1 gennaio 2025

“Abbà”, dire “Papà”, dire “Babbo”, dire “Padre” ma con la fiducia di un bambino.


Abbiamo ascoltato ciò che scrive san Paolo nella Lettera ai Romani: «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (8,15). E ai Galati l’Apostolo dice: «E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”» ( Gal 4,6). Ritorna per due volte la stessa invocazione, nella quale si condensa tutta la novità del Vangelo.

Dopo aver conosciuto Gesù e ascoltato la sua predicazione, il cristiano non considera più Dio come un tiranno da temere, non ne ha più paura ma sente fiorire nel suo cuore la fiducia in Lui: può parlare con il Creatore chiamandolo “Padre”. L’espressione è talmente importante per i cristiani che spesso si è conservata intatta nella sua forma originaria: "Abbà".

È raro che nel Nuovo Testamento le espressioni aramaiche non vengano tradotte in greco. Dobbiamo immaginare che in queste parole aramaiche sia rimasta come “registrata” la voce di Gesù stesso: hanno rispettato l’idioma di Gesù. Nella prima parola del “Padre nostro” troviamo subito la radicale novità della preghiera cristiana.

Non si tratta solo di usare un simbolo – in questo caso, la figura del padre – da legare al mistero di Dio; si tratta invece di avere, per così dire, tutto il mondo di Gesù travasato nel proprio cuore. Se compiamo questa operazione, possiamo pregare con verità il “Padre nostro”. Dire “ Abbà” è qualcosa di molto più intimo, più commovente che semplicemente chiamare Dio “Padre”. Ecco perché qualcuno ha proposto di tradurre questa parola aramaica originaria “Abbà” con “Papà” o “Babbo”. Invece di dire “Padre nostro”, dire “Papà, Babbo”. Noi continuiamo a dire “Padre nostro”, ma con il cuore siamo invitati a dire “Papà”, ad avere un rapporto con Dio come quello di un bambino con il suo papà, che dice “papà” e dice “babbo”. Infatti queste espressioni evocano affetto, evocano calore, qualcosa che ci proietta nel contesto dell’età infantile: l’immagine di un bambino completamente avvolto dall’abbraccio di un padre che prova infinita tenerezza per lui. E per questo, cari fratelli e sorelle, per pregare bene, bisogna arrivare ad avere un cuore di bambino. Non un cuore sufficiente: così non si può pregare bene. Come un bambino nelle braccia di suo padre, del suo papà, del suo babbo.

Ma sicuramente sono i Vangeli a introdurci meglio nel senso di questa parola. Cosa significa per Gesù, questa parola? Il “Padre nostro” prende senso e colore se impariamo a pregarlo dopo aver letto, per esempio, la parabola del padre misericordioso, nel capitolo 15° di Luca (cfr Lc 15,11-32). Immaginiamo questa preghiera pronunciata dal figlio prodigo, dopo aver sperimentato l’abbraccio di suo padre che lo aveva atteso a lungo, un padre che non ricorda le parole offensive che lui gli aveva detto, un padre che adesso gli fa capire semplicemente quanto gli sia mancato. Allora scopriamo come quelle parole prendono vita, prendono forza. E ci chiediamo: è mai possibile che Tu, o Dio, conosca solo amore? Tu non conosci l’odio? No – risponderebbe Dio – io conosco solo amore. Dov’è in Te la vendetta, la pretesa di giustizia, la rabbia per il tuo onore ferito? E Dio risponderebbe: Io conosco solo amore.

Il padre di quella parabola ha nei suoi modi di fare qualcosa che molto ricorda l’animo di una madre. Sono soprattutto le madri a scusare i figli, a coprirli, a non interrompere l’empatia nei loro confronti, a continuare a voler bene, anche quando questi non meriterebbero più niente.

