22 giugno 2025

Il Miracolo Eucaristico di Lanciano

 

L’Evento

Il Miracolo Eucaristico di Lanciano è avvenuto circa l’anno settecento. Ciò si desume da circostanze e concomitanze storiche dovute alla persecuzione in Oriente da parte dell’Imperatore Leone III, l’Isaurico, il quale iniziò una feroce persecuzione contro la Chiesa e il culto delle immagini sacre (iconoclastia). In concomitanza della “lotta iconoclasta” nella Chiesa orientale, molti monaci greci si rifugiarono in Italia, tra essi i monaci basiliani, discepoli di San Basilio (329-379) Vescovo di Cesarea di Cappadocia (nell’attuale Turchia Orientale). Alcune comunità di esse si rifugiarono a Lanciano.

Un giorno un monaco mentre celebrava la Santa Messa fu assalito dal dubbio circa la presenza reale di Gesù nella Santa Eucaristia. Pronunziate le parole della consacrazione sul pane e sul vino, all’improvviso, dinanzi ai suoi occhi vide il pane trasformarsi in Carne, il vino in Sangue.

La tradizione, non attenta come noi oggi ai particolari delle vicende umane, non ci ha consegnato i dati anagrafici del monaco-sacerdote tra le cui mani si è verificato lo straordinario e inatteso mutamento. Sappiamo che era un monaco di rito orientale, greco, appartenente alla grande famiglia spirituale dei basiliani. Un documento del 1631, che riferisce il Prodigio con dovizia di particolari, ci aiuta ad entrare nel mondo interiore dell’anonimo protagonista, dipingendolo “non ben fermo nella fede, letterato nelle scienze del mondo, ma ignorante in quelle di Dio; andava di giorno in giorno dubitando, se nell’ostia consacrata vi fosse il vero Corpo di Cristo e così nel vino vi fosse il vero Sangue”.
Un uomo dunque tormentato dal dubbio, disorientato dalle varie correnti d’opinione, anche nel campo della fede, lacerato dalla inquietudine quotidiana.

Quale fu la sua reazione di fronte alla inattesa mutazione che coinvolse anche le specie sacramentali? Attingendo dal citato documento, leggiamo: “Da tanto e così stupendo miracolo atterrito e confuso, stette gran pezzo come in una divina estasi trasportato; ma, finalmente, cedendo il timore allo spirituale contento, che gli riempiva l’anima, con viso giocondo ancorché di lacrime asperso, voltatosi alle circostanti, così disse: ‘O felici assistenti ai quali il Benedetto Dio per confondere l’incredulità mia ha voluto svelarsi in questo santissimo Sacramento e rendersi visibile agli occhi vostri. Venite, fratelli, e mirate il nostro Dio fatto vicino a noi'”. E’ il sentimento comune che si accompagna ad ogni esperienza di Dio e del suo misterioso agire con i figli degli uomini. Il pane e il vino, investiti dalla forza creatrice e santificatrice della Parola, si sono mutati improvvisamente, totalmente e visibilmente in Carne e Sangue.

La datazione

Non abbiamo nessun elemento in mano che ci permetta di fissare il giorno, il mese o l’anno preciso in cui l’Evento si è verificato. La voce della testimonianza storica tardiva e la testimonianza della tradizione orale unanime inquadrano il Fatto entro la cornice dell’ VIII secolo, senza ulteriori precisazioni.

Un qualche aiuto ci viene dalla storia del secolo in questione. Sappiamo per certo che in Oriente, sotto l’Imperatore Leone III, si scatenò virulenta la lotta iconoclasta contro il culto delle immagini sacre, culto ritenuto legittimo e teologicamente ineccepibile dalla Chiesa romana. Una dolorosa vicenda datata all’anno 725 e che determinò un incremento del flusso migratorio dei monaci greci in Italia, tra cui la piccola comunità approdata a Lanciano.

Alla luce di questo generale quadro di riferimento, possiamo ritenere fondatamente e ragionevolmente che il Miracolo si sia verificato tra gli anni 730-750 dell’era cristiana, con buona approssimazione.

La conferma documentaria

Prescindendo dai positivi risultati della ricerca scientifica, chi desidera conoscere la storia e il culto delle Reliquie del Miracolo Eucaristico, ha disponibili altri dati informativi disseminati nel tempo; tuttavia non dovrebbe sorprendere nessuno la scarsità del materiale documentario su un evento che risale al 700 d.C. Purtroppo e non solo dalla frequentazione archivistica, ma anche da altre fonti risulta di constatare la scomparsa sconsiderata di documenti e la distruzione incosciente di pergamene avvenuta in Lanciano e altrove. In generale, ciò può attribuirsi sia alle precarie condizioni politiche e sociali verificatesi su vasta scala, soprattutto intorno al mille, sia ad altre cause: alla scarsità dei mezzi di comunicazione scritta (quasi tutto era affidato alla tradizione orale o all’opera indefessa dei pochi amanuensi) si aggiungano gli incendi e i saccheggi divoratori, le frequenti guerre e gli immancabili terremoti, l’incuria umana e l’indifferente utilizzazione delle pergamene come copertine di volumi, come coppe per l’illuminazione a petrolio o comune carta per avvolgervi merce varia.

Il primo documento scritto è del 1631 e riferisce nei minimi particolari l’accaduto al monaco. Nei pressi del presbiterio del santuario, sul lato destro della Cappella Valsecca, si può leggere l’epigrafe datata 1636, dove in sintesi è narrato l’Evento.

Possiamo aggiungere in questa sezione anche le diverse Ricognizioni sul Miracolo. Esse sono verifiche storiche e giuridiche per affermare nei secoli l’autenticità del Miracolo da parte dell’Autorità ecclesiastica.

La prima Ricognizione avvenne nel 1574 dall’Arcivescovo Gaspare Rodriguez, il quale constatò che il peso totale dei cinque grumi di sangue equivaleva al peso di ciascuno di essi. Questo fatto straordinario non fu verificato ulteriormente. Il peso attuale complessivo di grumi è di g. 16,505, quello di ciascuno di essi è di g. 8; di g. 2,45; di g. 2,85; di g. 2,05 e di g. 1,15. Bisogna aggiungere mg. 5 di polvere di sangue. Diversi documenti attestano a partire dal secolo XVI, la venerazione resa alle “reliquie” e l’uso che si aveva di portarle in processione in momenti di necessità gravi e urgenti.
Altre ricognizioni avvennero nel 1637, 1770, 1866, 1970.

La localizzazione

Siamo nel “bel Paese”, l’Italia, nella regione Abruzzo, in provincia di Chieti, nella città di Lanciano. A due passi dalla centralissima piazza Plebiscito, nel cuore del centro storico era aperta al pubblico una chiesetta dedicata a San Legonziano, affidata dal senato e dal popolo di Lanciano ad un modesto nucleo di monaci basiliani, approdati nel capoluogo frenano come profughi. Il Miracolo Eucaristico si verificò in tale tempio e tra le mani di uno di questi monaci orientali.

Recenti ricerche archeologiche confermano abbondantemente la presenza di bizantini in zona all’epoca di cui parliamo. Si sono, infatti, rinvenuti reperti ceramici decorati a bande, tipici dell’età bizantina. L’archeologo Andrea Staffa sostiene: “Esattamente al di sotto dell’attuale altare del Santuario (della chiesa di san Francesco) è stata evidenziata un’aula in muratura di conci quadrangolari di pietra, forse riconducibili all’impianto originario del luogo di culto”.

Le Reliquie del Miracolo furono custodite nella chiesetta originaria sino al 1258, passando successivamente dalle mani dei basiliani in quelle dei benedettini (c. 1074) e, dopo la parentesi arcipretale (1229-1252), nelle mani dei francescani.

La vicinanza del fiorente monastero di san Giovanni in Venere (alla periferia di Fossacesia), monastero oggi affidato ai Padri Passionisti, in coincidenza con il tramonto della presenza bizantina, favorì l’insediamento dei benedettini nella chiesa di San Legonziano, appunto tra gli anni 1047 e 1076.

Il monastero benedettino cominciò a vivere e a conoscere la sua inarrestabile parabola discendente a partire dagli anni 1225, in seguito a fattori interni e a comportamenti antimperiali, che ne decretarono l’espulsione da Lanciano nel 1229.

E così la chiesa del Miracolo fu affidata al clero locale, nella persona dell’arciprete fino alla venuta dei francescani il 3 aprile dell’anno 1252. Nel 1258 i frati francescani ricostruirono la chiesa e la dedicarono a San Francesco. Questi religiosi, a loro volta, dovettero lasciare il luogo nel 1809, quando Napoleone I soppresse gli ordini religiosi. Essi riebbero il loro antico convento solo nel giugno 1953.

Le reliquie, chiuse in un reliquiario d’avorio, furono custodite prima nella chiesa di San Legonziano, poi in quella di San Francesco. Al tempo delle incursioni dei turchi negli Abruzzi, un frate minore, chiamato Giovanni Antonio di Mastro Renzo, volle salvarle e, il 1 agosto 1566, partì portandole con sé. Ma dopo aver camminato tutta la notte, si trovò il mattino dopo, ancora alle porte di Lanciano.

Capì allora che lui e i suoi compagni dovevano rimanervi per conservare le reliquie. Queste, una volta passato il pericolo, furono poste su un altare degno di esse, sul lato destro dell’unica navata della chiesa conventuale.

