4 maggio 2015

L’autenticità della Sindone di Torino



La Sindone di Torino è una tela di lino, tessuta «a spina di pesce» (126), di colore giallastro, di forma rettangolare, lunga metri 4,36 e larga metri 1,10. Su di essa si scorge una tenue, doppia immagine frontale e dorsale di un corpo umano, che ha subito torture e lesioni varie, e presenta vistose colature di sangue ai piedi, al polso sinistro ed al cuore. Due righe scure, parallele, distanti 35 centimetri
dai lati maggiori, attraversano la Sindone; lungo queste righe ci sono due serie di bruciature, quasi simmetriche, coperte da toppe a forma di triangolo.

L’autenticità della tela.

  Mons. Pietro Savio, in una sua monografia, afferma che la tessitura del lino «a spina di pesce» risulta di un tipo rarissimo, di cui esistono solo quattro esemplari, compresa la tela della Sindone, che appartengono sempre a persone molto facoltose (127).
  Il professor Silvio Curto, direttore del Museo egizio di Torino, attesta che la tessitura «a spina di pesce» è di origine mesopotamica o siriaca (128).
  Ma il perito tessile Virginio Timossi dimostra, con rigore scientifico, che, all’epoca di Gesù, tale tipo di lavorazione del lino era già nota e praticata anche in Egitto (129).
  Si può concludere che al tempo di Gesù esistevano, nell’area palestinese, tele di lino lavorate «a spina di pesce», provenienti sia dalla Siria che dall’Egitto.
  Il Timossi afferma, a conclusione del suo studio, che «...tutto questo ci fa supporre che la tela non fosse un vero lenzuolo per il letto, ma piuttosto un tessuto di provenienza occasionale, come pare
indicare l’evangelista Marco» (130). Mons. Pietro Savio ha trovato, in antichissimi papiri egiziani, contratti di lavoro, in cui si parla, tra l’altro, della confezione di rotoli di lino, determinando la loro lar ghezza e lunghezza (30 metri) (131).
  Ciò conferma quanto abbiamo detto nella prima indagine riguardo all’acquisto fatto da Giuseppe d’Arimatea che non comprò un lenzuolo, ma uno stacco di un certo numero di metri di un rotolo
di tela, in greco chiamata «sindone».
  Abbiamo dimostrato a sufficienza che una tela, tessuta a spina di pesce, può risalire al tempo di Gesù. Ora dobbiamo dimostrare che la tela della Sindone di Torino risale al tempo ed al paese dove è
vissuto Gesù.

  Abbiamo a nostra disposizione almeno due prove:

  a. La prima prova ci viene dalla palinologia, cioè dalla scienza che studia i pollini dei fiori.
  Il professore Max Frei, recentemente scomparso, direttore per più di venticinque anni del Laboratorio scientifico della Polizia di Zurigo, laureato in Biologia e Scienze Naturali, specializzato nello studio delle micro-orme, analizzò un campione di polverina, che aveva raccolto nel 1973 dalle parti marginali della Sindone, ottenendo dei risultati sbalorditivi. In quella polverina, che sembrava insignificante, trovò pollini di fiori che avevano vegetato solo nell’area della Palestina circa venti secoli or sono, le cui piante sono ormai estinte da molti secoli.
  Quando Max Frei, nella primavera del 1976, diede la notizia della sua scoperta, la stampa mondiale ne diede comunicazione sulle prime pagine con grande rilievo.
  b. La seconda prova ci viene dalla numismatica, perché sono state scoperte sulla Sindone le impronte di due monete, usate per tenere abbassate le palpebre di Gesù nell’interno della Sindone. Le impronte rivelano che si tratta molto probabilmente di due monete, coniate tra il 29 e il 32 dell’era cristiana.
  Le monete recano la scritta « Tiberiu Kaisaros», invece di « Tiberiou Kaisaros», come avrebbe dovuto essere. Era stato proprio Ponzio Pilato, procuratore dell’imperatore Tiberio ad emettere monete con questo errore grafico. Ciò esclude ogni possibilità che la tela della Sindone non sia autentica: essa certamente risale al tempo di Gesù e si trova in Giudea al tempo di Ponzio Pilato (132).
  L’uso di porre delle monete sulle palpebre dei defunti ha origine molto antica.
  Le impronte delle monete sulla Sindone furono scoperte dagli scienziati dello Sturp, di cui parleremo tra poco.
  J. Jackson, E. jumper e B. Mottew, usando un’analizzatore UP-8, ricostruirono una copia tridimensionale dell’Uomo della Sindone. Sull’immagine tridimensionale apparvero, sulle palpebre del morto, due piccoli oggetti, che furono riconosciuti come monete (133).

