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18 maggio 2014

Montecassino: ormai certo che decisero la distruzione per motivi non militari, ma spinti da un desiderio di devastazione che può spiegarsi solo col desiderio di far sparire dalla faccia della terra un simbolo tra i più significativi del detestato "papismo" cattolico

Su questa celeberrima montagna a sud di Roma, la parte degli "amici dell'uomo e della sua cultura" la
fecero nientemeno che i nazisti. I quali, in quelle zone, avevano steso, dopo il voltafaccia italiano e lo sbarco alleato nel Sud, una loro frettolosa "linea Gustav". Montecassino con la sua rocca, che sorge isolata nella pianura, costituiva un caposaldo ideale, ma il feldmaresciallo Albert Kesserling, cattolico bavarese ed esponente della vecchia casta militare pre-nazista che alla durezza accompagnava un suo concetto di onore, non se la sentì di fortificare il luogo, esponendolo così alla distruzione.

I tedeschi (figli, malgrado tutto, di uno dei Paesi più colti del mondo e per almeno un terzo restato cattolico) sapevano bene che cosa rappresentasse per la civiltà universale il luogo dove riposava, accanto a santa Scolastica, quel Benedetto da Norcia che non a caso sarebbe stato proclamato patrono principale d'Europa.

Qui fu scritta quella "Regola" che, nello sfascio della civiltà classica, contribuì potentemente a salvare il meglio del mondo antico e ad inaugurare il nuovo. Qui, nei grandi "scriptoria", i monaci avevano ricopiato le opere immortali destinate altrimenti all'oblio se non alla distruzione; qui era il cuore di un benefico esercito che, dalla Scozia alla Sicilia, aveva lavorato per più di mille anni non solo per la salvezza eterna degli uomini ma anche per una loro migliore vita terrena.

E, dunque, a dispetto di tattica e di strategia, Kesserling escluse Montecassino dalla linea di difesa, lasciando che tra quelle mura venerande trovasse rifugio, accolta dai monaci, una marea di profughi, di feriti, di ammalati, di vecchi, di donne.

E' ormai certo che gli Alleati, gli americani innanzitutto, sapevano bene che sul monte e nell'abbazia non c'erano truppe tedesche; ed è ormai certo che decisero la distruzione per motivi non militari, ma spinti da un desiderio di devastazione che può spiegarsi solo col desiderio di far sparire dalla faccia della terra un simbolo tra i più significativi del detestato "papismo" cattolico. Che la vandalica operazione rispondesse ad altri scopi da quelli strategici, lo conferma anche il fatto che furono annunziati pubblicamente il giorno e l'ora dell'inizio del bombardamento.

Così fu data ai tedeschi l'occasione di confermarsi, almeno qui, "amici" della civiltà: pur afflitta da una drammatica crisi dei trasporti, la Wehrmacht trovò i camion per portare in salvo in Vaticano parte dei tesori artistici e culturali dell'abbazia. A cominciare dallo straordinario archivio dove, tra l'altro, sta il primissimo documento del volgare italiano.

Sgomberate cose e persone, puntualmente - come da preannuncio - il 15 febbraio del 1944 una nuvola di fortezze volanti americane apparve nel cielo di Montecassino e iniziò il bombardamento "di precisione", mentre dalla pianura, per completare la distruzione, presero a tirare i grossi calibri alleati. Bombardarono e spararono per tre giorni, fino a quando non ebbero la certezza che dell'abbazia non restavano che rovine irrecuperabili (si scoprirà poi che tutto era stato distrutto, ma non la cripta, dove le reliquie di Benedetto e Scolastica furono ritrovate intatte). Tutto era stato concepito come uno "spettacolo": un'équipe di cineasti ufficiali filmò l'avvenimento.

Cessato il bombardamento, visto che non c'era più nulla da salvare, la Wehrmacht occupò il monte e si fortificò tra le macerie: sul piano strategico, il vandalismo americano si rivelò prezioso per i tedeschi, che nelle rovine trovarono un rifugio ideale per postazioni così solide da resistere per mesi e mesi ai sanguinosi assalti. I trentamila caduti alleati (tra cui molti polacchi) che riposano nei cimiteri della zona sono addebitabili anche alla decisione americana di distruggere l'abbazia.

Una follia sul piano militare, un crimine sul piano culturale ma, probabilmente, un'esigenza incoercibile e oscura, un bisogno liberatorio, per quel cocktail di protestantesimo radicale e di illuminismo massonico che, sin dagli inizi, informa la classe dirigente americana. Compresi, dunque, gli alti comandi militari. Ma, forse, questa vampata d'odio aiuta ad illuminare ancor meglio la grande avventura monastica, mostrandone l'importanza storica anche nello scatenarsi di tanta furia distruttrice.