Furono chiuse in un vaso di cristallo, deposto, questo, in un armadio di legno, chiuso con quattro chiavi. Nel 1920, furono poste (le reliquie) dietro il nuovo altare maggiore. Dal 1923, la “carne” è esposta nella raggiera di un ostensorio, mentre i grumi di sangue disseccato, sono contenuti in un specie di calice di cristallo ai piedi di questo ostensorio.

L’esame scientifico

In novembre 1970, per le istanze dell’arcivescovo di Lanciano, Monsignor Perantoni, e del ministro provinciale dei Conventuali di Abruzzo, e con l’autorizzazione di Roma, i Francescani di Lanciano decisero di sottoporre a un esame scientifico queste “reliquie” che risalivano a quasi 12 secoli. Certamente era una sfida: ma né la fede cattolica (che qui non era affatto in gioco), né una tradizione storica certa hanno nulla da temere dalla scienza, perché ciascuna rimane nel proprio campo.

Il compito fu affidato al dott. Edoardo Linoli, capo del servizio all’ospedale d’Arezzo e professore di anatomia, di istologia, di chimica e di microscopia clinica, coadiuvato del prof. Ruggero Bertelli dell’Università di Siena. Il dott. Linoli effettuò dei prelevamenti sulle sacre reliquie, il 18 novembre 1970, poi eseguì le analisi in laboratorio.

Il 4 marzo 1971, il professore presentò un resoconto dettagliato dei vari studi fatti. Ecco le conclusioni essenziali:
  1. La “carne miracolosa” è veramente carne costituita dal tessuto muscolare striato del miocardio.
  2. Il “sangue miracoloso” è vero sangue: l’analisi cromatografica lo dimostra con certezza assoluta e indiscutibile.
  3. Lo studio immunologico manifesta che la carne e il sangue sono certamente di natura umana e la prova immunoematologica permette di affermare con tutta oggettività e certezza che ambedue appartengono allo stesso gruppo sanguigno AB. Questa identità del gruppo sanguigno può indicare l’appartenenza della carne e del sangue alla medesima persona, con la possibilità tuttavia dell’appartenenza a due individui differenti del medesimo gruppo sanguigno.
  4. Le proteine contenute nel sangue sono normalmente ripartite, nella percentuale identica a quella dello schema siero-proteico del sangue fresco normale.
  5. Nessuna sezione istologica ha rivelato traccia di infiltrazioni di sali o di sostanze conservatrici utilizzate nell’antichità allo scopo di mummificazione. Certo, la conservazione di proteine e dei minerali osservati nella carne e nel sangue di Lanciano non è né impossibile né eccezionale: le analisi ripetute hanno permesso di trovare proteine nelle mummie egiziane di 4 e di 5.000 anni. Ma é opportuno sottolineare che il caso di un corpo mummificato secondo i procedimenti conosciuti, è molto differente da quello di un frammento di miocardio, lasciato allo stato naturale per secoli, esposto agli agenti fisici atmosferici e biochimici.
Il prof. Linoli scarta anche l’ipotesi di un falso compiuto nei secoli passati: “Infatti, dice, supponendo che si sia prelevato il cuore di un cadavere, io affermo che solamente una mano esperta in dissezione anatomica avrebbe potuto ottenere un “taglio” uniforme di un viscere incavato (come si può ancora intravedere sulla “carne”) e tangenziale alla superficie di questo viscere, come fa pensare il corso prevalentemente longitudinale dei fasci delle fibre muscolari, visibile, in parecchi punti nelle preparazioni istologiche. Inoltre, se il sangue fosse stato prelevato da un cadavere, si sarebbe rapidamente alterato, per deliquescenza o putrefazione.

Il Miracolo Eucaristico di Bolsena

L’EUCARESTIA: PRESENZA VIVA DI CRISTO, L’AMORE DI DIO SULLA TERRA!


    Nel 1263 a Bolsena, in provincia di Viterbo, si verifica un grande prodigio, in seguito al quale viene istituita per tutta la Chiesa la solennità del
 Corpus Domini.

Il fatto accade tra le mani di un sacerdote boemo di nome Pietro, da tempo dubbioso sulla reale presenza di Cristo nell’Eucarestia: ogni volta che celebra la Messa viene assalito da forti perplessità. Per questa ragione sceglie di andare in pellegrinaggio a Roma per pregare sulle tombe degli Apostoli, percorrendo la via Francigena. Giunto a Bolsena, si reca nella chiesa dove si trova la tomba di Santa Cristina martire, della quale è molto devoto, per venerarla e poi celebrare la Santa Messa.

Proprio al momento della Consacrazione, mentre tiene l’Ostia sopra il calice, la particola si arrossa di sangue, che stilla copiosamente, bagnando il corporale. Il sacerdote, spaventato e confuso, non riesce a continuare il rito: avvolge velocemente le Sacre Specie nel corporale e torna in sagrestia. Durante il percorso alcune gocce di sangue cadono anche sui marmi del pavimento e dei gradini dell’altare.

Dopo i primi momenti di sbigottimento, don Pietro si fa coraggio e, accompagnato dai sacerdoti della chiesa di Santa Cristina e dai testimoni del miracolo, si reca nella vicina città di Orvieto, dove in quei giorni soggiorna papa Urbano IV. Il Santo Padre invia subito a Bolsena il vescovo di Orvieto Giacomo accompagnato - così narra la tradizione - dai teologi Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio. Essi verificano il fatto e portano al Papa le reliquie del miracolo. Urbano IV organizza una solenne processione e, alle porte della città, riceve tra le sue mani l’Ostia e i lini intrisi di sangue: prostrato li adora e li porta nella antica cattedrale di Santa Maria. Le sacre reliquie vengono dapprima mostrate al popolo e poi riposte nel sacrario.

Nel 1264, durante la sua permanenza a Orvieto, Urbano IV istituisce la solennità del Corpus Domini e affida a Tommaso d’Aquino il compito di redigere i testi per la Liturgia delle ore e per la Messa della nuova festività, stabilendo che venga celebrata il giovedì dopo l’ottava di Pentecoste. L’Aquinate, in seguito, compone ben cinque inni eucaristici. Il più famoso è forse l’inno latino Sacris solemniis, la cui penultima strofa - che comincia con le parole Panis angelicus ("Pane degli angeli") - è stata spesso musicata separatamente dal resto dell’inno.

Le reliquie che, ancora oggi, testimoniano l’evento sono: l’Ostia, il corporale e i purificatoi custoditi nella Cappella del Corporale nella Cattedrale di Orvieto; a Bolsena, invece, si trovano sia l’altare su cui accadde il prodigio, sia le lastre di marmo del pavimento macchiate di sangue.

 

Giovanni Paolo II in visita pastorale a Orvieto

Secondo un’antica tradizione, il magnifico Duomo di Orvieto, dedicato a Santa Maria Assunta, venne eretto per celebrare il miracolo di Bolsena, poiché la cattedrale allora esistente sembrava indegna a custodire una così preziosa reliquia, segno della presenza divina. Non abbiamo prove certe di ciò e Papa Giovanni Paolo II, nell'omelia pronunciata nella Cattedrale di Santa Maria Assunta il 17 giugno 1990, giorno del Corpus Dominiha cercato di fare chiarezza su questa “leggenda”: “Anche se la sua costruzione [del Duomo] non è collegata direttamente alla solennità del  Corpus Domini, istituita dal papa Urbano IV con la bolla "Transiturus", nel 1264, né al miracolo avvenuto a Bolsena l'anno precedente, è però indubbio che il mistero eucaristico è qui potentemente evocato dal corporale di Bolsena, per il quale venne appositamente fabbricata la cappella, che ora lo custodisce gelosamente. La città di Orvieto è da allora conosciuta nel mondo intero per tale segno miracoloso, che a tutti ricorda l’amore misericordioso di Dio, fattosi cibo e bevanda di salvezza per l’umanità pellegrina sulla terra”

Inoltre, il Santo Padre nella stessa omelia affermò:

“In tutta la terra la Chiesa vive d’Eucaristia. In questo sacramento trovano la loro sintesi salvifica tutte le parole della vita eterna. Diventano cibo per le anime e, proprio grazie a questo alimento, l’uomo, peregrinante per i molteplici deserti del tempo, si avvia alla Gerusalemme eterna.”

Grazie Signore per questi Segni straordinari perché, anche se ci hai detto “…beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”, sai che siamo come l’apostolo S. Tommaso e che il “vedere” ci serve per capire che davvero il Corpo e il Sangue di Cristo sono presenti nell’Eucarestia, ordinariamente in maniera nascosta, ma vera.

https://www.fcim.it/sussidi-e-riflessioni/il-miracolo-eucaristico-di-bolsena-1298

"Salvando le folle dalla fame, infatti, Gesù annuncia che salverà tutti dalla morte"

 SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO

SANTA MESSA, PROCESSIONE E BENEDIZIONE EUCARISTICA

OMELIA DEL SANTO PADRE LEONE XIV

Piazza San Giovanni in Laterano
Domenica, 22 giugno 2025

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Cari fratelli e sorelle, è bello stare con Gesù. Il Vangelo appena proclamato lo attesta, raccontando che le folle rimanevano ore e ore con Lui, che parlava del Regno di Dio e guariva i malati (cfr Lc 9,11). La compassione di Gesù per i sofferenti manifesta l’amorevole vicinanza di Dio, che viene nel mondo per salvarci. Quando Dio regna, l’uomo è liberato da ogni male. Tuttavia, anche per quanti ricevono da Gesù la buona novella, viene l’ora della prova. In quel luogo deserto, dove le folle hanno ascoltato il Maestro, scende la sera e non c’è niente da mangiare (cfr v. 12). La fame del popolo e il tramonto del sole sono segni di un limite che incombe sul mondo, su ogni creatura: il giorno finisce, così come la vita degli uomini. È in quest’ora, nel tempo dell’indigenza e delle ombre, che Gesù resta in mezzo a noi.

