerche archeologiche confermano abbondantemente la presenza di bizantini in zona all’epoca di cui parliamo. Si sono, infatti, rinvenuti reperti ceramici decorati a bande, tipici dell’età bizantina. L’archeologo Andrea Staffa sostiene: “Esattamente al di sotto dell’attuale altare del Santuario (della chiesa di san Francesco) è stata evidenziata un’aula in muratura di conci quadrangolari di pietra, forse riconducibili all’impianto originario del luogo di culto”.

Le Reliquie del Miracolo furono custodite nella chiesetta originaria sino al 1258, passando successivamente dalle mani dei basiliani in quelle dei benedettini (c. 1074) e, dopo la parentesi arcipretale (1229-1252), nelle mani dei francescani.

La vicinanza del fiorente monastero di san Giovanni in Venere (alla periferia di Fossacesia), monastero oggi affidato ai Padri Passionisti, in coincidenza con il tramonto della presenza bizantina, favorì l’insediamento dei benedettini nella chiesa di San Legonziano, appunto tra gli anni 1047 e 1076.

Il monastero benedettino cominciò a vivere e a conoscere la sua inarrestabile parabola discendente a partire dagli anni 1225, in seguito a fattori interni e a comportamenti antimperiali, che ne decretarono l’espulsione da Lanciano nel 1229.

E così la chiesa del Miracolo fu affidata al clero locale, nella persona dell’arciprete fino alla venuta dei francescani il 3 aprile dell’anno 1252. Nel 1258 i frati francescani ricostruirono la chiesa e la dedicarono a San Francesco. Questi religiosi, a loro volta, dovettero lasciare il luogo nel 1809, quando Napoleone I soppresse gli ordini religiosi. Essi riebbero il loro antico convento solo nel giugno 1953.

Le reliquie, chiuse in un reliquiario d’avorio, furono custodite prima nella chiesa di San Legonziano, poi in quella di San Francesco. Al tempo delle incursioni dei turchi negli Abruzzi, un frate minore, chiamato Giovanni Antonio di Mastro Renzo, volle salvarle e, il 1 agosto 1566, partì portandole con sé. Ma dopo aver camminato tutta la notte, si trovò il mattino dopo, ancora alle porte di Lanciano.

Capì allora che lui e i suoi compagni dovevano rimanervi per conservare le reliquie. Queste, una volta passato il pericolo, furono poste su un altare degno di esse, sul lato destro dell’unica navata della chiesa conventuale.

Furono chiuse in un vaso di cristallo, deposto, questo, in un armadio di legno, chiuso con quattro chiavi. Nel 1920, furono poste (le reliquie) dietro il nuovo altare maggiore. Dal 1923, la “carne” è esposta nella raggiera di un ostensorio, mentre i grumi di sangue disseccato, sono contenuti in un specie di calice di cristallo ai piedi di questo ostensorio.

L’esame scientifico

In novembre 1970, per le istanze dell’arcivescovo di Lanciano, Monsignor Perantoni, e del ministro provinciale dei Conventuali di Abruzzo, e con l’autorizzazione di Roma, i Francescani di Lanciano decisero di sottoporre a un esame scientifico queste “reliquie” che risalivano a quasi 12 secoli. Certamente era una sfida: ma né la fede cattolica (che qui non era affatto in gioco), né una tradizione storica certa hanno nulla da temere dalla scienza, perché ciascuna rimane nel proprio campo.

Il compito fu affidato al dott. Edoardo Linoli, capo del servizio all’ospedale d’Arezzo e professore di anatomia, di istologia, di chimica e di microscopia clinica, coadiuvato del prof. Ruggero Bertelli dell’Università di Siena. Il dott. Linoli effettuò dei prelevamenti sulle sacre reliquie, il 18 novembre 1970, poi eseguì le analisi in laboratorio.