L’autenticità delle impronte.

Ora si deve affrontare il secondo problema, che riguarda l’autenticità delle impronte, cioè si deve dimostrare che quelle impronte sono veramente del corpo di Gesù.
  Questo studio è di competenza dell’esegesi biblica coadiuvata dalla scienza per quanto riguarda la lettura delle impronte, che sono determinanti per risolvere il problema dell’autenticità.
  Se le impronte della Sindone di Torino sono quelle autentiche devono essere una fedele illustrazione dei racconti evangelici e pertanto non devono solo confermare ogni loro affermazione, ma devono anche chiarirla e completarla, come un’immagine chiarisce e completa una descrizione o un racconto.
  Leggiamo dunque le impronte della Sindone con l’aiuto delle fotografie, scattate in occasione delle rare ostensioni della Sindone da tre fotografi dalle caratteristiche diverse: dal fotografo dilettante avvocato Secondo Pia, nel 1898; dal professionista Giuseppe Enrie nel 1931; dal sindonologo Judica Cordiglia, professore di Medicina Le-
gale dell’Università di Milano, nel 1969.

  a.  Il volto dell’Uomo della Sindone.

  Cominciamo a leggere le impronte del volto dell’Uomo della Sindone.
  Tutta la parte destra del suo volto è gonfia, tumefatta, distorta: il gonfiore inizia dallo zigomo, la cui tumefazione coinvolge anche l’occhio, che risulta semichiuso; sotto lo zigomo una striscia nera attraversa la guancia dal basso verso l’alto fino a raggiungere il naso, che, in direzione della striscia nera, è estremamente gonfio ed ha la cartilagine rotta; al di sotto della striscia nera, la parte inferiore della guancia è anch’essa tumefatta ed il gonfiore si estende fino all’angolo della bocca, dalla quale fuoriesce un abbondante versamento di sangue, che si è raggrumato sui peli della barba.
  Questa vasta tumefazione, che si estende su tutta la parte destra del volto, è stata evidentemente prodotta da un’unica causa, riconoscibile in quella striscia nera, che è il segno di una violenta compressione dei vasi sanguigni, causata da un colpo di verga, inferto da un individuo che si trovava sulla destra del percosso e che impugnava la verga con la mano sinistra.
  Anche il professore Judica Cordiglia, che ha studiato la Sindone per quarant'anni, la pensa così (134).
  Risulta dai vangeli che a Gesù fu dato un simile colpo di verga?
  Nel vangelo di Giovanni si legge: «Aveva appena detto questo, che una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù dicendo: Così rispondi al sommo sacerdote?» (Gv 18,22).
  Nella versione latina della Volgata si legge: «Haec autem cum dixisset, unus assistens ministrorum dedit alapam Jesu dicens: Sic respondes pontifici?» (Gv 18,22). Gesù avrebbe ricevuto uno schiaffo, ma uno schiaffo, per quanto violento, non poteva produrre tutti quegli effetti così devastanti, che hanno coinvolto la bocca, il naso, l’occhio e la guancia tutta intera.
  L’evangelista Giovanni non aveva scritto così come hanno interpretato la versione latina ed italiana!
  Giovanni aveva scritto: «... édoken rápisma tô Jesoû... » cioè a Gesù è stato dato, sul volto, non uno schiaffo, ma un colpo di verga.
Infatti la parola «rápisma», che deriva da «rapís», significa «verga».
Nel vocabolario si legge: «Rápisma, percossa con verga o con bastone: generalmente percossa, NT» (Vocab. greco-italiano Schenkl).
  L’argomento è troppo importante per non aggiungere delle prove, per dimostrare la verità di quanto si è detto.