Basta evocare questa sola espressione – Abbà – perché si sviluppi una preghiera cristiana. E San Paolo, nelle sue lettere, segue questa stessa strada, e non potrebbe essere altrimenti, perché è la strada insegnata da Gesù: in questa invocazione c’è una forza che attira tutto il resto della preghiera.

Dio ti cerca, anche se tu non lo cerchi. Dio ti ama, anche se tu ti sei dimenticato di Lui. Dio scorge in te una bellezza, anche se tu pensi di aver sperperato inutilmente tutti i tuoi talenti. Dio è non solo un padre, è come una madre che non smette mai di amare la sua creatura. D’altra parte, c’è una “gestazione” che dura per sempre, ben oltre i nove mesi di quella fisica; è una gestazione che genera un circuito infinito d’amore.

Per un cristiano, pregare è dire semplicemente “Abbà”, dire “Papà”, dire “Babbo”, dire “Padre” ma con la fiducia di un bambino.

Può darsi che anche a noi capiti di camminare su sentieri lontani da Dio, come è successo al figlio prodigo; oppure di precipitare in una solitudine che ci fa sentire abbandonati nel mondo; o, ancora, di sbagliare ed essere paralizzati da un senso di colpa. In quei momenti difficili, possiamo trovare ancora la forza di pregare, ricominciando dalla parola “Padre”, ma detta con il senso tenero di un bambino: “ Abbà”, “Papà”. Lui non ci nasconderà il suo volto. Ricordate bene: forse qualcuno ha dentro di sé cose brutte, cose che non sa come risolvere, tanta amarezza per avere fatto questo e quest’altro… Lui non nasconderà il suo volto. Lui non si chiuderà nel silenzio. Tu digli “Padre” e Lui ti risponderà. Tu hai un padre. “Sì, ma io sono un delinquente…”. Ma hai un padre che ti ama! Digli “Padre”, incomincia a pregare così, e nel silenzio ci dirà che mai ci ha persi di vista. “Ma, Padre, io ho fatto questo…” – “Mai ti ho perso di vista, ho visto tutto. Ma sono rimasto sempre lì, vicino a te, fedele al mio amore per te”. Quella sarà la risposta. Non dimenticatevi mai di dire “Padre”. Grazie.

Maria Santissima Madre di Dio

Con la solennità odierna, che in Italia è festa di precetto, la Chiesa celebra e confessa che la Beata Vergine è veramente la Theotókos («Colei che partorisce Dio», Deipara in latino), come la acclamarono i Padri riuniti al Concilio di Efeso del 431, definendo il primo dogma mariano della storia, intimamente legato alla divinità del Figlio



Meditando sulla Divina Maternità di Maria, don Divo Barsotti (1914-2006) affermava che l’aspetto straordinario del cristianesimo «non è solo che una creatura chiami Dio “Figlio”, ma che il Creatore chiami una creatura “Madre”». Con la solennità di Maria Santissima Madre di Dio, che in Italia è festa di precetto, la Chiesa celebra e confessa che la Beata Vergine è veramente la Theotókos («Colei che partorisce Dio», Deipara, secondo il corrispondente termine latino), come la acclamarono i Padri riuniti al Concilio di Efeso del 431, definendo il primo dogma mariano della storia, intimamente legato alla divinità del Figlio e al mistero della sua Incarnazione nel grembo verginale di Maria. Non si può comprendere l’una se non alla luce dell’Altro, che a sua volta viene glorificato in ogni onore e verità riguardante la Madre, vero baluardo contro le eresie cristologiche, come dimostra la stessa storia del dogma.

Nel V secolo era sorta infatti l’eresia di Nestorio, un arcivescovo siro che negava l’unione ipostatica della natura umana e divina nell’unica persona del Cristo, affermando la separazione totale tra le due nature che per lui corrispondevano a due differenti persone, l’Uomo e il Dio: come corollario di questo errore, Nestorio sosteneva che Maria fosse madre solo della persona umana di Gesù e perciò rifiutava di chiamarla Madre di Dio.