Il 4 marzo 1971, il professore presentò un resoconto dettagliato dei vari studi fatti. Ecco le conclusioni essenziali:
  1. La “carne miracolosa” è veramente carne costituita dal tessuto muscolare striato del miocardio.
  2. Il “sangue miracoloso” è vero sangue: l’analisi cromatografica lo dimostra con certezza assoluta e indiscutibile.
  3. Lo studio immunologico manifesta che la carne e il sangue sono certamente di natura umana e la prova immunoematologica permette di affermare con tutta oggettività e certezza che ambedue appartengono allo stesso gruppo sanguigno AB. Questa identità del gruppo sanguigno può indicare l’appartenenza della carne e del sangue alla medesima persona, con la possibilità tuttavia dell’appartenenza a due individui differenti del medesimo gruppo sanguigno.
  4. Le proteine contenute nel sangue sono normalmente ripartite, nella percentuale identica a quella dello schema siero-proteico del sangue fresco normale.
  5. Nessuna sezione istologica ha rivelato traccia di infiltrazioni di sali o di sostanze conservatrici utilizzate nell’antichità allo scopo di mummificazione. Certo, la conservazione di proteine e dei minerali osservati nella carne e nel sangue di Lanciano non è né impossibile né eccezionale: le analisi ripetute hanno permesso di trovare proteine nelle mummie egiziane di 4 e di 5.000 anni. Ma é opportuno sottolineare che il caso di un corpo mummificato secondo i procedimenti conosciuti, è molto differente da quello di un frammento di miocardio, lasciato allo stato naturale per secoli, esposto agli agenti fisici atmosferici e biochimici.
Il prof. Linoli scarta anche l’ipotesi di un falso compiuto nei secoli passati: “Infatti, dice, supponendo che si sia prelevato il cuore di un cadavere, io affermo che solamente una mano esperta in dissezione anatomica avrebbe potuto ottenere un “taglio” uniforme di un viscere incavato (come si può ancora intravedere sulla “carne”) e tangenziale alla superficie di questo viscere, come fa pensare il corso prevalentemente longitudinale dei fasci delle fibre muscolari, visibile, in parecchi punti nelle preparazioni istologiche. Inoltre, se il sangue fosse stato prelevato da un cadavere, si sarebbe rapidamente alterato, per deliquescenza o putrefazione.

Il Miracolo Eucaristico di Bolsena

L’EUCARESTIA: PRESENZA VIVA DI CRISTO, L’AMORE DI DIO SULLA TERRA!


    Nel 1263 a Bolsena, in provincia di Viterbo, si verifica un grande prodigio, in seguito al quale viene istituita per tutta la Chiesa la solennità del
 Corpus Domini.

Il fatto accade tra le mani di un sacerdote boemo di nome Pietro, da tempo dubbioso sulla reale presenza di Cristo nell’Eucarestia: ogni volta che celebra la Messa viene assalito da forti perplessità. Per questa ragione sceglie di andare in pellegrinaggio a Roma per pregare sulle tombe degli Apostoli, percorrendo la via Francigena. Giunto a Bolsena, si reca nella chiesa dove si trova la tomba di Santa Cristina martire, della quale è molto devoto, per venerarla e poi celebrare la Santa Messa.

Proprio al momento della Consacrazione, mentre tiene l’Ostia sopra il calice, la particola si arrossa di sangue, che stilla copiosamente, bagnando il corporale. Il sacerdote, spaventato e confuso, non riesce a continuare il rito: avvolge velocemente le Sacre Specie nel corporale e torna in sagrestia. Durante il percorso alcune gocce di sangue cadono anche sui marmi del pavimento e dei gradini dell’altare.

Dopo i primi momenti di sbigottimento, don Pietro si fa coraggio e, accompagnato dai sacerdoti della chiesa di Santa Cristina e dai testimoni del miracolo, si reca nella vicina città di Orvieto, dove in quei giorni soggiorna papa Urbano IV. Il Santo Padre invia subito a Bolsena il vescovo di Orvieto Giacomo accompagnato - così narra la tradizione - dai teologi Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio. Essi verificano il fatto e portano al Papa le reliquie del miracolo. Urbano IV organizza una solenne processione e, alle porte della città, riceve tra le sue mani l’Ostia e i lini intrisi di sangue: prostrato li adora e li porta nella antica cattedrale di Santa Maria. Le sacre reliquie vengono dapprima mostrate al popolo e poi riposte nel sacrario.

Nel 1264, durante la sua permanenza a Orvieto, Urbano IV istituisce la solennità del Corpus Domini e affida a Tommaso d’Aquino il compito di redigere i testi per la Liturgia delle ore e per la Messa della nuova festività, stabilendo che venga celebrata il giovedì dopo l’ottava di Pentecoste. L’Aquinate, in seguito, compone ben cinque inni eucaristici. Il più famoso è forse l’inno latino Sacris solemniis, la cui penultima strofa - che comincia con le parole Panis angelicus ("Pane degli angeli") - è stata spesso musicata separatamente dal resto dell’inno.

Le reliquie che, ancora oggi, testimoniano l’evento sono: l’Ostia, il corporale e i purificatoi custoditi nella Cappella del Corporale nella Cattedrale di Orvieto; a Bolsena, invece, si trovano sia l’altare su cui accadde il prodigio, sia le lastre di marmo del pavimento macchiate di sangue.