Se poi qualcuno, in questo nostro sospettare fini non militari nel bombardamento della veneranda abbazia, ci pensasse afflitti da abusivi complessi di persecuzione, potrà leggere, tra gli altri, Giorgio Spini. Storico insospettabile in quanto valdese, tenace assertore della supremazia del protestantesimo, Spini descrive «le proporzioni assunte negli Stati Uniti dai movimenti anti-cattolici, con la disgustosa brutalità di certe loro manifestazioni». Continua questo storico riformato: «Anche a prescindere da simili intolleranze e isterismi, è indubbia l'esistenza - nella storia americana - di uno stato d'allarme per l'immigrazione cattolica e per la minaccia che potrebbe rappresentare per le istituzioni fondamentali americane».

http://www.storialibera.it/epoca_contemporanea/II_guerra_mondiale/montecassino_1944/articolo.php?id=609

A sessant’anni esatti di distanza anche Usa e Inghilterra ammettono che fu «un tragico errore». Ma come e perché si arrivò al bombardamento? 

IL BOMBARDIERE NUMERO 666 

Ricostruiamo la vicenda, che ha molte analogie con guerre e operazioni militari dei nostri giorni, cominciando proprio da quel 15 febbraio 1944, quando, alle ore 9 e 24 del mattino, l’abbazia di Montecassino è scossa da una tremenda esplosione, che interrompe la preghiera del piccolo gruppo di monaci benedettini nel cenobio mentre invocano l’assistenza della Madonna e recitano «et pro nobis Christum exora». Tra di loro c’è l’abate ottantenne dom Gregorio Diamare e il suo segretario dom Martino Matronola, che in seguito pubblicherà un diario, indispensabile per ricostruire quei drammatici giorni. Sulle loro teste e su quelle delle centinaia di profughi presenti nel monastero si è appena abbattuto il grappolo di bombe da 250 kg l’una sganciato dal bombardiere strategico numero 666, pilotato dal maggiore Bradford Evans, il quale, con un numero di codice così inquietante, guida la prima delle quattro formazioni di B-17, le fortezze volanti statunitensi, che hanno ricevuto l’ordine di distruggere il millenario monastero arroccato sul colle. Alle fortezze volanti seguono altre quattro ondate di bombardieri medi. Alle 13 e 33 è tutto finito, i monaci sono tutti salvi, ma diverse centinaia di profughi sono morti sotto le bombe, e sarà difficile, anche dopo la guerra, riesumarne i corpi e dare un nome alle lapidi.
Cambio di scena. Washington, ore 16 dello stesso giorno (in Italia sono le 22). Dopo circa dodici ore dall’inizio del bombardamento e il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt apre una conferenza stampa con queste parole: «Ho letto nei giornali del pomeriggio del bombardamento dell’abbazia di Montecassino da parte delle nostre fortezze. Nelle corrispondenze era spiegato molto chiaramente che il motivo per cui è stata bombardata è che i tedeschi se ne servivano per bombardare noi. Era un caposaldo tedesco, con artiglieria e tutto il necessario». Il presidente statunitense appare sicuro, come sicuri sono i giornali angloamericani: L’Air force colpisce i nazi su Montecassino, titola quel giorno il New York Times. Roosevelt forse non sa che sarà clamorosamente smentito dalla storia, ma non può non percepire che c’è qualcosa di strano in questa vicenda. Anche per un mondo in guerra da anni e per il quale morte e distruzione sono pane quotidiano. Infatti, mai i bombardieri strategici avevano avuto come obiettivo primario un monumento, peraltro in zona neutrale, una proprietà della Santa Sede, un monastero famoso in tutto il mondo cristiano, un luogo dove erano conservate inestimabili testimonianze storiche e artistiche. Inoltre stonava il dispiego di forze: 453 tonnellate di bombe scaricate, in otto ondate, da 239 bombardieri. Un’enormità. Come l’avrebbero presa i cattolici statunitensi quando di lì a pochi mesi avrebbero dovuto votare per rieleggerlo presidente degli Stati Uniti? Infine «il bombardamento di un unico obiettivo più pubblicizzato nella storia», come lo definì Newsweek, era quel giorno il titolo di apertura dei giornali di mezzo mondo. Quali sarebbero state le conseguenze politiche, chi avrebbe vinto la battaglia della propaganda? Roosevelt fece distribuire ai giornalisti anche una circolare del comandante supremo delle forze armate alleate in Europa, Dwight D. Eisenhower, rimasta fino ad allora riservata, in cui veniva spiegato che se nel corso dell’avanzata si fosse dovuto «scegliere tra la distruzione di un famoso monumento e il sacrificio dei nostri soldati, allora le vite dei soldati conteranno infinitamente di più». Ma, spiegava Ike, la scelta non era semplice. Perché dietro l’espressione “necessità militare” non dovevano nascondersi né convenienze personali, né rilassatezza o indifferenza. Ma era troppo poco per evitare una ricaduta negativa sull’opinione pubblica in Europa.