Proprio quando il sole declina e la fame cresce, mentre gli apostoli stessi chiedono di congedare la gente, Cristo ci sorprende con la sua misericordia. Egli ha compassione del popolo affamato e invita i suoi discepoli a prendersene cura: la fame non è un bisogno che non c’entra con l’annuncio del Regno e la testimonianza della salvezza. Al contrario, questa fame riguarda la nostra relazione con Dio. Cinque pani e due pesci, tuttavia, non sembrano proprio sufficienti a sfamare il popolo: all’apparenza ragionevoli, i calcoli dei discepoli palesano invece la loro poca fede. Perché, in realtà, con Gesù c’è tutto quello che serve per dare forza e senso alla nostra vita.

All’appello della fame, infatti, Egli risponde con il segno della condivisione: alza gli occhi, recita la benedizione, spezza il pane e  da mangiare a tutti i presenti (cfr v. 16). I gesti del Signore non inaugurano un complesso rituale magico, ma testimoniano con semplicità la riconoscenza verso il Padre, la preghiera filiale di Cristo e la comunione fraterna che lo Spirito Santo sostiene. Per moltiplicare pani e pesci, Gesù divide quelli che ci sono: proprio così bastano per tutti, anzi, sovrabbondano. Dopo aver mangiato – e mangiato a sazietà – ne portarono via dodici ceste (cfr v. 17).

Questa è la logica che salva il popolo affamato: Gesù opera secondo lo stile di Dio, insegnando a fare altrettanto. Oggi, al posto delle folle ricordate nel Vangelo stanno interi popoli, umiliati dall’ingordigia altrui più ancora che dalla propria fame. Davanti alla miseria di molti, l’accumulo di pochi è segno di una superbia indifferente, che produce dolore e ingiustizia. Anziché condividere, l’opulenza spreca i frutti della terra e del lavoro dell’uomo. Specialmente in questo anno giubilare, l’esempio del Signore resta per noi urgente criterio di azione e di servizio: condividere il pane, per moltiplicare la speranza, proclama l’avvento del Regno di Dio.

Salvando le folle dalla fame, infatti, Gesù annuncia che salverà tutti dalla morte. Questo è il mistero della fede, che celebriamo nel sacramento dell’Eucaristia. Come la fame è segno della nostra radicale indigenza di vita, così spezzare il pane è segno del dono divino di salvezza.

Carissimi, Cristo è la risposta di Dio alla fame dell’uomo, perché il suo corpo è il pane della vita eterna: prendete e mangiatene tutti! L’invito di Gesù abbraccia la nostra esperienza quotidiana: per vivere, abbiamo bisogno di nutrirci della vita, togliendola a piante e animali. Eppure, mangiare qualcosa di morto ci ricorda che anche noi, per quanto mangiamo, moriremo. Quando invece ci nutriamo di Gesù, pane vivo e vero, viviamo per Lui. Offrendo tutto sé stesso, il Crocifisso Risorto si consegna a noi, che scopriamo così d’essere fatti per nutrirci di Dio. La nostra natura affamata porta il segno di un’indigenza che viene saziata dalla grazia dell’Eucaristia. Come scrive Sant’Agostino, davvero Cristo è «panis qui reficit, et non deficitpanis qui sumi potest, consumi non potest» (Sermo 130, 2): un pane che nutre e non viene meno; un pane che si può mangiare ma non si può esaurire. L’Eucaristia, infatti, è la presenza vera, reale e sostanziale del Salvatore (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1413), che trasforma il pane in sé, per trasformare noi in Lui. Vivo e vivificante, il Corpus Domini rende noi, cioè la Chiesa stessa, corpo del Signore.

Perciò, secondo le parole dell’apostolo Paolo (cfr 1Cor 10,17), il Concilio Vaticano II insegna che «col sacramento del pane eucaristico viene rappresentata ed effettuata l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo. Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo: da Lui veniamo, per mezzo suo viviamo, a Lui siamo diretti» (Cost. dogm. Lumen gentium, 3). La processione, che tra poco inizieremo, è segno di tale cammino. Insieme, pastori e gregge, ci nutriamo del Santissimo Sacramento, lo adoriamo e lo portiamo per le strade. Così facendo, lo porgiamo allo sguardo, alla coscienza, al cuore della gente. Al cuore di chi crede, perché creda più fermamente; al cuore di chi non crede, perché si interroghi sulla fame che abbiamo nell’animo e sul pane che la può saziare.

Ristorati dal cibo che Dio ci dona, portiamo Gesù al cuore di tutti, perché Gesù tutti coinvolge nell’opera della salvezza, invitando ciascuno a partecipare alla sua mensa. Beati gli invitati, che diventano testimoni di questo amore!



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21 giugno 2025

Corpus Domini - anno C - Commento al Vangelo a cura di Don Fabio Rosini

Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.

Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta».

Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini.

Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti.

Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla.

Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.



20 giugno 2025

Piccolo Galateo Eucaristico




Entrando in Chiesa.

– Osserva rigorosamente il silenzio sia per il rispetto dovuto alla presenza di Gesù, sia per non arrecare disturbo ad eventuali persone presenti.

– Segnati col segno della croce, eventualmente usando l’acqua benedetta (che ti ricorda il battesimo).

– Cerca subito con gli occhi il tabernacolo in cui abita il Signore Gesù. Puoi individuarlo facilmente poiché accanto ad esso o in prossimità di esso c’è sempre la “lampada” accesa (un cero, normalmente in un involucro di colore rosso). Quella lampada è calore: ti invita ad avvicinarti “con calore”, cioè con amore al tuo Signore.

– Davanti al tabernacolo genuflettiti, ossia piega il ginocchio destro fino a terra, con calma e dignità. Sai quale è il significato di questo bellissimo gesto? Ecco: è farsi piccoli davanti a Lui, che è il Grande, il Sommo, l’Infinito. Piegando il ginocchio dirai: “Sia lodato e ringraziato ogni momento il santissimo e divinissimo sacramento”. Fa come tanti malati che si prostravano a Gesù per essere guariti e, giunti davanti a lui, si buttavano a terra.

– Non sederti subito: resta almeno qualche momento in ginocchio, fissando il tabernacolo e ripetendoti che là, in quell’angusto spazio, c’è Lui, Lui che ti guarda, che ti ascolta e che è contento di vederti lì. Poi comincia pure a parlargli. Così come ti viene, con spontaneità e immediatezza, in piena confidenza.

Il contegno in Chiesa.

La Chiesa è luogo sacro non solo perché è consacrata dal Vescovo con un apposita cerimonia, ma soprattutto perché in essa abita Gesù, il Figlio di Dio, il Santo di Dio, il tuo amore. La Chiesa quindi merita grande rispetto. Non è luogo come gli altri, non può essere declassata. Mantieni quindi il religioso silenzio. Passando davanti al tabernacolo in cui vi è conservata la SS. Eucaristia genufletti sempre: un piccolo disturbo? Ti sembra troppo per Gesù?

Durante la Messa.

Segui esattamente le prescrizioni liturgiche (in piedi, seduti, in ginocchio…..). Al momento della consacrazione resta in ginocchio, senza paure e “vergogne”. Evita di accostarti al Sacramento della Riconciliazione per eseguire la celebrazione eucaristica. Puoi confessarti prima della Messa o in altri momenti opportuni. Al momento della Comunione accostati all’altare in modo ordinato, mantenendo la fila.

Non lasciarti distrarre: per questo abbassa gli occhi e pensa solo a Colui che vai a ricevere. Magari ripeti nella tua mente: “ha sete di te Signore l’anima mia” o qualche cosa di simile.

Prima di ricevere la S. Comunione fa un inchino al SS. Sacramento.

Se desideri ricevere la S. Comunione sulla mano, osserva quanto prescritto e cioè poni la mano sinistra sulla destra, quasi ad implorare un così grande Dono: il Corpo del Signore!

Alle parole del Ministro: “il Corpo di Cristo” , rispondi a voce chiara e con convinzione: “Amen”, che significa “E’ così” o ancora “Ci credo”.

Cerca di usare in modo fruttuoso il tempo di silenzio che segue la distribuzione della Santa Comunione: vivi il consiglio di S. Teresa che esortava a vivere con la maggiore intensità d’amore il ringraziamento dopo la Comunione: “appena comunicati chiudete gli occhi del corpo e aprite quelli dell’anima per fissarli in fondo al vostro cuore dove il Signore è disceso. Vi dico, vi torno a dire e ve lo ripeterei all’infinito, che se vi abituate a questa pratica ogni volta che vi accostate alla Comunione, il Signore non si nasconderà mai” (Cammino di perfezione cap. 34, a.12).

“Cercate la vostra Chiesa fuori del tempio – perché la Chiesa è fatta dei piccoli, dei poveri, dei malati, dei disabili, dei disagiati, è fatta di tutti coloro che non hanno altra speranza se non quella di essere abbracciati da Gesù Cristo”.