a1. Gesù protestò per il colpo ingiustamente ricevuto, dicendo: «Tí me déreis;» (Gv 18,23), cioè «Perché mi bastoni?». Infatti questo è il significato del verbo greco «déro». Inoltre il verbo «déro» ha, come significato principale, «cavare la pelle, scorticare». Uno schiaffo non scortica la pelle, ma la scortica invece un colpo di verga. (Da «déro» viene «dérma» che significa «pelle cavata ed anche pelle del corpo umano»).

a2. La parola «rápisma» è usata anche nel vangelo di Marco, nel quale, a proposito della notte passata in prigionia da Gesù in balìa dei soldati e dei servi del Tempio, si legge: «Allora akuni cominciarono a sputargli addosso, a coprirgli il volto, a schiaffeggiarlo e a dirgli: Indovina. I servi, intanto, lo percuotevano» (Mc 14,65).
  La Volgata traduce: «Et coeperunt quidam conspuere eum, et velare faciem eius, et colaphis caedere, et di cere ei: Prophetiza: et ministri alapis eum caedebant» (Mc 14,65).
  Marco, in questo passo, usa due verbi per esprimere prima quello che fecero alcuni e poi quello che fecero i servi. Per esprimere cosa fecero i primi, usa il verbo «kolaphízein», che significa «dare schiaffi».
  Questi si divertirono a giocare con Gesù allo «schiaffo del soldato», dandogli schiaffi dopo averlo bendato.
  Mentre i servi trattarono Gesù più duramente, perché, secondo Marco, che usa il sostantivo «rázpisma», colpirono Gesù con bastoni (Mc 14,43).
  Del resto questi servi erano andati a catturare Gesù nel Getsemani, portandosi dei bastoni «csúlon», che allora non usarono, mache usano adesso, perché si sentono autorizzati dalla condanna a
morte, comminata dal sinedrio.
  Questi colpi di bastone, evidentemente, furono dati sul corpo di Gesù in quella terribile notte, ma forse qualche colpo anche sul volto, perché sulla Sindone si scorge l’impronta di un colpo di bastone dato in fronte, come dice mons. Giulio Ricci: «Tumefazione a forma di piccola sfera, nella parte superiore centrale della fronte, all’altezza dell’attaccatura dei capelli. Ha tutta l’apparenza, anche per la parte spiovente della fronte in cui si trova, di essere prodotta da qualche
corpo contundente (bastonata?)» (135).
  La Volgata interpreta male questo passo di Marco, perché tra- duce due verbi diversi con le stesse parole: traduce «kolaphízein» con «colaphis eum caedere» e «rapísmasin autòn élabon» come se fosse equivalente dell’altro verbo con «alapis eum caedebant». E evidente che Marco, nel secondo caso, non vuole parlare di «schiaffi» altrimenti non avrebbe distinto il comportamento dei servi da quello degli altri.
  A sferrare il colpo sul volto di Gesù fu, molto probabilmente, uno scriba zelante, che era così robusto nel suo braccio sinistro, perché avvezzo ad usarlo nella scrittura, che nella lingua semitica va da destra verso sinistra.