All’eresia rispose subito san Cirillo di Alessandria (370-444), che indirizzò alcune lettere a Nestorio richiamandolo a riflettere sulle verità del Credo e spiegando che «il Verbo, unendo a sé stesso ipostaticamente una carne animata da un’anima razionale, si fece uomo […]. Sono diverse, cioè, le nature che si uniscono, ma uno solo è il Cristo e Figlio». La conclusione di Cirillo, fedele all’insegnamento degli antichi Padri, fu questa: noi chiamiamo Maria «Madre di Dio, non certo perché la natura del Verbo o la sua divinità avesse avuto origine dalla santa Vergine, ma, poiché nacque da lei il santo corpo dotato di anima razionale a cui il Verbo è unito sostanzialmente, si dice che il Verbo è nato secondo la carne».

Il Concilio di Efeso affermò l'ortodossia della dottrina di Cirillo, condannò il nestorianesimo e arrivò alla solenne definizione nota come “formula di unione”: «Noi quindi confessiamo che il nostro Signore Gesù, Figlio unigenito di Dio, è perfetto Dio e perfetto uomo, (composto) di anima razionale e di corpo; generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, nato, per noi e per la nostra salvezza, alla fine dei tempi dalla vergine Maria secondo l’umanità; che è consostanziale al Padre secondo la divinità, e consostanziale a noi secondo l’umanità, essendo avvenuta l’unione delle due nature. Perciò noi confessiamo un solo Cristo, un solo Figlio, un solo Signore».

Con la proclamazione della Maternità Divina di Maria Vergine, i Padri conciliari hanno perciò onorato la Madonna definendo dogmaticamente la grazia ricevuta da Dio e per la quale la cugina Elisabetta, piena di Spirito Santo, l’aveva salutata («a gran voce», ci dice l’evangelista Luca) come «benedetta fra le donne» e «madre del mio Signore». E allo stesso tempo hanno onorato tutta la Santissima Trinità per il capolavoro compiuto in Maria con l’Incarnazione (Summum Opus Dei, come in seguito l’avrebbe definita il beato Giovanni Duns Scoto) e protetto Cristo sia dall’eresia nestoriana sia da altre eresie già condannate da precedenti concili, ma all’epoca ancora vive, come l’arianesimo e l’adozionismo che negavano la divinità del Figlio.

Il profondissimo legame tra il mistero della Madre e del Figlio si può scorgere anche nella decisione di celebrare tale solennità l’1 gennaio, nell’Ottava del Natale del Signore, con la liturgia che ricorda la circoncisione di Gesù - avvenuta otto giorni dopo la nascita, secondo le prescrizioni ebraiche - e quindi il primo sangue versato dal Divin Bambino per la salvezza dell’umanità: proprio allora gli fu imposto il nome Gesù (Lc 2, 21), «Dio salva», come era stato chiamato dall’angelo. In virtù della sua obbedienza alla volontà divina Maria partecipa in modo unico al disegno di salvezza e all’opera del Figlio, «servendo al mistero della Redenzione sotto di Lui e con Lui» (Lumen Gentium, 56).

Dalla sua Maternità Divina deriva un’altra verità consolante, cioè la maternità spirituale di Maria che si estende a tutti i redenti, già implicita nel suo sì all’Annunciazione e ratificata da Gesù in croce, con il solenne e reciproco atto di affidamento del discepolo prediletto alla Madre («Donna, ecco il tuo figlio!») e di lei al discepolo («Ecco la tua madre!»). Per dirla con le parole di san Pio X: «Dunque, tutti noi che siamo uniti a Cristo […] dobbiamo considerarci usciti dal grembo della Vergine come un corpo attaccato alla sua testa. Per questo in verità noi siamo chiamati, in un senso spirituale e tutto mistico, i figli di Maria ed Ella, per parte sua, è madre di noi tutti».


Per saperne di più:

Lux Veritatis, enciclica di Pio XI nel XV centenario del concilio di Efeso (25 dicembre 1931)