Monsignor Salvatore Boccaccio Vescovo di Frosinone

Festa: Testimoni

Roma, 18 giugno 1938 – Frosinone, 18 ottobre 2008

Entrato in seminario nel 1950, Salvatore Boccaccio ha frequentato il Pontificio Seminario Romano e la Pontificia Università Lateranense dove ha conseguito il baccellierato in Filosofia e la laurea in Teologia. È stato ordinato sacerdote il 9 marzo 1963 a Roma ed ha svolto il ruolo di viceparroco in alcune parrocchie romane: dal 1963 al 1968 a San Giovanni Battista De Rossi, dal 1968 al 1973 ai Santi Protomartiri romani e dal 1973 al 1978 a Sant’Ilario nella borgata Palmarola. Sempre dal 1968 al 1973 è stato docente di Religione nel Liceo «Castelnuovo», e nel 1983 è divenuto parroco a Santa Brigida fino al 1986, anno dopo il quale è passato come parroco a San Luca Evangelista al Prenestino. Il 29 ottobre 1987 venne eletto vescovo titolare di Ulpiana e il 7 dicembre ricevette l'ordinazione nella Basilica Lateranense.Il 17 marzo 1992 è stato nominato vescovo di Sabina-Poggio Mirteto.Il 9 luglio 1999 è stato nominato vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino. Si è impegnato per ottenere una visita in diocesi da parte di papa Giovanni Paolo II, realizzatasi il 16 settembre 2001.Si è spento la mattina del 18 ottobre 2008, nel suo appartamento della Curia di Frosinone, dopo una lunga malattia.




“Il vescovo è quello che celebra – ciò che celebra, lui è il vescovo”: parla così il vescovo Boccaccio, giunto a un tornante forse decisivo della vita. Non so che teologia sia ma sento che quello che dice è vero.
“Il vescovo poi sale all’altare e lo bacia – bacia così la sposa”: anche questa mi pare dottrina certa.
“Si unisce profondamente a quelle parole terribili ‘questo è il mio corpo’ sapendo che egli è una cosa sola con lui per sempre”: ora mi è chiaro che sta parlando dell’offerta di sé.



Cercate la Chiesa fuori da qui
Ne cava questa consegna che trasmette ai figli: “Cercate la vostra Chiesa fuori del tempio – perché la Chiesa è fatta dei piccoli, dei poveri, dei malati, dei disabili, dei disagiati, è fatta di tutti coloro che non hanno altra speranza se non quella di essere abbracciati da Gesù Cristo”.
Dove ha preso il povero vescovo di Frosinone, esuberante e invalido – dove ha preso questa ecclesiologia evangelica che non era nei manuali su cui ha studiato e neanche nei documenti del Vaticano II sui quali aggiornò poi la sua formazione? Salvatore Boccaccio ha parlato quella lingua cristiana appassionata e tutta sua venerdì 4 gennaio nella chiesa del Sacro Cuore a Frosinone, a conclusione della festa che la diocesi gli aveva organizzato per i vent’anni di episcopato, tre giorni prima di un nuovo appuntamento con i ferri del chirurgo. Un appuntamento a rischio dal quale – mentre scrivo – non si è ancora ripreso.
Ero lì tra i chiamati a festeggiarlo: il cardinale Tonini, il procuratore della Repubblica di Frosinone Margherita Gerunda, un prete – Domenico Luciani – della diocesi di Sabina-Poggio Mirteto (dove Boccaccio fu vescovo prima di essere trasferito a Frosinone) e Ottavio Petroni già parroco di S. Saturnino a Roma, cioè del settore affidato a Boccaccio quand’era ausiliare del cardinale Poletti. E c’era una folla accorata. Era come se nella malattia la comunità scoprisse il vescovo e il vescovo scoprisse la comunità, reciprocamente nuovi l’uno e l’altra.
Quando tocca a me parlare ricordo in quattro “foto” la mia frequentazione dell’uomo. L’ausiliare di Roma che veniva nella mia parrocchia a celebrare le cresime, 19 anni addietro e uno dei miei figli era tra i cresimandi e alla fine della celebrazione eravamo tutti amici di quel vescovo rubicondo e fraterno. La lettura continuata dei Vangeli che conduceva nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura, sul modello delle lectio del cardinale Martini nel duomo di Milano. Un momento della visita di Giovanni Paolo II a Frosinone nel settembre del 2001, quando salutò il papa indicandogli la gru di un cantiere per la costruzione di una chiesa parrocchiale: “Ecco, Santità, il cantiere della nostra Chiesa”. Infine la malattia per la quale una volta lo intervistai (Regno attualità 2/2003, pp. 71s).
Ognuno raccontata qualcosa. Il grande cuore dell’uomo, la genuina scelta dei poveri, casa sempre aperta a clero e popolo, vicinanza a ogni interlocutore. C’era il coro di Ferentino (la diocesi è Frosinone-Veroli-Ferentino) che cantava. E lì in prima fila don Salvatore – come lo chiamano anche nel sito internet ufficiale – sulla sedia a rotelle alla quale era costretto da novembre, ma forte sempre nell’aspetto e nella voce. Ecco che si fa aiutare a mettersi in piedi, si gira verso il popolo, si appoggia alla sedia a rotelle e parla.
Grazie a voi tutti, tutti, tutti perché la vostra presenza dice che forse ce la facciamo a portare avanti il nostro progetto, anzi ne sono sicuro! Mi hanno domandato: ma qual è la tua esperienza di vescovo? Vi dico soltanto questo. Avevo 49 anni, ero un uomo felice, padrone e signore di tutta la parrocchia romana di Santa Brigida, 45 mila abitanti, dove avevamo noi tre sacerdoti una presenza fortissima, casa per casa. Ero il maresciallo dei carabinieri, il farmacista e il dottore, mezzo sindaco e rappresentante del governo.

Ma lo sa il papa chi sono io?
Mi chiama il cardinale Poletti e mi dice: il Santo Padre ti vuole ausiliare a Roma. E’ stata una botta profonda e dicevo: Dio mio, ma lo sa il papa chi sono io? Dice: scrivilo. E io ho scritto. E’ stato risposto: il Santo Padre la ringrazia per la disponibilità che ha dato e l’assicuro che le cose che lei dice sono forse alla radice dei motivi per cui le abbiamo chiesto di fare il vescovo. “Stia tranquillo e si prepari”.
Mi sono trovato con tutto questo carico addosso inaspettato, impensabile. Mi sono chiesto quale sarebbe stato l’impianto del mio essere vescovo. E poiché ero convinto che è la celebrazione eucaristica a fare il punto centrale dell’esperienza di Gesù, di questo suo incarnarsi e farsi una cosa sola con l’amore del Padre verso i fratelli – ebbene è in questa celebrazione eucaristica anticipata nella Cena del Cenacolo che io ho trovato il punto di partenza e sto cercando faticosamente di viverlo.


La comunione è il dono totale di sè
E così brevemente devo dire che il vescovo è quello che celebra, ciò che celebra, lui è il vescovo!
Il vescovo è uno che chiede perdono per sé e per i suoi fratelli. Poi prega ed è compito del vescovo pregare per i suoi figli.
Poi il vescovo annuncia il Vangelo, fa la catechesi, spiega e spezza il pane della Parola.
Il vescovo poi sale all’altare e lo bacia, bacia così la sposa bella del Signore. Perché l’altare è il talamo nuziale della Chiesa, la sua veste.
Poi il vescovo fa quello che ha fatto Gesù e nella celebrazione offre con Gesù se stesso. Si unisce profondamente a quelle parole terribili “questo è il mio corpo – questo è il mio sangue” sapendo che egli diventa una cosa sola con lui e per sempre.
Poi il vescovo fa la comunione, perché è l’uomo della comunione che non è una trasmissione di parole, ma è comunione sostanziata dalla presenza reale di Gesù Cristo nel misterioso modo di essere dell’Eucarestia.
Il vescovo sa – come ogni presbitero sa – che la comunione non può essere un rito, ma è il dono di sé, totale.
Poi il vescovo invita a uscire, invia alla missione. Andate, questa è la missione, non rimanete nel tempio, uscite, cercate la vostra Chiesa fuori del tempio – perché la Chiesa è fatta dei piccoli, dei poveri, dei malati, dei disabili, dei disagiati, è fatta da tutti coloro che non hanno altra speranza se non quella di essere abbracciati da Gesù Cristo.
Ecco questo è il vescovo e questo io lo sento come fatto vivo, profondo. E lo sento come peccato, perché mentre lo so come idealità, purtroppo non l’ho raggiunto. Ma questo è il cammino ascetico di ogni giorno – in cui chiedere perdono e ricominciare da capo.
Io sono felice di stare qui. Per un vescovo, per un presbitero non c’è parrocchia bella o parrocchia brutta, diocesi ricca o diocesi povera, c’è una cosa sola: popolo da amare, popolo da servire. Gesù – non io – vi chiede di non lasciare solo il vescovo nel suo impegno. Lavoriamo insieme. Amen, auguri.