  Quel colpo di verga diede inizio alla passione dolorosa e provocò in Gesù, pur tanto paziente e mite, un dolore così lancinante che protestò energicamente: «Se ho parlato male dimostratemi dov’è il male, ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,23).
  Questa è l’unica protesta di Gesù durante la sua lunga e dolorosa passione, provocata non solo dall’ingiustizia del colpo di verga e dall’inaudita violenza con cui fu sferrato, ma anche e soprattutto
perché fu diretto contro il volto, che del corpo è la parte più sensibile.
  I danni provocati da quel colpo si manifestarono in tutta la loro gravità col passare del tempo. Quando Gesù fu portato davanti a Plato, il mattino seguente, aveva la parte destra del volto devastata.
Sembrava un pugile al termine di un aspro combattimento.
  La guancia destra sembrava la tavolozza di un pittore, tanti erano i colori che vi si potevano scorgere: la zona colpita dalla verga era nera, il resto della guancia aveva tutte le tonalità del blu e del violetto, l’occhio sinistro era quasi del tutto spento, il naso rigonfio e ripiegato a sinistra, la bocca storta e la barba intrisa di sangue raggrumato.
  Di fronte a quello spettacolo, Pilato stentava a credere all’accusa che i Giudei muovevano contro Gesù, perché non aveva di certo un aspetto regale, ma quello di un povero uomo indifeso.
  Quando Pilato gli chiese se fosse veramente re, Gesù fu costretto a spiegare la natura del suo regno, non solo per giustificare la sua prigionia, ma soprattutto per giustificare la devastazione del suo volto e disse: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (Gv19,36).
  Nessuno ha combattuto perché non venissero inferte quelle sofferenze a Gesù, ma almeno cerchiamo di conoscerle, per sapere quanto duramente Gesù ha pagato di persona per la nostra salvezza.
  Le sofferenze di Gesù non cominciano con la flagellazione, ma con quel colpo di verga, sferrato con violenza e ferocia inaudita da un servo del sommo sacerdote durante il processo, alla presenza di
tutto il sinedrio, che è rimasto impassibile di fronte a quell’ingiustizia, perché nessuno ebbe il coraggio di difenderlo.
  Le sofferenze di Gesù continuarono durante la notte di prigionia, quando Gesù fu lasciato in balìa dei soldati di guardia e dei servi del Tempio, che si accanirono contro di lui, sfogando tutta la violenza che avevano nel cuore. Ed anche allora nessuno difese Gesù.
  Nell’iconografia della prima stazione della Via Crucis, in genere, il volto di Gesù viene rappresentato tutto bello, come se la passione non fosse ancora incominciata, non tenendo conto né dei racconti evangelici, né della testimonianza della Sindone, che ha illustrato,
con la potenza insuperabile dell’immagine, il racconto evangelico.
  Dunque dai racconti evangelici risulta che Gesù ricevette, sulla parte destra del volto, un violento colpo di verga, come l’Uomo raffigurato sulla Sindone.