LA CONFUTAZIONE DELLE “PROVE INCONFUTABILI”

Roosevelt, come Winston Churchill da Londra, dopo il bombardamento decide quindi di difendere la bontà della decisione dei comandi alleati nel Mediterraneo. Non solo perché la situazione dell’avanzata verso Roma era in una fase delicatissima (le truppe alleate nella valle del Liri erano bloccate mentre nella zona di Anzio rischiavano di essere addirittura ributtate in mare), ma anche perché il generale inglese Henry Maitland Wilson, comandante supremo interalleato nel Mediterraneo, affermava di avere «prove inconfutabili» della presenza del nemico nell’abbazia prima del bombardamento. E, quando, il 9 marzo, il Foreign Office inglese chiederà a Wilson di poter fornire al Vaticano una spiegazione, supportata da fatti, sul perché il monastero fosse stato distrutto, nonostante le ampie garanzie date alla Santa Sede sul rispetto dell’abbazia, Wilson confermò di aver ben dodici «prove inconfutabili» sull’uso militare da parte dei tedeschi del monastero, ma suggerì anche di tenerle segrete, per impedire che i tedeschi costruissero in seguito false controprove. La promessa fu che le prove sarebbero state date al Vaticano a tempo debito. Tempo che non arrivò mai, tanto che, anche dopo la guerra, ci vollero inchieste e controversi studi storici sui documenti degli archivi militari, per concludere che si trattò di un errore. Una delle prove inconfutabili di Wilson fu fatta conoscere dopo la guerra da uno dei protagonisti, il capitano David Hunt, aiutante del feldmaresciallo britannico Harold Alexander, comandante in capo degli eserciti alleati in Italia. Hunt raccontò come, poco dopo l’inizio del bombardamento, gli venne passata la traduzione di un messaggio intercettato ai nazisti che diceva: «Ist Abt noch im Kloester?» e la risposta era «Ja». Abt era stato tradotto come abbreviazione di “reparto militare”, quindi la frase risultava essere: «Il reparto è nel monastero?». «Sì». Sembrò anche ad Hunt la conferma dei loro sospetti, la classica “pistola fumante” come sarebbe chiamata oggi. Ma “Abt” significa anche abate. E, racconta sempre Hunt, gli bastò continuare a leggere il testo dell’intercettazione per capire che i tedeschi parlavano dei monaci nel monastero e non delle loro truppe. Comunque, disse Hunt, era troppo tardi per fermare gli aerei in volo. Possibile un errore di questa portata? Bisogna anche tener conto che i servizi segreti molto spesso vedono e sentono quel che pensano faccia piacere a chi comanda. E così è stato anche in questo caso, basti pensare che, dopo l’inizio del bombardamento, il tenente Herbert Marks, del controspionaggio alleato, che osservava il monastero con un telescopio, pur essendo provato che non c’erano tedeschi, affermò di averne visti una settantina correre dal portone dell’abbazia al cortile. E un messaggio della V armata delle ore 11, dopo la prima ondata di B-17, riferiva: «Duecento tedeschi fuggono dal monastero lungo la strada». 

UN ORDINE MAI RIVENDICATO

Ma chi decise che Montecassino doveva essere distrutta? Nel libro Montecassino di David Hapgood e David Richardson (recentemente riedito da Baldini Castoldi Dalai), frutto di lunghe ricerche negli archivi militari, si afferma che non ci sono prove per dimostrare che la decisione fu presa ad un livello più alto del generale Wilson e del generale Alexander. Sta di fatto che la decisione finale di bombardare l’abbazia non fu mai rivendicata da nessuno nella scala gerarchica, a partire dai leader politici alleati, passando per gli stati maggiori e scendendo fino ai comandanti sul campo di battaglia. Solo un generale è passato alla storia come convinto assertore della necessità di distruggere Montecassino: Bernard Freyberg. Il comandante del contingente neozelandese, che dai primi di febbraio aveva preso posizione nella valle del Liri con i suoi uomini, era molto famoso in Nuova Zelanda, ma anche chi ammirava il suo coraggio ammetteva che stentava a concepire una strategia più complessa di quella di un toro in corsa. Così si ritrovò quasi subito d’accordo con il suo superiore Mark Clark sul piano che prevedeva la scalata del colle di Montecassino, nonostante che, già da settimane, questo piano fosse stato foriero solo di tremende perdite. Anzi, fin dai primi giorni, Freyberg scaricò sull’abbazia la colpa del mancato sfondamento delle linee tedesche, perché, secondo lui, i tedeschi guidavano da lì il tiro dell’artiglieria. Si arrivò così al 12 febbraio, giorno in cui Freyberg, per “necessità militari”, richiese con forza il bombardamento del monastero, paventando anche il ritiro delle sue truppe se non fosse stato accontentato. Clark non era d’accordo sia per motivi politici che militari, ma era in una posizione debole. Sulla sua immagine gravava ancora la sconfitta subita dalla divisione Texas il 20 gennaio. Il suo ordine di attraversare il fiume Rapido si era risolto nell’inutile sacrificio di quasi duemila soldati, e la notizia della sconfitta aveva fatto il giro del mondo. Inoltre, come scrisse Clark nel suo libro di memorie In guerra con Alexander, nella scala gerarchica sopra di lui c’erano due generali inglesi, e proprio Alexander gli disse a proposito del bombardamento: «Freyberg è un personaggio molto famoso nel Commonwealth, noi lo trattiamo con guanti di velluto e voi dovete fare altrettanto». Se si aggiunge il fatto che la quasi totalità dei giornali inglesi e statunitensi avevano avviato da molto tempo una martellante campagna di stampa in cui si affermava che i loro soldati stavano pagando con la vita la gentilezza dei comandi militari verso la Chiesa cattolica, e che era «meglio una vittoria in tasca che un Michelangelo sul muro», si comprende perché Clark si arrese e diede disco verde al decollo dei bombardieri. Non senza aver preventivamente lanciato volantini sul monastero per avvisare gli abitanti che le armi erano puntate su di loro. Per i profughi fu l’avviso di una condanna a morte, sia perché nessuno volle credere fino all’ultimo che si arrivasse a tanto, sia perché non ebbero possibilità di fuga, essendo circondati, per molti chilometri, da due eserciti in battaglia. 