Dodici anni di infarti e di interventi
In questo ringraziamento non dice una sola parola sui suoi malanni. Dodici anni di infarti e di interventi, a partire dal primo attacco di cuore nel 1995. Operazioni impegnative: una per mediastinite, un’altra alla spina dorsale: Una protesi a un ginocchio, diabete congenito, cuore compromesso. Una caduta e la rottura della protesi al ginocchio. La necessità di un nuovo intervento se vuole alzarsi dalla sedia a rotelle. E’ quello che affronta tre giorni dopo la festa dei vent’anni di episcopato. Al risveglio la pressione è così bassa che viene sedato e attaccato a una macchina per la respirazione. Dorme per una settimana.
I suoi mali li aveva confidati in una lettera ai sacerdoti che ha la data del 7 dicembre, giorno anniversario dell’ordinazione episcopale. Li riespone poi a cena, agli ospiti venuti da fuori, ai quali fa onore – scherzosamente – tirando fuori il servizio con lo stemma di vescovo impresso sui piatti, i bicchieri e le posate che gli era stato regalato per l’ordinazione e che non aveva mai usato. Scherza su tutto, recita il Belli, Trilussa e Pascarella. Contagia ognuno con il buonumore di sempre. Si interroga su Bregantini spostato da Locri a Campobasso pare per paura che l’uccidessero: “Paura di chi, paura di che?” E’ chiaro che ormai don Salvatore non ha più paure.
In questi anni – aveva scritto nella lettera – vi ho offerto le catechesi, le lectio, le omelie, invitandovi ogni volta ad abbandonarvi nelle braccia del Padre. “In manus tuas”: nelle tue mani incondizionatamente, come dice il motto episcopale che scelsi vent’anni addietro. La gioia sprizzava dai miei occhi e da tutto il dinamismo che mettevo in atto, per cui il grazie mi sembrava facilissimo e di grande efficacia. Oggi vi dico che in questi ultimi 17 mesi il Signore ha voluto farmi sperimentare quale fosse la massima ampiezza e profondità che comporta l’abbandonarsi nelle sue mani e quanto costa! Pur continuando a servire la diocesi perché non le mancasse nulla, ho dovuto subire una serie di operazioni chirurgiche dolorose, lancinanti, direi senza tregua! E tuttavia ho continuato a fidarmi del Signore, ripetendogli il mio gioioso “In manus tuas”.

Quel cellulare sempre attivo
In quella lettera – come poi farà nel saluto che ho riportato sopra – chiama i sacerdoti al “Coraggio di uscire dal tempio: siamo i pastori di tutto il 100%, non solo di quelli che vengono in chiesa. Per tutti dobbiamo pregare e a tutti dobbiamo annunciare, con la testimonianza della vita, l’amore di Dio”.
Non è capace di alzarsi in piedi, non gira il collo eppure afferma che non ha intenzione di dimettersi “per salute” e conferma che la sua casa è sempre aperta e il suo cellulare “è attivo 24 ore su 24”. Quel cellulare “sempre attivo” un giorno sarà citato tra le prove della sua virtù eroica. 


Autore: 
Luigi Accattoli

Santi e Beati

18 giugno 2025

«Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: “Vuoi guarire?”» (Gv 5,6)

 LEONE XIV

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 18 giugno 2025

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Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. II. La vita di Gesù. Le parabole. 10. La guarigione del paralitico. «Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: “Vuoi guarire?”» (Gv 5,6)

 


Cari fratelli e sorelle,

continuiamo a contemplare Gesù che guarisce. In modo particolare oggi vorrei invitarvi a pensare alle situazioni in cui ci sentiamo “bloccati” e chiusi in vicolo cieco. A volte ci sembra infatti che sia inutile continuare a sperare; diventiamo rassegnati e non abbiamo più voglia di lottare. Questa situazione viene descritta nei Vangeli con l’immagine della paralisi. Per questo motivo vorrei fermarmi oggi sulla guarigione di un paralitico, narrata nel quinto capitolo del Vangelo di San Giovanni (5,1-9).

Gesù va a Gerusalemme per una festa dei Giudei. Non si reca subito al Tempio; si ferma invece presso una porta, dove probabilmente venivano lavate le pecore che poi venivano offerte nei sacrifici. Vicino a questa porta, sostavano anche tanti malati, che, a differenza delle pecore, erano esclusi dal Tempio perché considerati impuri! E allora è Gesù stesso che li raggiunge nel loro dolore. Queste persone speravano in un prodigio che potesse cambiare la loro sorte; infatti, accanto alla porta si trovava una piscina, le cui acque erano considerate taumaturgiche, capaci cioè di guarire: in alcuni momenti l’acqua si agitava e, secondo la credenza del tempo, chi si immergeva per primo veniva guarito.

Si veniva a creare così una sorta di “guerra tra poveri”: possiamo immaginare la scena triste di questi malati che si trascinavano faticosamente per entrare nella piscina. Quella piscina si chiamava Betzatà, che significa “casa della misericordia”: potrebbe essere un’immagine della Chiesa, dove i malati e i poveri si radunano e dove il Signore viene per guarire e donare speranza.

Gesù si rivolge specificamente a un uomo che è paralizzato da ben trentotto anni. Ormai è rassegnato, perché non riesce mai a immergersi nella piscina, quando l’acqua si agita (cfr v. 7). In effetti, quello che ci paralizza, molte volte, è proprio la delusione. Ci sentiamo scoraggiati e rischiamo di cadere nell’accidia.

Gesù rivolge a questo paralitico una domanda che può sembrare superflua: «Vuoi guarire?» (v. 6). È invece una domanda necessaria, perché, quando si è bloccati da tanti anni, può venir meno anche la volontà di guarire. A volte preferiamo rimanere nella condizione di malati, costringendo gli altri a prendersi cura di noi. È talvolta anche un pretesto per non decidere cosa fare della nostra vita. Gesù rimanda invece quest’uomo al suo desiderio più vero e profondo.

Quest’uomo infatti risponde in modo più articolato alla domanda di Gesù, rivelando la sua visione della vita. Dice anzitutto che non ha nessuno che lo immerga nella piscina: la colpa quindi non è sua, ma degli altri che non si prendono cura di lui. Questo atteggiamento diventa il pretesto per evitare di assumersi le proprie responsabilità. Ma è proprio vero che non aveva nessuno che lo aiutasse? Ecco la risposta illuminante di Sant’Agostino: «Sì, per essere guarito aveva assolutamente bisogno di un uomo, ma di un uomo che fosse anche Dio. […] È venuto dunque l’uomo che era necessario; perché differire ancora la guarigione?». [1]

Il paralitico aggiunge poi che quando prova a immergersi nella piscina c’è sempre qualcuno che arriva prima di lui. Quest’uomo sta esprimendo una visione fatalistica della vita. Pensiamo che le cose ci capitano perché non siamo fortunati, perché il destino ci è avverso. Quest’uomo è scoraggiato. Si sente sconfitto nella lotta della vita.

Gesù invece lo aiuta a scoprire che la sua vita è anche nelle sue mani. Lo invita ad alzarsi, a risollevarsi dalla sua situazione cronica, e a prendere la sua barella (cfr v. 8). Quel lettuccio non va lasciato o buttato via: rappresenta il suo passato di malattia, è la sua storia. Fino a quel momento il passato lo ha bloccato; lo ha costretto a giacere come un morto. Ora è lui che può prendere quella barella e portarla dove desidera: può decidere cosa fare della sua storia! Si tratta di camminare, prendendosi la responsabilità di scegliere quale strada percorrere. E questo grazie a Gesù!

Carissimi fratelli e sorelle, chiediamo al Signore il dono di capire dove la nostra vita si è bloccata. Proviamo a dare voce al nostro desiderio di guarire. E preghiamo per tutti coloro che si sentono paralizzati, che non vedono vie d’uscita. Chiediamo di tornare ad abitare nel Cuore di Cristo che è la vera casa della misericordia!



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8 maggio 2025

Papa Leone XIV

 

La pace sia con tutti voi!

«Fratelli e sorelle carissimi, questo è il primo saluto del Cristo risorto, il Buon Pastore, che ha dato la vita per il gregge di Dio. Anch'io vorrei che questo saluto di pace entrasse nel vostro cuore, raggiungesse le vostre famiglie. A tutte le persone, ovunque siano, a tutti i popoli, a tutta la terra, la pace sia con voi. Questa è la pace del Cristo risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio. Dio che ci ama a tutti, incondizionatamente.

Ancora conserviamo nei nostri orecchi quella voce debole, ma sempre coraggiosa, di Papa Francesco, che benediva Roma. Il Papa che benediva Roma dava la sua benedizione al mondo, al mondo intero, quella mattina del giorno di Pasqua. Consentitemi di dar seguito a quella stessa benedizione. Dio ci vuole bene, Dio vi ama tutti e il male non prevarrà. Siamo tutti nelle mani di Dio.

Pertanto, senza paura, uniti, mano nella mano con Dio e tra di noi, andiamo avanti. Siamo discepoli di Cristo. Cristo ci precede. Il mondo ha bisogno della sua luce. L'umanità necessita di lui come il ponte per essere raggiunta da Dio e dal suo amore. Aiutateci anche voi, poi gli uni gli altri, a costruire i ponti, con il dialogo, con l'incontro, unendoci tutti per essere un solo popolo sempre in pace. Grazie a Papa Francesco.

Voglio ringraziare anche tutti i confratelli cardinali che hanno scelto me per essere successore di Pietro e camminare insieme a voi come Chiesa unita, cercando sempre la pace, la giustizia, cercando sempre di lavorare come uomini e donne fedeli a Gesù Cristo, senza paura, per proclamare il Vangelo, per essere missionari.