  b. L’uomo della Sindone è stato flagellato e coronato di spine.

  La flagellazione dell’Uomo della Sindone costituisce un’anomalia rispetto all’applicazione del Diritto penale romano, perché appare come una pena inflitta prima della condanna alla croce. Infatti i condannati a morire in croce venivano flagellati solamente durante il percorso dal tribunale al luogo del supplizio, oppure immediatamente prima della crocifissione. I colpi, perciò, risultavano distribuiti disordinatamente nelle varie parti del corpo.
  Mentre appare chiaro che l’Uomo della Sindone è stato colpito con metodicità e con regolarità quasi perfetta sia nella distribuzione che nella direzione dei colpi, in modo che non ci fosse pane del corpo non colpita, eccetto la zona del cuore e del capo.
  Perciò la flagellazione dell’Uomo della Sindone fu eseguita prima della condanna alla croce, mentre era ben fermo, legato ad un’apposita colonna.
  Una simile flagellazione era una pena che di per sé escludeva la condanna alla croce.
  Si rimane perciò perplessi di fronte a questa infrazione alla procedura penale romana, che nella storia delle crocifissioni si riscontra solo nell’Uomo della Sindone.
  Inoltre l’Uomo della Sindone certamente non era un cittadino romano, perché fu flagellato non con le verghe dei fasci littori, ma con l’«horribile flagellum» di Orazio: il «flagellum taxillatum», riservato agli schiavi, ai ribelli, ai provinciali senza diritto alla cittadinanza romana.
  Il flagello poteva avere una o più funi o «lorae»; i «taxilli» potevano essere o due sfere di metallo oppure due ossicini di animali, collegati tra loro e fissati in capo alle funi.
  Il numero dei colpi inferti all’Uomo della Sindone è difficile da determinare: la maggioranza dei sindonologi ritiene che il flagello avesse due funi e che i colpi inferti siano stati 40, secondo il costume ebraico, che vietava assolutamente di superare questo numero, come è prescritto nel Deuteronomio: «Gli farà dare non più di quaranta colpi, perché, aggiungendo altre battiture a queste, la punizione non risulti troppo grave e il tuo fratello resti infamato ai tuoi occhi» (Dt 25,3).
  Il Noghier de Malijai (136) ed il professor Gedda (137) ritengono che il flagello avesse due funi e che i colpi fossero 40; il Barbet ( 138) ne conta invece 60, inferti con un flagello a due funi; il Ricci invece ritiene che il flagello avesse tre funi e che i colpi fossero 120, dei quali, circa settanta hanno lasciato chiaramente le tre impronte, dodici hanno lasciato chiaramente due impronte e qualche
traccia della terza impronta, diciotto solo due impronte ed i rimanenti una sola impronta (139).
  A mio parere, ai colpi contati dai sindonologi, si devono aggiungere quelli che si trovano sulle parti laterali del corpo dell’Uomo della Sindone, che non sono impresse sulla tela. Il numero dei colpi
salirebbe di molto. Perciò risulta chiaramente che l’Uomo della Sindone fu flagellato da romani e secondo il costume romano, che non imponeva limitazioni di colpi. I carnefici sospesero la terribile tortura solo quando il corpo dell’Uomo della Sindone apparve tutto colpito.
  Nell’Uomo della Sindone si riscontra un’altra anomalia ancora più grave rispetto alla procedura penale romana: la coronazione di spine. Il capo dell’Uomo della Sindone è costellato di ferite e attraversato da rivoli di sangue: la nuca presenta otto ferite con dodici rivoli di sangue; il volto ha un numero minore di colature di sangue e sembra che sia stato deterso prima della crocifissione.
  Anche Gesù, come l’Uomo della Sindone, subl, secondo i racconti evangelici, la pena della flagellazione, prima di essere condannato alla croce. Pilato, dopo aver interrogato Gesù ed essersi accertato della sua innocenza, avrebbe voluto liberarlo, senza infliggergli nessuna punizione. Comunicò questa sua intenzione ai Giudei, dicendo: «lo non trovo in lui nessuna colpa» (Gv 19,38). Ma i Giudei respinsero decisamente la sentenza del procuratore, costringendolo a cercare degli espedienti per salvare Gesù dalla morte. Approfittando delle feste pasquali, Pilato si disse disposto a liberare un prigioniero, proponendo una scelta tra Gesù e Barabba. Ma i Giudei gridarono: «Non costui, ma Barabba!» (Gv 19 ,40). Pilato allora tentò di salvare Gesù, soddisfacendo la sete di sangue e di vendetta, che chiaramente mostravano di avere i Giudei contro Gesù. Ordinò che venisse flagellato, non per punirlo di una colpa, perché era innocente, ma per salvargli almeno la vita.