 

Giovanni Paolo II in visita pastorale a Orvieto

Secondo un’antica tradizione, il magnifico Duomo di Orvieto, dedicato a Santa Maria Assunta, venne eretto per celebrare il miracolo di Bolsena, poiché la cattedrale allora esistente sembrava indegna a custodire una così preziosa reliquia, segno della presenza divina. Non abbiamo prove certe di ciò e Papa Giovanni Paolo II, nell'omelia pronunciata nella Cattedrale di Santa Maria Assunta il 17 giugno 1990, giorno del Corpus Dominiha cercato di fare chiarezza su questa “leggenda”: “Anche se la sua costruzione [del Duomo] non è collegata direttamente alla solennità del  Corpus Domini, istituita dal papa Urbano IV con la bolla "Transiturus", nel 1264, né al miracolo avvenuto a Bolsena l'anno precedente, è però indubbio che il mistero eucaristico è qui potentemente evocato dal corporale di Bolsena, per il quale venne appositamente fabbricata la cappella, che ora lo custodisce gelosamente. La città di Orvieto è da allora conosciuta nel mondo intero per tale segno miracoloso, che a tutti ricorda l’amore misericordioso di Dio, fattosi cibo e bevanda di salvezza per l’umanità pellegrina sulla terra”

Inoltre, il Santo Padre nella stessa omelia affermò:

“In tutta la terra la Chiesa vive d’Eucaristia. In questo sacramento trovano la loro sintesi salvifica tutte le parole della vita eterna. Diventano cibo per le anime e, proprio grazie a questo alimento, l’uomo, peregrinante per i molteplici deserti del tempo, si avvia alla Gerusalemme eterna.”

Grazie Signore per questi Segni straordinari perché, anche se ci hai detto “…beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”, sai che siamo come l’apostolo S. Tommaso e che il “vedere” ci serve per capire che davvero il Corpo e il Sangue di Cristo sono presenti nell’Eucarestia, ordinariamente in maniera nascosta, ma vera.

https://www.fcim.it/sussidi-e-riflessioni/il-miracolo-eucaristico-di-bolsena-1298

"Salvando le folle dalla fame, infatti, Gesù annuncia che salverà tutti dalla morte"

 SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO

SANTA MESSA, PROCESSIONE E BENEDIZIONE EUCARISTICA

OMELIA DEL SANTO PADRE LEONE XIV

Piazza San Giovanni in Laterano
Domenica, 22 giugno 2025

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Cari fratelli e sorelle, è bello stare con Gesù. Il Vangelo appena proclamato lo attesta, raccontando che le folle rimanevano ore e ore con Lui, che parlava del Regno di Dio e guariva i malati (cfr Lc 9,11). La compassione di Gesù per i sofferenti manifesta l’amorevole vicinanza di Dio, che viene nel mondo per salvarci. Quando Dio regna, l’uomo è liberato da ogni male. Tuttavia, anche per quanti ricevono da Gesù la buona novella, viene l’ora della prova. In quel luogo deserto, dove le folle hanno ascoltato il Maestro, scende la sera e non c’è niente da mangiare (cfr v. 12). La fame del popolo e il tramonto del sole sono segni di un limite che incombe sul mondo, su ogni creatura: il giorno finisce, così come la vita degli uomini. È in quest’ora, nel tempo dell’indigenza e delle ombre, che Gesù resta in mezzo a noi.

Proprio quando il sole declina e la fame cresce, mentre gli apostoli stessi chiedono di congedare la gente, Cristo ci sorprende con la sua misericordia. Egli ha compassione del popolo affamato e invita i suoi discepoli a prendersene cura: la fame non è un bisogno che non c’entra con l’annuncio del Regno e la testimonianza della salvezza. Al contrario, questa fame riguarda la nostra relazione con Dio. Cinque pani e due pesci, tuttavia, non sembrano proprio sufficienti a sfamare il popolo: all’apparenza ragionevoli, i calcoli dei discepoli palesano invece la loro poca fede. Perché, in realtà, con Gesù c’è tutto quello che serve per dare forza e senso alla nostra vita.

All’appello della fame, infatti, Egli risponde con il segno della condivisione: alza gli occhi, recita la benedizione, spezza il pane e  da mangiare a tutti i presenti (cfr v. 16). I gesti del Signore non inaugurano un complesso rituale magico, ma testimoniano con semplicità la riconoscenza verso il Padre, la preghiera filiale di Cristo e la comunione fraterna che lo Spirito Santo sostiene. Per moltiplicare pani e pesci, Gesù divide quelli che ci sono: proprio così bastano per tutti, anzi, sovrabbondano. Dopo aver mangiato – e mangiato a sazietà – ne portarono via dodici ceste (cfr v. 17).

Questa è la logica che salva il popolo affamato: Gesù opera secondo lo stile di Dio, insegnando a fare altrettanto. Oggi, al posto delle folle ricordate nel Vangelo stanno interi popoli, umiliati dall’ingordigia altrui più ancora che dalla propria fame. Davanti alla miseria di molti, l’accumulo di pochi è segno di una superbia indifferente, che produce dolore e ingiustizia. Anziché condividere, l’opulenza spreca i frutti della terra e del lavoro dell’uomo. Specialmente in questo anno giubilare, l’esempio del Signore resta per noi urgente criterio di azione e di servizio: condividere il pane, per moltiplicare la speranza, proclama l’avvento del Regno di Dio.