Sono un figlio di Sant'Agostino, agostiniano, che ha detto "con voi sono cristiano e per voi Vescovo”. In questo senso possiamo tutti camminare insieme verso quella patria la quale Dio ci ha preparato.

Alla Chiesa di Roma, un saluto speciale. Dobbiamo cercare insieme come essere una Chiesa missionaria, una Chiesa che costruisce i ponti, il dialogo, sempre aperta a ricevere, come questa piazza con le braccia aperte, tutti, tutti coloro che hanno bisogno della nostra carità, la nostra presenza, il dialogo, l'amore.

E se mi permettete anche una parola, un saluto a tutti, ma in modo particolare ai miei amici della diocesi di Chiclayo, in Perù, dove un popolo fedele ha accompagnato il suo vescovo, ha condiviso la sua fede, e ha dato tanto, tanto per continuare a essere una Chiesa fedele a Gesù Cristo.

A tutti voi, fratelli e sorelle di Roma, d'Italia, di tutto il mondo, vogliamo essere una Chiesa sinodale, una Chiesa che cammina, una Chiesa che cerca sempre la pace, cerca sempre la carità, cerca sempre di essere vicino specialmente a coloro che soffrono.

Oggi è il giorno della supplica alla Madonna di Pompei. Nostra madre Maria vuole sempre camminare con noi, stare vicino, aiutarci con la sua intercessione e il suo amore. Allora vorrei pregare insieme a voi. Preghiamo insieme per questa nuova missione, però per tutta la Chiesa, per la pace nel mondo, e chiediamo questa grazia speciale di Maria, nostra madre.

Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori. Adesso è l'ora della nostra morte. Amen».



4 maggio 2025

La celebrazione dell’Eucaristia

Dalla «Prima Apologia a favore dei cristiani» di san Giustino, martire (150 d.C.)



    A nessun altro è lecito partecipare all’Eucaristia, se non a colui che crede essere vere le cose che insegniamo, e che sia stato purificato da quel lavacro istituito per la remissione dei peccati e la rigenerazione, e poi viva così come Cristo ha insegnato.

    Noi infatti crediamo che Gesù Cristo, nostro Salvatore, si è fatto uomo per l’intervento del Verbo di Dio. Si è fatto uomo di carne e sangue per la nostra salvezza. Così crediamo pure che quel cibo sul quale sono state rese grazie con le stesse parole pronunciate da lui, quel cibo che, trasformato, alimenta i nostri corpi e il nostro sangue, è la carne e il sangue di Gesù fatto uomo.

    Gli apostoli nelle memorie da loro lasciate e chiamate vangeli, ci hanno tramandato che Gesù ha comandato così: Preso il pane e rese grazie, egli disse: «Fate questo in memoria di me. Questo è il mio corpo». E allo stesso modo, preso il calice e rese grazie, disse: «Questo è il mio sangue» e lo diede solamente a loro.

    Da allora noi facciamo sempre memoria di questo fatto nelle nostre assemblee e chi di noi ha qualcosa, soccorre tutti quelli che sono nel bisogno, e stiamo sempre insieme. Per tutto ciò di cui ci nutriamo benediciamo il creatore dell’universo per mezzo del suo Figlio Gesù e dello Spirito Santo.

    E nel giorno, detto del Sole (Domenica), si fa l’adunanza. Tutti coloro che abitano in città o in campagna convengono nello stesso luogo, e si leggono le memorie degli apostoli o gli scritti dei profeti per quanto il tempo lo permette.

    Poi, quando il lettore ha finito, colui che presiede rivolge parole di ammonimento e di esortazione che incitano a imitare gesta così belle.

    Quindi tutti insieme ci alziamo ed eleviamo preghiere e, finito di pregare, viene recato pane, vino e acqua. Allora colui che presiede formula la preghiera di lode e di ringraziamento con tutto il fervore e il popolo acclama: Amen! Infine a ciascuno dei presenti si distribuiscono e si partecipano gli elementi sui quali furono rese grazie, mentre i medesimi sono mandati agli assenti per mano dei diaconi.

    Alla fine coloro che hanno in abbondanza e lo vogliono, danno a loro piacimento quanto credono. Ciò che viene raccolto, è deposto presso colui che presiede al ed egli soccorre gli orfani e le vedove e coloro che per malattia o per altra ragione sono nel bisogno, quindi anche coloro che sono in carcere e i pellegrini che arrivano da fuori. In una parola, si prende cura di tutti i bisognosi.

    Ci raduniamo tutti insieme nel giorno del Sole (Domenica), sia perché questo è il primo giorno in cui Dio, volgendo in fuga le tenebre e il caos, creò il mondo, sia perché Gesù Cristo nostro Salvatore risuscitò dai morti nel medesimo giorno. Lo crocifissero infatti nel giorno precedente quello di Saturno (Venerdi) e l’indomani di quel medesimo giorno, cioè nel giorno del Sole, essendo apparso ai suoi apostoli e ai discepoli, insegnò quelle cose che vi abbiamo trasmesso perché le prendiate in seria considerazione.

28 aprile 2025

Gesù il vero pastore della storia che ha bisogno della sua salvezza

Terzo giorno dei Novendiali, la Messa della Chiesa di Roma. L’omelia integrale del cardinale Reina


Di seguito l’omelia pronunciata dal cardinale vicario Baldassare Reina nella Messa della Chiesa di Roma, presieduta oggi pomeriggio, terzo giorno dei Novendiali, nella basilica di San Pietro

La mia esile voce è qui oggi a esprimere la preghiera e il dolore di una porzione di Chiesa, quella di Roma, gravida della responsabilità che la storia le ha assegnato.

In questi giorni Roma è un popolo che piange il suo vescovo, un popolo insieme ad altri popoli che si sono messi in fila, trovando uno spazio tra i luoghi della città per piangere e pregare, come pecore senza pastore.

Pecore senza pastore: una metafora che ci permette di ricomporre i sentimenti di questi giorni, e di attraversare la profondità dell’immagine che abbiamo ricevuto dal Vangelo di Giovanni, il chicco di grano che deve morire per dare frutto. Una parabola che racconta l’amore del pastore per il suo gregge.

In questo tempo, mentre il mondo brucia, e pochi hanno il coraggio di proclamare il Vangelo traducendolo in visione di futuro possibile e concreto, l’umanità appare come pecore senza pastore. Questa immagine esce dalla bocca di Gesù poggiando lo sguardo sulle folle che lo seguivano.

Attorno a Lui ci sono gli apostoli che gli riferiscono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Le parole, i gesti, le azioni apprese dal Maestro, l’annuncio del regno del Dio veniente, la necessità del cambiamento di vita, uniti a segni capaci di dare carne alle parole: una carezza, una mano tesa, discorsi disarmati, senza giudizi, liberatori, non timorosi del contatto con l’impurità. Nel compiere questo servizio, necessario a risvegliare la fede, a suscitare speranza che il male presente nel mondo non avrebbe avuto l’ultima parola, che la vita è più forte della morte, non avevano avuto neanche il tempo di mangiare.

Gesù ne avverte il peso, e questo ci conforta ora.

Gesù il vero pastore della storia che ha bisogno della sua salvezza, conosce il peso che grava su ognuno di noi nel continuare la sua missione, soprattutto mentre ci troveremo a cercare il primo dei suoi pastori sulla terra.

Come al tempo dei primi discepoli, ci sono risultati e anche fallimenti, stanchezza e timore. La portata è immensa, e si insinuano le tentazioni che velano l’unica cosa che conta: desiderare, cercare, operare in attesa di «un nuovo cielo e di una nuova terra».

E non può essere, questo, il tempo di equilibrismi, tattiche, prudenze, il tempo che asseconda l’istinto di tornare indietro, o peggio, di rivalse e di alleanze di potere, ma serve una disposizione radicale a entrare nel sogno di Dio affidato alle nostre povere mani.

Mi colpisce in questo momento quanto l’Apocalisse ci dice: «Io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo».

Un nuovo cielo, una nuova terra, una nuova Gerusalemme.

Di fronte all’annuncio di questa novità non potremmo accondiscendere a quella pigrizia mentale e spirituale che ci lega alle forme dell’esperienza di Dio e di pratiche ecclesiali conosciute nel passato e che desideriamo debbano ripetersi all’infinito, soggiogati dalla paura delle perdite connesse ai cambiamenti necessari.

Penso ai molteplici processi di riforma della vita della Chiesa avviati da papa Francesco, e che sconfinano oltre le appartenenze religiose. La gente gli ha riconosciuto di essere stato un pastore universale e la barca di Pietro ha bisogno di questa navigazione larga che sconfina e sorprende.

Questa gente porta nel cuore inquietudine e mi pare di scorgervi una domanda: che ne sarà dei processi avviati?

Nostro dovere dovrebbe essere discernere e ordinare quello che è incominciato, alla luce di quanto la nostra missione ci richiede, nella direzione di un nuovo cielo e di una nuova terra, adornando la Sposa per lo Sposo. Mentre potremmo cercare di vestire la Sposa secondo convenienze mondane, guidati da pretese ideologiche che lacerano l’unità delle vesti di Cristo.

Cercare un pastore, oggi, significa soprattutto cercare una guida che sappia gestire la paura delle perdite di fronte alle esigenze del Vangelo.

Cercare un pastore che abbia lo sguardo di Gesù, epifania dell’umanità di Dio in un mondo che ha tratti disumani.