  Luca esplicitamente riferisce questa volontà di Pilato di voler liberare Gesù, dopo averlo punito: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato nulla in lui che meriti la morte. Lo castigherò severamente e poi lo rilascerò» (Le 23,22).
  I calcoli di Pilato si rivelarono del tutto errati, perché quella che doveva essere una semplice punizione si trasformò in un atroce supplizio e non servì a salvare la vita di Gesù.
  La flagellazione fu eseguita all’interno del pretorio da soldati romani, che, dopo averlo spogliato, lo flagellarono secondo il costume dei romani, senza limitazioni di colpi.
  Al termine della flagellazione, Pilato sembrava essersi dimenticato di Gesù, allora i soldati inscenarono una ignobile commedia. Misero addosso a Gesù, che era ancora nudo e sanguinante per la flagellazione, un mantello scarlatto di un centurione; intrecciarono una corona di spine e gliela posero sul capo; gli posero una canna nella destra e lo fecero sedere su un sedile di pietra.
  Come in una rappresentazione burlesca avevano offerto a Gesù tutti gli attributi di un re: il trono, lo scettro, la corona, il manto.
  Radunarono tutti i soldati della coorte, presenti nel pretorio, e si divertirono a rendere a Gesù gli onori dovuti all’imperatore. Uno alla volta si accostavano a lui con riverenza, gli si inginocchiavano
davanti dicendo: «Salve re qei Giudei!». Poi si alzavano, gli sputavano addosso, gli toglievano la canna di mano e lo percuotevano sul capo (Mt 27,27-31; Mc 15,16-20).
  Quando Pilato si ricordò di Gesù, lo mandò a chiamare e glielo portarono, così com’era, con la corona di spine, con il mantello di porpora, con la canna in mano e con il volto irriconoscibile, coperto di sangue e di sputi.
  Pilato, vedendo Gesù, pensò di aver raggiunto lo scopo e lo mostrò ai Giudei, dicendo: «Ecco l’Uomo!» (Gv 19,5). Veramente Gesù era così sfigurato da non sembrare più un uomo.
Si realizzò così la parola. del profeta Isaia, che lo aveva visto:
«Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce
il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato
e non ne avevano alcuna stima» (ls 53,3).
  Ma i Giudei non si commossero davanti a quello spettacolo che avrebbe intenerito una belva ed insistettero nella loro richiesta di condanna alla croce (Gv 19,6).
  Pilato invano tentò ancora di tergiversare, ma non ebbe scampo ed alla fine lo consegnò loro perché fosse crocifisso (Gv 19,16). Il tentativo di salvare Gesù con la flagellazione divenne, per Gesù, solo un motivo di soffrire infinitamente di più.
  L’Uomo della Sindone e Gesù sono accomunati nell’aver sofferto due tormenti, che si rivelano unici per i condannati alla croce: infatti per la Legge romana i condannati alla croce venivano flagellati, ma non in quel modo, e mai, a nessun condannato è stata imposta una corona di spine, per quanto ci risulta dalla storia, dalla tradizione e dall’archeologia.
  Gesù è l’Uomo della Sindone, perché non esiste un altro uomo che sia stato così odiato e così amato: odiato perché il suo corpo fu sottoposto a tutte le torture possibili, amato perché il suo ricordo è stato conservato con cura affettuosa nei millenni.
  Abbiamo notato, a proposito dell’Uomo della Sindone, che sul suo volto sono rimaste poche tracce di sangue, provenienti dalle ferite delle spine e che alcune colature sanguigne sui capelli sono chiaramente interrotte, come se qualcuno le avesse deterse, prima della crocifissione.
  La Tradizione racconta che una donna, resa ardita dalla pietà, ebbe il coraggio, durante il percorso della via dolorosa, di accostarsi a Gesù con una tela di lino, per nettargli il volto di tante brutture, che lo deturpavano.
  Per quel gesto pietoso la donna fu chiamata la Veronica, cioè la vera immagine.
  È un motivo in più per riconoscere Gesù nell’Uomo della Sindone. Gesù è stato circondato di un amore così grande che nemmeno una briciola della sua storia di donazione e di amore si è perduta.