Salvando le folle dalla fame, infatti, Gesù annuncia che salverà tutti dalla morte. Questo è il mistero della fede, che celebriamo nel sacramento dell’Eucaristia. Come la fame è segno della nostra radicale indigenza di vita, così spezzare il pane è segno del dono divino di salvezza.

Carissimi, Cristo è la risposta di Dio alla fame dell’uomo, perché il suo corpo è il pane della vita eterna: prendete e mangiatene tutti! L’invito di Gesù abbraccia la nostra esperienza quotidiana: per vivere, abbiamo bisogno di nutrirci della vita, togliendola a piante e animali. Eppure, mangiare qualcosa di morto ci ricorda che anche noi, per quanto mangiamo, moriremo. Quando invece ci nutriamo di Gesù, pane vivo e vero, viviamo per Lui. Offrendo tutto sé stesso, il Crocifisso Risorto si consegna a noi, che scopriamo così d’essere fatti per nutrirci di Dio. La nostra natura affamata porta il segno di un’indigenza che viene saziata dalla grazia dell’Eucaristia. Come scrive Sant’Agostino, davvero Cristo è «panis qui reficit, et non deficitpanis qui sumi potest, consumi non potest» (Sermo 130, 2): un pane che nutre e non viene meno; un pane che si può mangiare ma non si può esaurire. L’Eucaristia, infatti, è la presenza vera, reale e sostanziale del Salvatore (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1413), che trasforma il pane in sé, per trasformare noi in Lui. Vivo e vivificante, il Corpus Domini rende noi, cioè la Chiesa stessa, corpo del Signore.

Perciò, secondo le parole dell’apostolo Paolo (cfr 1Cor 10,17), il Concilio Vaticano II insegna che «col sacramento del pane eucaristico viene rappresentata ed effettuata l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo. Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo: da Lui veniamo, per mezzo suo viviamo, a Lui siamo diretti» (Cost. dogm. Lumen gentium, 3). La processione, che tra poco inizieremo, è segno di tale cammino. Insieme, pastori e gregge, ci nutriamo del Santissimo Sacramento, lo adoriamo e lo portiamo per le strade. Così facendo, lo porgiamo allo sguardo, alla coscienza, al cuore della gente. Al cuore di chi crede, perché creda più fermamente; al cuore di chi non crede, perché si interroghi sulla fame che abbiamo nell’animo e sul pane che la può saziare.

Ristorati dal cibo che Dio ci dona, portiamo Gesù al cuore di tutti, perché Gesù tutti coinvolge nell’opera della salvezza, invitando ciascuno a partecipare alla sua mensa. Beati gli invitati, che diventano testimoni di questo amore!



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21 giugno 2025

Corpus Domini - anno C - Commento al Vangelo a cura di Don Fabio Rosini

Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.

Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta».

Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini.

Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti.

Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla.

Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.



20 giugno 2025

Piccolo Galateo Eucaristico




Entrando in Chiesa.

– Osserva rigorosamente il silenzio sia per il rispetto dovuto alla presenza di Gesù, sia per non arrecare disturbo ad eventuali persone presenti.

– Segnati col segno della croce, eventualmente usando l’acqua benedetta (che ti ricorda il battesimo).

– Cerca subito con gli occhi il tabernacolo in cui abita il Signore Gesù. Puoi individuarlo facilmente poiché accanto ad esso o in prossimità di esso c’è sempre la “lampada” accesa (un cero, normalmente in un involucro di colore rosso). Quella lampada è calore: ti invita ad avvicinarti “con calore”, cioè con amore al tuo Signore.

– Davanti al tabernacolo genuflettiti, ossia piega il ginocchio destro fino a terra, con calma e dignità. Sai quale è il significato di questo bellissimo gesto? Ecco: è farsi piccoli davanti a Lui, che è il Grande, il Sommo, l’Infinito. Piegando il ginocchio dirai: “Sia lodato e ringraziato ogni momento il santissimo e divinissimo sacramento”. Fa come tanti malati che si prostravano a Gesù per essere guariti e, giunti davanti a lui, si buttavano a terra.

– Non sederti subito: resta almeno qualche momento in ginocchio, fissando il tabernacolo e ripetendoti che là, in quell’angusto spazio, c’è Lui, Lui che ti guarda, che ti ascolta e che è contento di vederti lì. Poi comincia pure a parlargli. Così come ti viene, con spontaneità e immediatezza, in piena confidenza.

Il contegno in Chiesa.

La Chiesa è luogo sacro non solo perché è consacrata dal Vescovo con un apposita cerimonia, ma soprattutto perché in essa abita Gesù, il Figlio di Dio, il Santo di Dio, il tuo amore. La Chiesa quindi merita grande rispetto. Non è luogo come gli altri, non può essere declassata. Mantieni quindi il religioso silenzio. Passando davanti al tabernacolo in cui vi è conservata la SS. Eucaristia genufletti sempre: un piccolo disturbo? Ti sembra troppo per Gesù?