Cercare un pastore che confermi che dobbiamo camminare insieme, componendo ministeri e carismi: siamo popolo di Dio costituito per annunciare il Vangelo.

Gesù guardando la gente che lo segue, sente vibrare dentro di sé compassione: vede donne, uomini, bambini, vecchi e giovani, poveri e malati, e nessuno che si prenda cura di loro, che possa sfamare la fame dai morsi della vita che si è fatta dura, e la fame della Parola. Lui, di fronte a quelle persone, sente di essere il loro Pane che non delude, la loro acqua che disseta senza fine, il balsamo che cura le loro ferite.

Prova la stessa compassione di Mosè che alla fine dei suoi giorni, dall’alto del monte di Abarim, di fronte alla Terra che non potrà solcare, guardando la moltitudine che aveva guidato, prega il Signore che quel popolo non si riduca a essere un gregge senza pastore, un popolo che non può trattenere con sé, un popolo che deve andare avanti.

Quella preghiera ora è la nostra preghiera, quella di tutta la Chiesa e di tutte le donne e gli uomini che domandano di essere guidati e sostenuti nella fatica della vita, tra dubbi e contraddizioni, orfani di una parola che orienti tra canti di sirene che lusingano gli istinti di autoredenzione, che spezzi le solitudini, raccolga gli scarti, che non si arrenda alla prepotenza, e abbia il coraggio di non piegare il Vangelo ai tragici compromessi della paura, alla complicità con logiche mondane, ad alleanze cieche e sorde ai segni dello Spirito Santo.

La compassione di Gesù è quella dei profeti che manifestano la sofferenza di Dio nel vedere il popolo disperso e abusato dai cattivi pastori, dai mercenari che si servono del gregge, e che fuggono quando vedono arrivare il lupo. Ai cattivi pastori non gliene importa nulla delle pecore, le abbandonano nel pericolo, e per questo saranno rapite e disperse.

Mentre il pastore buono offre la vita per le sue pecore.

Di questa disposizione radicale del pastore parla la pagina del Vangelo di Giovanni proclamato in questa liturgia eucaristica, e che ci presenta la testimonianza di come Gesù riesce a vedere oltre la morte, quando sarebbe venuta l’ora che avrebbe glorificato la sua missione. L’ora della morte in croce che manifesta l’amore incondizionato per tutti.

«Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo». Il chicco di grano che ha cercato la terra con l’ incarnazione del Verbo, caduto per rialzare chi cade, venuto a cercare chi si è perduto.

La sua morte è una semina che ci lascia sospesi a quell’ora, in cui il seme non si vede più, avvolto dalla terra che lo nasconde facendoci temere che sia stato sprecato. Una sospensione che ci potrebbe angosciare, ma che può diventare soglia della speranza, fessura nel dubbio, luce nella notte, giardino di Pasqua.

La fecondità promessa appartiene alla disposizione alla morte; divenire frumento masticato, ostaggio dell’infedeltà e dell’ingratitudine a cui Gesù, il buon pastore che offre la vita per le sue pecore, risponde con il perdono richiesto al Padre, mentre muore abbandonato dai suoi amici.

Il pastore buono semina con la propria morte, perdonando i nemici, preferendo la loro salvezza, la salvezza di tutti, alla propria.

Se vogliamo essere fedeli al Signore, al chicco di grano caduto in terra, dobbiamo farlo seminando con la nostra vita.

E come non possiamo ricordare il Salmo: «chi semina nel pianto mieterà nella gioia»!

Ci sono tempi come il nostro in cui, come l’agricoltore a cui fa riferimento il salmista, seminare diventa un gesto estremo, mosso dalla radicalità di un atto di fede.

È tempo di carestia, il seme gettato sulla terra è quello sottratto all’ultima scorta senza la quale si muore. Il contadino piange perché sa che questo ultimo atto gli sta chiedendo di mettere a rischio la vita.

Ma Dio non abbandona il suo popolo, non lascia soli i suoi pastori, non permetterà come per il Figlio che Egli sia abbandonato nel sepolcro, nella tomba della terra.

La nostra fede custodisce la promessa di una mietitura gioiosa ma che dovrà passare dalla morte del seme che è la nostra vita.

Quel gesto estremo, totale, estenuante, del seminatore mi ha fatto ripensare al giorno di Pasqua di papa Francesco, a quel riversarsi senza risparmio nella benedizione e nell’abbraccio al suo popolo, il giorno prima di morire. Ultimo atto del suo seminare senza risparmio l’annuncio delle misericordie di Dio.

Grazie papa Francesco.

Maria, la Vergine santa che noi, a Roma, veneriamo Salus populi romani, che affianca e veglia ora le sue spoglie mortali, accolga la sua anima e ci protegga nel seguitare la sua missione. Amen


Baldassare Card. Reina
(Vicario Generale per la Diocesi di Roma)

28 aprile 2025

24 aprile 2025

Rolando Rivi, il seminarista di 14 anni seviziato e ucciso dai partigiani

Il seminarista cattolico Rolando Rivi, il 10 aprile 1945, all’età di 14 anni, fu rapito da un gruppo di partigiani comunisti che costrinsero il ragazzo a seguirli nella boscaglia. Appeso ad un ramo fu lasciato un bigliettino con scritto “Non cercatelo. Viene un attimo con noi partigiani“. Accusandolo di fare la spia per i fascisti, dopo tre giorni di percosse, umiliazioni e sevizie, lo uccisero a colpi di pistola in un bosco di Piane di Monchio, frazione di Palagano.

Seguendo le indicazioni di alcuni partigiani, comprese quelle del suo stesso assassino Giuseppe Corghi, la sera del 14 aprile Roberto Rivi (suo padre) e don Alberto Camellini ritrovarono il corpo con il volto coperto di lividi, il corpo martoriato e le due ferite mortali, una alla tempia sinistra e l’altra all’altezza del cuore.

Il racconto del padre

Roberto Rivi ricorda come gli uccisero il figlio quattordicenne. Il suo racconto è frutto di una ricerca angosciosa iniziata il 10 aprile, quando, tornando a casa dal lavoro, non trovò Rolando.

Foto con la sua famiglia (Rolando è a sinistra)
Foto con la sua famiglia (Rolando è a sinistra)

“Credendo che si fosse addormentato in un boschetto che era lì vicino dove era solito andare a studiare, non lo trovai. Vidi appeso a un ramoscello un foglietto che diceva: Non cercatelo, è venuto un momento
con noi partigiani”. Infatti i partigiani «lo portarono a Monchio e, dopo averlo tenuto in mezzo a loro, torturandolo e seviziandolo, il 13 aprile 1945 lo portarono in un boschetto poco distante dalla casa, dove erano alloggiati. Il ragazzo, quando ha visto la buca scavata, ha chiesto di fare una preghiera. S’inginocchiò sulla buca, in quell’istante lo hanno fulminato. Uno di questi partigiani non voleva arrivare a questo. Un certo Corghi di Formigone, rispose: “Domani un prete in meno”».


La condanna

L’indagine ha accertato che i suoi rapitori, camminando per sentieri a piedi per circa 26 chilometri, condussero il ragazzo da San Valentino ad un casolare in Piane di Monchio (Modena), nei pressi di Farneta, dove era il comando partigiano e il loro tribunale militare.

La Lapide sul luogo dove Rolando fu ucciso, a Piane di Monchio
Rolando fu rinchiuso in un piccolo ambiente uso pollaio. Nell’interrogatorio per fargli confessare la sua collaborazione con i tedeschi e i fascisti, si fece uso anche di schiaffi, pugni, cinghiate.


Gli tolsero la veste talare di seminarista, dalla quale non aveva mai voluto separarsi, nonostante il parere contrario dei genitori già spaventati dall’odio partigiano (sua madre voleva andasse in giro solo in abiti civili, ma lui si oppose), ne fecero una palla per prenderla a calci come se fosse un pallone e, infine, messa a sventolare attaccata ad un chiodo alla porta della casa colonica.

Lo seppellirono nel bosco vicino, in una conca del terreno che ricoprirono con foglie. Giuseppe Corghi confessò:

“In seguito alla decisione presa (dal tribunale partigiano di Farneta) di passare per le armi il giovane, ordinai a due partigiani di preparare la fossa… e quindi lo portammo lì. Egli capì che stava per essere ucciso e allora mi si buttò ai piedi supplicandomi di avere pietà di lui. Ma senza nemmeno pensarci io gli sparai contro due colpi di pistola: il primo colpo alla tempia lo freddò, ma per assicurarmi gli tirai un secondo colpo… Subito me ne tornai al comando lasciando agli altri il compito di seppellirlo”.

Fu chiesto di visionare il verbale del “tribunale partigiano” ma non saltò mai fuori. Molto probabilmente non è stato mai portato lì, così come avvenuto per tante altre persone rapite e poi uccise con la stessa modalità.

Corghi poi aggiunse:

“È opinione corrente che fosse una spia dei fascisti… Almeno così credo… Certo il Rivi aveva tendenze ideologicamente opposte alle nostre, proprio in fatto di movimento partigiano”.

I sacerdoti erano difatti considerati un ostacolo all’idea di rivoluzione come intesa dai comunisti, che in quegli anni cercarono di monopolizzare i movimenti partigiani.