  c. L’Uomo della Sindone è stato crocifisso.

  L’uomo della Sindone è stato crocifisso ed ha portato sulle spalle il patibolo, dal tribunale al luogo del supplizio.
  Il patibolo (dal verbo patere = aprire) era quel legno che serviva a chiudere la porta, e perciò anche ad aprire, dall’interno della casa, inserendolo in due buche praticate nei muri, che sorreggevano i cardini della porta.
  I padroni, che dapprima usarono la forca per punire gli schiavi ribelli, poi si servirono del patibolo, per mandarli alla crocifissione.
  Il patibolo veniva posto sul dorso del condannato, che era costretto a portarlo avendo le braccia spalancate e legate saldamente alla trave. Il patibolo ha lasciato, sulle spalle dell’Uomo della Sindone, due contusioni: una in alto, sulla scapola destra, e l’altra in basso, sotto la scapola sinistra.
  Infatti la trave veniva portata obliquamente, causando maggior dolore, perché l’estremità sinistra del patibolo era legata alla caviglia sinistra e costringeva il condannato a procedere inclinato verso la
parte sinistra. Sotto le due contusioni, si scorgono le impronte di numerosi colpi di flagello, segno certo che l’Uomo della Sindone  fu flagellato prima di essere condannato alla crocifissione.
  L’Uomo della Sindone cadde più volte lungo il percorso verso il luogo del supplizio, perché presenta evidenti tracce di contusioni sul ginocchio sinistro e sulla parte sinistra del volto.
  Giunto sul luogo del supplizio, fu inchiodato al patibolo. I chiodi furono piantati nei polsi, che sono una parte integrante della mano, precisamente nel «vuoto di Destot», al centro della catena degli
ossicini, che formano appunto il carpo della mano, ledendo il nervo
mediano, che comanda, per mezzo dei muscoli del tenar, il movimento del pollice. Infatti sulla Sindone non sono visibili i pollici delle mani.
  Poi i soldati sollevarono il patibolo con l’Uomo della Sindone, e lo fissarono sul palo verticale o stipite, già infisso nel terreno, e inchiodarono anche i piedi, molto probabilmente con un unico chiodo, che attraversò il secondo spazio metatarsale dei piedi sovrapposti: il sinistro sul destro.
  Anche Gesù portò il patibolo dal pretorio fino all’uscita dalle mura di Gerusalemme e fu crocifisso sul Golgota, come narrarono gli evangelisti: «Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a prendere sù la croce di lui. Giunti a un luogo detto Golgota, che significa luogo del cranio, gli diedero da bere vino mescolato con fiele; ma egli, assaggiatolo, non ne volle bere. Dopo averlo crocifisso...» (Mt 15,21; Le 23,26.33-40; Gv 19,17-24).
  Dai racconti evangelici sembrerebbe che Gesù abbia portato l’intera croce (stauròs) cioè il patibolo e lo stipite. Ma ciò non è possibile, perché neanche un uomo sano e robusto sarebbe stato capace di portarla, tanto meno sarebbe stato capace Gesù, che era debilitato dalla durissima flagellazione. Gli evangelisti, perciò, con la frase «portare la croce» usano la figura retorica, detta sineddoche, per cui si nomina il tutto invece di nominare la parte (140).
  L’iconografia sacra ha sempre segnato i chiodi nelle palme, seguendo la convinzione comune formatasi per le espressioni evangeliche e per le parole di Gesù stesso agli apostoli: «Guardate le mie mani» (Le 24,38). Ma certamente i chiodi avevano trapassato i polsi, perché il palmo della mano non può sostenere il peso del corpo.
  I vangeli non parlano delle cadute di Gesù lungo la via dolorosa, ma la tradizione, che si è poi fissata nella pia pratica della Via Crucis, ci ha tramandato il ricordo di tre cadute di Gesù.
  La crocifissione di Gesù e quella dell’Uomo della Sindone appaiono essere la stessa crocifissione: la prima descritta con le parole, la seconda con la figurazione.

  d. Dal costato dell’Uomo della Sindone sgorgarono sangue e siero ematico.

  I medici, che hanno studiato la Sindone, hanno accertato che l’Uomo della Sindone fu colpito da un colpo di lancia al costato destro e che dalla ferita uscì non solo sangue, ma anche una grande
quantità di liquido siero-ematico, di cui è rimasta una chiara traccia sulla Sindone.
  Questa ferita all’emitorace destro, sempre secondo il parere dei medici, è l’unica ferita inferta dopo la morte e, certamente, a non molta distanza dalla morte (141).
  Anche Gesù, dopo la sua morte, fu colpito al cuore dalla lancia di uno dei soldati di guardia.
  L’evangelista Giovanni racconta: «Venuti poi a Gesù (i soldati incaricati di spezzare le gambe) e vistolo morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con la lancia gli trafisse il petto» (Gv
19,34). Questo colpo di lancia non faceva parte del supplizio della croce, ma fu inferto per non rischiare di lasciare Gesù vivo.
  Giovanni continua dicendo che dal cuore di Gesù uscì subito sangue ed acqua. La Sindone conferma la storicità del racconto di Giovanni anche in questi particolari, che per la loro straordinarietà spesso erano considerati simbolici.
  Davvero non c’è dubbio alcuno che le impronte della Sindone siano autentiche, cioè che siano proprio quelle del corpo di Gesù. Ciò è confermato dal fatto che la Sindone è giunta a noi accompagnata da una tradizione costante, che l’ha sempre considerata come il ricordo più prezioso della vita terrena di Gesù

Tratto da: "SULLE TRACCE DEL CRISTO RISORTO" di Don Antonio Persili