Durante la Messa.

Segui esattamente le prescrizioni liturgiche (in piedi, seduti, in ginocchio…..). Al momento della consacrazione resta in ginocchio, senza paure e “vergogne”. Evita di accostarti al Sacramento della Riconciliazione per eseguire la celebrazione eucaristica. Puoi confessarti prima della Messa o in altri momenti opportuni. Al momento della Comunione accostati all’altare in modo ordinato, mantenendo la fila.

Non lasciarti distrarre: per questo abbassa gli occhi e pensa solo a Colui che vai a ricevere. Magari ripeti nella tua mente: “ha sete di te Signore l’anima mia” o qualche cosa di simile.

Prima di ricevere la S. Comunione fa un inchino al SS. Sacramento.

Se desideri ricevere la S. Comunione sulla mano, osserva quanto prescritto e cioè poni la mano sinistra sulla destra, quasi ad implorare un così grande Dono: il Corpo del Signore!

Alle parole del Ministro: “il Corpo di Cristo” , rispondi a voce chiara e con convinzione: “Amen”, che significa “E’ così” o ancora “Ci credo”.

Cerca di usare in modo fruttuoso il tempo di silenzio che segue la distribuzione della Santa Comunione: vivi il consiglio di S. Teresa che esortava a vivere con la maggiore intensità d’amore il ringraziamento dopo la Comunione: “appena comunicati chiudete gli occhi del corpo e aprite quelli dell’anima per fissarli in fondo al vostro cuore dove il Signore è disceso. Vi dico, vi torno a dire e ve lo ripeterei all’infinito, che se vi abituate a questa pratica ogni volta che vi accostate alla Comunione, il Signore non si nasconderà mai” (Cammino di perfezione cap. 34, a.12).

“Cercate la vostra Chiesa fuori del tempio – perché la Chiesa è fatta dei piccoli, dei poveri, dei malati, dei disabili, dei disagiati, è fatta di tutti coloro che non hanno altra speranza se non quella di essere abbracciati da Gesù Cristo”.


Monsignor Salvatore Boccaccio Vescovo di Frosinone

Festa: Testimoni

Roma, 18 giugno 1938 – Frosinone, 18 ottobre 2008

Entrato in seminario nel 1950, Salvatore Boccaccio ha frequentato il Pontificio Seminario Romano e la Pontificia Università Lateranense dove ha conseguito il baccellierato in Filosofia e la laurea in Teologia. È stato ordinato sacerdote il 9 marzo 1963 a Roma ed ha svolto il ruolo di viceparroco in alcune parrocchie romane: dal 1963 al 1968 a San Giovanni Battista De Rossi, dal 1968 al 1973 ai Santi Protomartiri romani e dal 1973 al 1978 a Sant’Ilario nella borgata Palmarola. Sempre dal 1968 al 1973 è stato docente di Religione nel Liceo «Castelnuovo», e nel 1983 è divenuto parroco a Santa Brigida fino al 1986, anno dopo il quale è passato come parroco a San Luca Evangelista al Prenestino. Il 29 ottobre 1987 venne eletto vescovo titolare di Ulpiana e il 7 dicembre ricevette l'ordinazione nella Basilica Lateranense.Il 17 marzo 1992 è stato nominato vescovo di Sabina-Poggio Mirteto.Il 9 luglio 1999 è stato nominato vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino. Si è impegnato per ottenere una visita in diocesi da parte di papa Giovanni Paolo II, realizzatasi il 16 settembre 2001.Si è spento la mattina del 18 ottobre 2008, nel suo appartamento della Curia di Frosinone, dopo una lunga malattia.




“Il vescovo è quello che celebra – ciò che celebra, lui è il vescovo”: parla così il vescovo Boccaccio, giunto a un tornante forse decisivo della vita. Non so che teologia sia ma sento che quello che dice è vero.
“Il vescovo poi sale all’altare e lo bacia – bacia così la sposa”: anche questa mi pare dottrina certa.
“Si unisce profondamente a quelle parole terribili ‘questo è il mio corpo’ sapendo che egli è una cosa sola con lui per sempre”: ora mi è chiaro che sta parlando dell’offerta di sé.