Nel 1951 ci fu il processo di primo grado, che per evitare intimidazioni ai testimoni, si svolse a Lucca. I due responsabili, Giuseppe Corghi e Delcisio Rioli, rei confessi, furono condannati a 26 anni di reclusione. Rimasero in carcere soltanto sei anni, per via dell’amnistia concessa dal Ministro di Grazia e Giustizia, Palmiro Togliatti.

Nelle motivazioni della sentenza di primo grado il giudice sottolinea:

  • “ragioni ideologiche di contrastanti idee politiche e religiose che in siffatti torbidi momenti trascesero purtroppo in episodi di violenza anche cruenta”
  • “fu un uccisione non necessaria dettata solo da sentimenti contrari a quelli professati dall’infelice ragazzo, che andava quale seminarista vestito sempre con l’abito talare”
Successivamente anche la Corte d’appello ha confermato che l’odium fidei è stato il solo e unico motivo della sua uccisione. È stata difatti sempre esclusa la possibilità che Rolando potesse aver svolto attività spionistica o che gli imputati fossero stati davvero consapevoli di questo, nonostante i tentativi iniziali da parte di questi ultimi di sostenerlo, subito decaduti per l’assoluta inconsistenza di quelle tesi basate su elementi giudicati falsi.

Il carattere di Rolando

Rolando era un ragazzo molto vivace, ma anche maturo e responsabile. Si è sempre contraddistinto per la sua grande dedizione allo studio. Amante della musica, entra a far parte della corale e inizia a suonare l’armonium. Quando torna a casa, aiuta i genitori (contadini) nel lavoro in campagna.

In paese scoppiavano spesso discussioni politiche. In un’occasione in cui è presente anche Rolando, alcuni attaccano ingiustamente la Chiesa e le attività dei sacerdoti. Rolando ne prende le difese davanti a tutti senza paura. Quindi, a quanti già l’ammiravano in paese, si alternavano alcuni che lo guardavano di cattivo occhio.

Nel 1944 il seminario fu occupato dai tedeschi in ritirata. Rolando, tornato a casa, proseguì la sua vita da seminarista, vestendo sempre l’abito talare, come segno della sua appartenenza a Gesù. Pochi mesi prima della sua uccisione anche Don Olinto – sua guida spirituale – fu brutalmente picchiato e di questo fu molto addolorato. Sapeva che correva un pericolo, ma non si tirò indietro.

Storie taciute

Il caso di Rolando Rivi merita di essere ricordato in modo particolare, data la sua giovane età, ma furono almeno 129 le uccisioni di sacerdoti accertate e avvenute per mano dei partigiani comunisti, anche dopo il 25 aprile.

Nella sola provincia reggiana, dall’8 settembre del 1943 al 1946 furono assassinati dodici religiosi. Nel libro Storia della Resistenza reggiana di Guerrino Franzini nessuno dei sacerdoti uccisi è menzionato. Silenzio omertoso, che in qualche caso continua. La quotidiana realtà lo dimostra: a Santarcangelo il Consiglio comunale, nel 2017, bocciò la proposta di intitolare una rotonda al beato Rivi, con qualche consigliere che invitò a ridiscutere i presunti crimini compiuti da alcune frange partigiane.

A Rio Saliceto, nell’autunno del 2013, la scuola “Anna Frank” decise di annullare la visita guidata alla mostra sul seminarista ucciso, rea di “infangare la memoria della Resistenza”.

In seguito a questa decisione il vescovo della diocesi dichiarò:

“La beatificazione di Rolando Rivi è stata presentata dalla Chiesa diocesana come un grande momento di riconciliazione. Questo è il significato del riconoscimento che la Chiesa ha dato del martirio. La riconciliazione non può avvenire attraverso la negazione della verità storica. Nessuno deve avere paura della verità storica. Se c’è un male che è stato compiuto dobbiamo denunciarlo: dobbiamo perdonare coloro che l’hanno compiuto, ma non nascondere ciò che è accaduto.”

La lettura politicamente corretta della Resistenza ha fatto dimenticare questa e tante altre storie di martiri, eliminati in odio alla fede.

La beatificazione

Rolando Rivi viene beatificato il 5 ottobre del 2013 perché ucciso “in odio alla sua fede, colpevole solo di indossare la veste talare in quel periodo di violenza scatenata contro il clero”, dirà Papa Francesco.

Quella veste talare che i suoi persecutori avrebbero arrotolato e trasformato in una sorta di pallone da prendere a calci, appendendola poi a un chiodo alla stregua d’un trofeo. È questa la chiave, l’odio per la fede appunto, così forte da ammettere anche l’assassinio di uomini poco più che bambini solo perché devoti a Cristo.

Insegnamenti e perdono

Mons. Camisasca ha detto:

«L’uccisione di Rolando non è stata la vittoria del male, dell’ingiustizia, della morte. Il suo martirio è in realtà il trionfo della vita. La sua giovane esistenza infatti non è stata strappata via dalla terra, ma vi è stata deposta come un seme silenzioso. E ora, a distanza di tanti anni, non smette di crescere e benedirci con tanti frutti».

“La fede nel Dio d’amore, che è alla base del nostro cristianesimo, e l’esempio di Gesù, che ha perdonato i suoi uccisori – giustificandoli per di più ‘perché non sanno quello che fanno – richiedono anche a noi, sia individualmente che come collettività cristiana, di fare del perdono, della comprensione e della compassione il connotato fondamentale dei rapporti vicendevoli”.

Meris Corghi, figlia dell’uccisore di Rolando Rivi, si è riconciliata con la sorella e la cognata della vittima, dicendo:

«Ognuno ha un compito nella vita, una missione: la mia era fare ritrovare la pace a mio padre e tentare di riconciliare i nostri cuori. Con l’aiuto di Dio oggi si compirà dentro una stretta di mano.»

Meris ha partecipato alla messa solenne per l’anniversario dell’uccisione del beato, con il figlio che le è stato sempre accanto. Il vescovo Camisasca, commosso, durante l’omelia ha detto:

«Il perdono che oggi avviene è il segno che Egli è in mezzo a noi. È Gesù che, per intercessione di Rolando, attrae i cuori di coloro che oggi chiedono e donano il perdono. Egli è il sole, che scende nelle profondità delle nostre inimicizie per sanarle».

Meris dirà ancora:

«Quello che ha stravolto la vita di mio padre e ha travolto la vita di Rolando è l’odio che cresce tra gli uomini e si trasforma nella guerra. Perché siamo tutti fratelli e nella guerra tutti perdiamo. Avete perso Rolando e si è perduto mio padre, ma Cristo ha salvato tutti gli uomini. Prima di spirare sulla croce usò il suo ultimo fiato solo per perdonare i suoi carnefici. “Padre perdona loro perché non sanno”.

E ancora:

«L’unica vera esplosione, e mi permetto di parlare a nome di tutti, sia quella della gioia sui sentieri dei nostri figli. Facciamo che diventino creatori di pace come lo è diventato il beato Rolando in questa vicenda e come cerco di esserlo io in questo momento nella memoria di mio padre. Trasformati nella morte e riuniti dall’amore e dal perdono del Padre, che il sorriso di Rolando possa risplendere su tutti voi e accanto a lui anche quello di mio padre. Ciò che l’odio del separatore ha diviso possa riunirsi nell’amore del sacro Cuore di Gesù e nell’amore del Padre».

Fonti
  • “Beato Rolando Maria Rivi. Il martire bambino.”, di Andrea Zambrano, Imprimatur Editore.
  • “Bambini Santi, ragazzi santi”, di Andrea Muni, Lulu International Editions, 2001.

21 aprile 2025

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 TESTAMENTO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

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Miserando atque Eligendo

Nel Nome della Santissima Trinità. Amen.

Sentendo che si avvicina il tramonto della mia vita terrena e con viva speranza nella Vita Eterna, desidero esprimere la mia volontà testamentaria solamente per quanto riguarda il luogo della mia sepoltura.

La mia vita e il ministero sacerdotale ed episcopale ho sempre affidato alla Madre del Nostro Signore, Maria Santissima. Perciò, chiedo che le mie spoglie mortali riposino aspettando il giorno della risurrezione nella Basilica Papale di Santa Maria Maggiore.

Desidero che il mio ultimo viaggio terreno si concluda proprio in questo antichissimo santuario Mariano dove mi recavo per la preghiera all’inizio e al termine di ogni Viaggio Apostolico ad affidare fiduciosamente le mie intenzioni alla Madre Immacolata e ringraziarLa per la docile e materna cura.

Chiedo che la mia tomba sia preparata nel loculo della navata laterale tra la Cappella Paolina (Cappella della Salus Populi Romani) e la Cappella Sforza della suddetta Basilica Papale come indicato nell’accluso allegato.

Il sepolcro deve essere nella terra; semplice, senza particolare decoro e con l’unica iscrizione: Franciscus.

Le spese per la preparazione della mia sepoltura saranno coperte con la somma del benefattore che ho disposto, a trasferire alla Basilica Papale di Santa Maria Maggiore e di cui ho provveduto dare opportune istruzioni a Mons. Rolandas Makrickas, Commissario Straordinario del Capitolo Liberiano.

Il Signore dia la meritata ricompensa a coloro che mi hanno voluto bene continueranno a pregare per me. La sofferenza che si è fatta presente nell’ultima parte della mia vita l’offerta al Signore per la pace nel mondo e la fratellanza tra i popoli.

Santa Marta, 29 giugno 2022

FRANCESCO



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