Il figlio di Freyberg salvato dalle suore 

Per uno di quegli imponderabili paradossi che la storia sa regalare, proprio Freyberg, che volle a tutti i costi distruggere uno dei monumenti più significativi del cristianesimo, ebbe in quei giorni il figlio salvo grazie all’ospitalità che trovò in un monastero di suore di Castel Gandolfo, le quali nascosero questo giovane tenente di fanteria dopo che era fuggito dai tedeschi, che lo avevano catturato ad Anzio. Anche Castel Gandolfo fu tra quelle proprietà della Chiesa che, seppur in zona neutrale, vennero bombardate in quei mesi con le stesse motivazioni addotte per giustificare la distruzione dell’abbazia di Montecassino: “necessità militari”. Ma forse neanche la sorte del figlio avrebbe fatto cambiare idea al generale Bernard Freyberg, visto che non rinunciò al bombardamento neanche quando il giorno prima del decollo degli aerei si rese conto che era inutile dal punto di vista militare, perché i suoi uomini, inchiodati dalle postazioni tedesche, erano troppo lontani dall’obiettivo e non avrebbero mai potuto occupare le rovine dell’abbazia prima del nemico. Il comando dell’Air force si rifiutò di rinviare il bombardamento, perché dal 16 febbraio gli aerei avrebbero dovuto operare nella zona di Anzio. Freyberg decise quindi di tirare dritto e le conseguenze sono sui libri di storia, oltreché nei tanti cimiteri di guerra che furono in seguito allestiti nella zona. Freyberg ebbe molti più bombardieri di quelli richiesti, perché l’aviazione Usa colse l’occasione per dirimere una vecchia questione: se fosse più efficace il bombardamento diurno, come affermavano loro, o quello notturno caldeggiato dagli inglesi. 
I tedeschi, come anche il comandante neozelandese aveva previsto, occuparono per primi le rovine e la battaglia a valle e a monte riprese feroce. Il paese di Cassino nelle settimane successive fu bombardato al punto che i carri armati americani non potevano procedere nell’avanzata, fermati dai crateri scavati dalle bombe dei loro stessi aerei e dalle loro artiglierie. Ci fu un dispendio di risorse economiche infinito. Una collina venne addirittura ribattezzata “One-million hill”, perché era stato calcolato dagli artiglieri che uccidere ogni singolo soldato nemico era costato 25mila dollari in proiettili. «Forse sarebbe stato più semplice se quella cifra» scrisse amaramente il famoso corrispondente di guerra Ernie Pyle «l’avessero offerta ai tedeschi per andarsene». 





10 febbraio 1944. Tra le 9 e le 10 del mattino, i bombardieri alleati colpiscono il Collegio di Propaganda Fide e Villa Barberini, situati tra Albano Laziale e Castel Gandolfo, ma nel territorio, neutrale, del Vaticano, provocando oltre 500 vittime civili, nonostante il Presidente Roosvelt si fosse impegnato con Pio XII:
«Le chiese e le istituzioni religiose saranno, per quanto dipende da noi, risparmiate dalle devastazioni belliche nella lotta che ci sta davanti. Durante il periodo delle operazioni militari, la posizione di neutralità della Città del Vaticano, come pure i possedimenti pontifici in Italia, saranno rispettati».