Cercate la Chiesa fuori da qui
Ne cava questa consegna che trasmette ai figli: “Cercate la vostra Chiesa fuori del tempio – perché la Chiesa è fatta dei piccoli, dei poveri, dei malati, dei disabili, dei disagiati, è fatta di tutti coloro che non hanno altra speranza se non quella di essere abbracciati da Gesù Cristo”.
Dove ha preso il povero vescovo di Frosinone, esuberante e invalido – dove ha preso questa ecclesiologia evangelica che non era nei manuali su cui ha studiato e neanche nei documenti del Vaticano II sui quali aggiornò poi la sua formazione? Salvatore Boccaccio ha parlato quella lingua cristiana appassionata e tutta sua venerdì 4 gennaio nella chiesa del Sacro Cuore a Frosinone, a conclusione della festa che la diocesi gli aveva organizzato per i vent’anni di episcopato, tre giorni prima di un nuovo appuntamento con i ferri del chirurgo. Un appuntamento a rischio dal quale – mentre scrivo – non si è ancora ripreso.
Ero lì tra i chiamati a festeggiarlo: il cardinale Tonini, il procuratore della Repubblica di Frosinone Margherita Gerunda, un prete – Domenico Luciani – della diocesi di Sabina-Poggio Mirteto (dove Boccaccio fu vescovo prima di essere trasferito a Frosinone) e Ottavio Petroni già parroco di S. Saturnino a Roma, cioè del settore affidato a Boccaccio quand’era ausiliare del cardinale Poletti. E c’era una folla accorata. Era come se nella malattia la comunità scoprisse il vescovo e il vescovo scoprisse la comunità, reciprocamente nuovi l’uno e l’altra.
Quando tocca a me parlare ricordo in quattro “foto” la mia frequentazione dell’uomo. L’ausiliare di Roma che veniva nella mia parrocchia a celebrare le cresime, 19 anni addietro e uno dei miei figli era tra i cresimandi e alla fine della celebrazione eravamo tutti amici di quel vescovo rubicondo e fraterno. La lettura continuata dei Vangeli che conduceva nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura, sul modello delle lectio del cardinale Martini nel duomo di Milano. Un momento della visita di Giovanni Paolo II a Frosinone nel settembre del 2001, quando salutò il papa indicandogli la gru di un cantiere per la costruzione di una chiesa parrocchiale: “Ecco, Santità, il cantiere della nostra Chiesa”. Infine la malattia per la quale una volta lo intervistai (Regno attualità 2/2003, pp. 71s).
Ognuno raccontata qualcosa. Il grande cuore dell’uomo, la genuina scelta dei poveri, casa sempre aperta a clero e popolo, vicinanza a ogni interlocutore. C’era il coro di Ferentino (la diocesi è Frosinone-Veroli-Ferentino) che cantava. E lì in prima fila don Salvatore – come lo chiamano anche nel sito internet ufficiale – sulla sedia a rotelle alla quale era costretto da novembre, ma forte sempre nell’aspetto e nella voce. Ecco che si fa aiutare a mettersi in piedi, si gira verso il popolo, si appoggia alla sedia a rotelle e parla.
Grazie a voi tutti, tutti, tutti perché la vostra presenza dice che forse ce la facciamo a portare avanti il nostro progetto, anzi ne sono sicuro! Mi hanno domandato: ma qual è la tua esperienza di vescovo? Vi dico soltanto questo. Avevo 49 anni, ero un uomo felice, padrone e signore di tutta la parrocchia romana di Santa Brigida, 45 mila abitanti, dove avevamo noi tre sacerdoti una presenza fortissima, casa per casa. Ero il maresciallo dei carabinieri, il farmacista e il dottore, mezzo sindaco e rappresentante del governo.

Ma lo sa il papa chi sono io?
Mi chiama il cardinale Poletti e mi dice: il Santo Padre ti vuole ausiliare a Roma. E’ stata una botta profonda e dicevo: Dio mio, ma lo sa il papa chi sono io? Dice: scrivilo. E io ho scritto. E’ stato risposto: il Santo Padre la ringrazia per la disponibilità che ha dato e l’assicuro che le cose che lei dice sono forse alla radice dei motivi per cui le abbiamo chiesto di fare il vescovo. “Stia tranquillo e si prepari”.
Mi sono trovato con tutto questo carico addosso inaspettato, impensabile. Mi sono chiesto quale sarebbe stato l’impianto del mio essere vescovo. E poiché ero convinto che è la celebrazione eucaristica a fare il punto centrale dell’esperienza di Gesù, di questo suo incarnarsi e farsi una cosa sola con l’amore del Padre verso i fratelli – ebbene è in questa celebrazione eucaristica anticipata nella Cena del Cenacolo che io ho trovato il punto di partenza e sto cercando faticosamente di viverlo.


La comunione è il dono totale di sè
E così brevemente devo dire che il vescovo è quello che celebra, ciò che celebra, lui è il vescovo!
Il vescovo è uno che chiede perdono per sé e per i suoi fratelli. Poi prega ed è compito del vescovo pregare per i suoi figli.
Poi il vescovo annuncia il Vangelo, fa la catechesi, spiega e spezza il pane della Parola.
Il vescovo poi sale all’altare e lo bacia, bacia così la sposa bella del Signore. Perché l’altare è il talamo nuziale della Chiesa, la sua veste.
Poi il vescovo fa quello che ha fatto Gesù e nella celebrazione offre con Gesù se stesso. Si unisce profondamente a quelle parole terribili “questo è il mio corpo – questo è il mio sangue” sapendo che egli diventa una cosa sola con lui e per sempre.
Poi il vescovo fa la comunione, perché è l’uomo della comunione che non è una trasmissione di parole, ma è comunione sostanziata dalla presenza reale di Gesù Cristo nel misterioso modo di essere dell’Eucarestia.
Il vescovo sa – come ogni presbitero sa – che la comunione non può essere un rito, ma è il dono di sé, totale.
Poi il vescovo invita a uscire, invia alla missione. Andate, questa è la missione, non rimanete nel tempio, uscite, cercate la vostra Chiesa fuori del tempio – perché la Chiesa è fatta dei piccoli, dei poveri, dei malati, dei disabili, dei disagiati, è fatta da tutti coloro che non hanno altra speranza se non quella di essere abbracciati da Gesù Cristo.
Ecco questo è il vescovo e questo io lo sento come fatto vivo, profondo. E lo sento come peccato, perché mentre lo so come idealità, purtroppo non l’ho raggiunto. Ma questo è il cammino ascetico di ogni giorno – in cui chiedere perdono e ricominciare da capo.
Io sono felice di stare qui. Per un vescovo, per un presbitero non c’è parrocchia bella o parrocchia brutta, diocesi ricca o diocesi povera, c’è una cosa sola: popolo da amare, popolo da servire. Gesù – non io – vi chiede di non lasciare solo il vescovo nel suo impegno. Lavoriamo insieme. Amen, auguri.

Dodici anni di infarti e di interventi
In questo ringraziamento non dice una sola parola sui suoi malanni. Dodici anni di infarti e di interventi, a partire dal primo attacco di cuore nel 1995. Operazioni impegnative: una per mediastinite, un’altra alla spina dorsale: Una protesi a un ginocchio, diabete congenito, cuore compromesso. Una caduta e la rottura della protesi al ginocchio. La necessità di un nuovo intervento se vuole alzarsi dalla sedia a rotelle. E’ quello che affronta tre giorni dopo la festa dei vent’anni di episcopato. Al risveglio la pressione è così bassa che viene sedato e attaccato a una macchina per la respirazione. Dorme per una settimana.
I suoi mali li aveva confidati in una lettera ai sacerdoti che ha la data del 7 dicembre, giorno anniversario dell’ordinazione episcopale. Li riespone poi a cena, agli ospiti venuti da fuori, ai quali fa onore – scherzosamente – tirando fuori il servizio con lo stemma di vescovo impresso sui piatti, i bicchieri e le posate che gli era stato regalato per l’ordinazione e che non aveva mai usato. Scherza su tutto, recita il Belli, Trilussa e Pascarella. Contagia ognuno con il buonumore di sempre. Si interroga su Bregantini spostato da Locri a Campobasso pare per paura che l’uccidessero: “Paura di chi, paura di che?” E’ chiaro che ormai don Salvatore non ha più paure.
In questi anni – aveva scritto nella lettera – vi ho offerto le catechesi, le lectio, le omelie, invitandovi ogni volta ad abbandonarvi nelle braccia del Padre. “In manus tuas”: nelle tue mani incondizionatamente, come dice il motto episcopale che scelsi vent’anni addietro. La gioia sprizzava dai miei occhi e da tutto il dinamismo che mettevo in atto, per cui il grazie mi sembrava facilissimo e di grande efficacia. Oggi vi dico che in questi ultimi 17 mesi il Signore ha voluto farmi sperimentare quale fosse la massima ampiezza e profondità che comporta l’abbandonarsi nelle sue mani e quanto costa! Pur continuando a servire la diocesi perché non le mancasse nulla, ho dovuto subire una serie di operazioni chirurgiche dolorose, lancinanti, direi senza tregua! E tuttavia ho continuato a fidarmi del Signore, ripetendogli il mio gioioso “In manus tuas”.

Quel cellulare sempre attivo
In quella lettera – come poi farà nel saluto che ho riportato sopra – chiama i sacerdoti al “Coraggio di uscire dal tempio: siamo i pastori di tutto il 100%, non solo di quelli che vengono in chiesa. Per tutti dobbiamo pregare e a tutti dobbiamo annunciare, con la testimonianza della vita, l’amore di Dio”.
Non è capace di alzarsi in piedi, non gira il collo eppure afferma che non ha intenzione di dimettersi “per salute” e conferma che la sua casa è sempre aperta e il suo cellulare “è attivo 24 ore su 24”. Quel cellulare “sempre attivo” un giorno sarà citato tra le prove della sua virtù eroica. 


Autore: 
Luigi Accattoli

Santi e Beati

18 giugno 2025

«Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: “Vuoi guarire?”» (Gv 5,6)

 LEONE XIV

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 18 giugno 2025

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Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. II. La vita di Gesù. Le parabole. 10. La guarigione del paralitico. «Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: “Vuoi guarire?”» (Gv 5,6)

 


Cari fratelli e sorelle,

continuiamo a contemplare Gesù che guarisce. In modo particolare oggi vorrei invitarvi a pensare alle situazioni in cui ci sentiamo “bloccati” e chiusi in vicolo cieco. A volte ci sembra infatti che sia inutile continuare a sperare; diventiamo rassegnati e non abbiamo più voglia di lottare. Questa situazione viene descritta nei Vangeli con l’immagine della paralisi. Per questo motivo vorrei fermarmi oggi sulla guarigione di un paralitico, narrata nel quinto capitolo del Vangelo di San Giovanni (5,1-9).

Gesù va a Gerusalemme per una festa dei Giudei. Non si reca subito al Tempio; si ferma invece presso una porta, dove probabilmente venivano lavate le pecore che poi venivano offerte nei sacrifici. Vicino a questa porta, sostavano anche tanti malati, che, a differenza delle pecore, erano esclusi dal Tempio perché considerati impuri! E allora è Gesù stesso che li raggiunge nel loro dolore. Queste persone speravano in un prodigio che potesse cambiare la loro sorte; infatti, accanto alla porta si trovava una piscina, le cui acque erano considerate taumaturgiche, capaci cioè di guarire: in alcuni momenti l’acqua si agitava e, secondo la credenza del tempo, chi si immergeva per primo veniva guarito.

Si veniva a creare così una sorta di “guerra tra poveri”: possiamo immaginare la scena triste di questi malati che si trascinavano faticosamente per entrare nella piscina. Quella piscina si chiamava Betzatà, che significa “casa della misericordia”: potrebbe essere un’immagine della Chiesa, dove i malati e i poveri si radunano e dove il Signore viene per guarire e donare speranza.

Gesù si rivolge specificamente a un uomo che è paralizzato da ben trentotto anni. Ormai è rassegnato, perché non riesce mai a immergersi nella piscina, quando l’acqua si agita (cfr v. 7). In effetti, quello che ci paralizza, molte volte, è proprio la delusione. Ci sentiamo scoraggiati e rischiamo di cadere nell’accidia.

Gesù rivolge a questo paralitico una domanda che può sembrare superflua: «Vuoi guarire?» (v. 6). È invece una domanda necessaria, perché, quando si è bloccati da tanti anni, può venir meno anche la volontà di guarire. A volte preferiamo rimanere nella condizione di malati, costringendo gli altri a prendersi cura di noi. È talvolta anche un pretesto per non decidere cosa fare della nostra vita. Gesù rimanda invece quest’uomo al suo desiderio più vero e profondo.

Quest’uomo infatti risponde in modo più articolato alla domanda di Gesù, rivelando la sua visione della vita. Dice anzitutto che non ha nessuno che lo immerga nella piscina: la colpa quindi non è sua, ma degli altri che non si prendono cura di lui. Questo atteggiamento diventa il pretesto per evitare di assumersi le proprie responsabilità. Ma è proprio vero che non aveva nessuno che lo aiutasse? Ecco la risposta illuminante di Sant’Agostino: «Sì, per essere guarito aveva assolutamente bisogno di un uomo, ma di un uomo che fosse anche Dio. […] È venuto dunque l’uomo che era necessario; perché differire ancora la guarigione?». [1]

Il paralitico aggiunge poi che quando prova a immergersi nella piscina c’è sempre qualcuno che arriva prima di lui. Quest’uomo sta esprimendo una visione fatalistica della vita. Pensiamo che le cose ci capitano perché non siamo fortunati, perché il destino ci è avverso. Quest’uomo è scoraggiato. Si sente sconfitto nella lotta della vita.

Gesù invece lo aiuta a scoprire che la sua vita è anche nelle sue mani. Lo invita ad alzarsi, a risollevarsi dalla sua situazione cronica, e a prendere la sua barella (cfr v. 8). Quel lettuccio non va lasciato o buttato via: rappresenta il suo passato di malattia, è la sua storia. Fino a quel momento il passato lo ha bloccato; lo ha costretto a giacere come un morto. Ora è lui che può prendere quella barella e portarla dove desidera: può decidere cosa fare della sua storia! Si tratta di camminare, prendendosi la responsabilità di scegliere quale strada percorrere. E questo grazie a Gesù!

Carissimi fratelli e sorelle, chiediamo al Signore il dono di capire dove la nostra vita si è bloccata. Proviamo a dare voce al nostro desiderio di guarire. E preghiamo per tutti coloro che si sentono paralizzati, che non vedono vie d’uscita. Chiediamo di tornare ad abitare nel Cuore di Cristo che è la vera casa della misericordia!



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